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La separazione ripensata. La fuga, l'egoismo e il gesto dell'amore

Post n°213 pubblicato il 18 Febbraio 2011 da djchi
 

 

 

 

Non ho mai davvero riflettuto alla separazione così come in Senegal. Da zingara abituata a cambiare posti e persone, l'avevo sempre vissuta come una necessità vitale. Le mie erano spesso fughe, dal soffocamento di ambienti limitanti, mentalità poco aperte, persone banali o, forse più semplicemente, da me stessa. Chiara aveva bisogno di ritrovare Chiara e allora via, valigia e tacchi, lontana, dove tutto sarebbe stato nuovo, me compresa. Imponevo separazioni alle persone care e da egoista non me ne curavo. Le persone che mi amavano hanno dovuto fare i conti con uno spirito incostante, che le amava, certo, ma che, libero e libertino, mal sopportava la staticità della quotidianità. Ne ho viste di lacrime e di volti sofferenti. Nessuno capiva davvero perché quel mio bisogno vitale di scappare, di rimettermi alla prova, di ricostruire un'altra vita, per poi ripartire. Dopo anni, parenti e amici, hanno saputo convivere con questo mio lato irrequieto, soffrendo in silenzio, sapendo che, prima o poi qualcuno sarebbe ritornato a bussare alla porta, la valigia piena di ricordi ed emozioni. No. Non ho mai pensato la separazione. Per me era liberazione. E in fondo tutte le mie esperienze di viaggio avevano il loro apice nella partenza. Da lì tutta l'energia partiva, un'energia fatta di entusiasmo, curiosità, adrenalina per una meta ignota e poi le notti e i giorni sulla strada, gli aeroporti, gli incontri con altri animi inquieti e, infine, la pace dei sensi, dopo che, come una tossica, ricevevo la mia dose. Ero in viaggio, questa la mia droga. Cosa salvava me e le persone care? Il fatto di sapere che prima o poi sarei tornata. La lontananza diventava meno pesante e l'assenza sopportabile. Una delle ragioni per cui amo il Senegal è perché è stato l'unico paese che mi ha saputo tenere. Nessun luogo era mai stato abbastanza per meritare la mia presenza. Qui tutto era davvero troppo. Un paese fastidioso e invadente che, giorno dopo giorno, mi si metteva di fronte, come uno specchio, a dirmi: “Eccoti. Questa sei tu”. Odio e amore, energia e pigrizia, sole e smog, modernità e tradizione. E sono sempre stata cosciente che ogni volta che criticavo il Senegal, criticavo me; ogni volta che lo osannavo, osannavo me; ogni volta che sentivo il bisogno di andarmene era perché non mi piacevo più; ogni volta che sentivo la mancanza di questa terra era perché avevo il bisogno di ritrovarmi, in tutta la mia irruenza. No, nessun paese mi aveva tenuta a terra come il Senegal. Ed è qui, in questa terra che ho ripensato la separazione. Da egoista impongo le mie fughe ma mal sopporto quelle di chi amo. Vivo le partenze con dolore, strappi laceranti che rimarginano lenti. E il mio Senegal, fatto da persone speciali non avrebbe potuto essere tale senza di loro. Sì. Questo è davvero il posto per animi egoisti. Le persone non possono partire. I senegalesi non hanno il diritto di viaggiare come noi. In molti casi saranno obbligati alla prigionia nei loro stessi confini. No. Non sono la sola di egoista. Ci sono un sacco di europei fragili ed egoisti che vengono qui, forti della possibilità di andarsene in ogni momento, ma sicuri che il mondo che si costruiranno rimarrà lì, fermo, dov'è stato costruito. Dipendente in un certo senso dalla nostra presenza o dalla nostra assenza. E allora i senegalesi amano, condividono, gioiscono, soffrono e poi vedono partire e tornare e ancora partire e poi tornare e ripartire e mai più tornare. Il cuore, diventato ormai elastico, si contrae e si rilassa. Qui non è permesso soffrire per una separazione, per un viaggio, altrimenti sei destinato a morire. Qui si vive la speranza. La speranza che tanto prima o poi chi parte tornerà; che la persona amata continui ad amare per tutto il tempo della sua assenza; che magari un giorno aiuterà anche l'amato a partire; che un lieto fine, cazzo, quello sì dovrà arrivare. Rimane il telefono e poi Skype. Gli appuntamenti sono di fronte ad un PC e sempre con il cuore in gola, troppa la paura che non vi sia corrente o che dall'altra parte del telefono la persona non risponda o che risponda per dire: “Scusa ma è meglio se ti fai la tua vita”. Che brutto scherzo del destino finire a nascere in un paese dove sei costretto alla prigionia. E i senegalesi, come i detenuti, guardano fuori dalle sbarre e sognano, immaginano posti lontani e vite differenti e meditano infinite vie di fuga sperando di liberarsi dalle catene, per scoprire, imparare, sperare, ritrovare persone amate lontane o, più semplicemente, loro stessi. E poi, come in carcere, ci sono le visite, persone care, libere, che arrivano a tratti per portare piatti caldi, il tempo di un istante e poi via, di nuovo. E i senegalesi aspettano e vivono separazioni quotidiane. Un'angoscia soffocante e singhiozzi e lacrime chiusi nelle camere con vecchie avvolte in veli colorati che accarezzano volti adolescenti dicendo che questo è normale, che prima o poi le persone ritorneranno. E' no, cazzo, questo non è normale. Non c'è niente di normale in tutto questo dolore lento e prolungato.

