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La rivoluzione liberale è un vestito mai indossato.

Post n°87 pubblicato il 31 Marzo 2009 da amministratore_blog

Berlusconi ha avuto il merito di "sdoganare" nel discorso pubblico la libertà economica e l'idea che la tassazione sia un male. Oggi questo "vestito mai indossato" sta bene alla destra e alla sinistra.
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A chi non milita nel centro-destra ma anche a chi lo guarda con simpatia, il congresso del Pdl è servito soprattutto per fare il punto sull’evoluzione del berlusconismo. Il bilancio di quindici anni in cui la non-sinistra è sempre stata “maggioranza nel Paese” anche se non necessariamente alle urne, come ha detto Berlusconi, è magro. Luca Ricolfi sulla Stampa ha scritto che l’impressione è che la concorrenza politica sia stata fra “due conservatorismi”. Pdl e Pd (e così i loro “predecessori”) rappresentano sia istanze di modernizzazione, che rendite di posizione. Le prime si annullano a vicenda: laddove la destra voleva innovare (ieri il mercato del lavoro, oggi il pubblico impiego), la sinistra ha coagulato attorno a sé importanti resistenze. Dove invece era la sinistra a voler voltare pagina (nelle professioni, per esempio), la destra si è fatta garante di equilibri consolidati.
Non è sorprendente che questo abbia prodotto un progressivo cambio di registro. Pdl e Pd (pensate al discorso di Berlusconi alla fiera di Roma, ma anche alla surreale invettiva contro il liberismo del Franceschini cileno) si affrontano sempre meno sul piano delle policies e sempre più su quello dell’identità. Le differenze vengono affermate nell’ambito di promesse dichiaratamente impossibili da mantenere. Non sul terreno concreto, e per questo scosceso, dei tagli alle tasse, o della semplificazione della vita di cittadini e imprese. Ma sulla vita e sulla morte, su Islam e Occidente, sull’immigrazione. La politica si proietta su uno schermo che non le compete, abbraccia scenari