Ripeto, da egoista, ho sempre desiderato che il mio piccolo mondo senegalese restasse immutato nel tempo, che persone e luoghi rimanessero lì dove li lasciavo ad ogni partenza perché in fondo, non era nemmeno il Senegal in sé che amavo, ma le persone che avevo incontrato e che avevano reso magico e speciale questo posto. E invece, anno dopo anno, come una senegalese, facevo i conti con partenze impreviste e distacchi e separazioni. E non capivo nulla, all'inizio. La gioia delle persone di poter fuggire, la preparazione di un viaggio, spesso nascosta, e il lento, massacrante conto alla rovescia, verso quel giorno in cui avrei visto partire un amico sapendo che forse non l'avrei più rivisto. Chi parte spesso non può tornare, sarà il destino a decidere per lui se e quando. Nel peggiore dei casi nessuno dice niente, solo una telefonata, come quella di Aly: “Ciao Chiara, sono Aly. Sono in Belgio. Volevo dirti che sei stata una delle persone a cui ho voluto più bene. Non ti dimenticherò mai”. E il mio stupore, ma come, Aly, uno dei miei più cari amici, ieri ridevamo assieme a Sandaga e oggi come, come puoi telefonarmi e dirmi che te ne sei andato e io non ho mai capito nulla mentre tu stavi preparando la fuga? E' dura. E penso allora a chi lo vive quotidianamente, alle madri, ai padri, alle fidanzate. Che dolore maggiore sarebbe stato se Aly, invece che un amico, fosse stato il mio promesso sposo? Come avrei potuto sopravvivere la notte? Questo è il Senegal. E questa l'ingiustizia taciuta, quotidiana, normale che invece non è normale. E i senegalesi accettano e mandano giù e accolgono e covano la rabbia dentro il loro cuore, per chi viene ed è libero e che poi magari se ne innamorano pure, di chi viene, del bianco e sono costretti pure a dover giustificare il loro amore dalle paure paranoiche di chi pensa sia solo per interesse, dalla gelosia, dall'invidia, dalla partenza di chi si ama e che ancora, magari, preso dalla paura di una fuga dell'altro, scappa prima che sia troppo tardi. Tanti europei egoisti sono stati accolti in Senegal, uomini e donne che non vogliono liberare gli amati per paura di scoprire se l'amore che li lega sia vero o meno, accecati dalla paura che chi si ama scappi, finalmente liberato da un permesso di soggiorno tanto atteso. Separazione. Ho visto soffrire tante volte che il mio egoismo comincia a crollare pian piano. Il Senegal è anche questo, ti insegna ad aprire il cuore e a condividere e ad augurare alle persone di poter partire e di poter essere liberi. E' stato un percorso lungo e difficile il mio, visto il mio passato di abbandoni, ma ora riesco finalmente a lasciare andare le persone lontane, verso il loro destino, non curandomi nemmeno più di quando e se le rivedrò. Le porterò nel cuore. Questa è la cosa più importante e loro vivranno in me ogni volta che chiuderò gli occhi e le penserò. E' stato così anche per A., eppure non l'ho conosciuto così tanto e l'avevo già giudicato. Dietro quella corazza da duro, un cuore buono e tanta voglia di farmi sapere che in fondo avevo giudicato senza darmi il tempo di conoscere. Ho vissuto la sua partenza tramite la persona che qui l'aveva amato come nessuno mai, sì, una ragazza europea. Lei che con lui aveva condiviso tutto, ora lo vedeva partire lontano, per sempre. Quante lacrime e quanti lunghi abbracci. E l'amore vero, quello di lei, che lo lasciava libero di viaggiare, nella consapevolezza di quel gesto di massimo amore. Lui, che forse non si era mai reso conto di quanto lei lo amasse, ha capito di amarla proprio lì, di fronte all'aeroporto quando solo lei, quella piccola ragazza bianca dai lunghi capelli castani era lì per augurargli buona fortuna. L'amore libera si dice e si dice bene. Me per farlo bisogna avere un gran cuore. E il mio, ancora piccolo, forse non è pronto a questo gesto supremo. Ancora un pò infantile, ancora un po' egoista. E capisco allora perché ho scelto il Senegal. Da egoista.

 

 


 

 

 




 

 
 
 
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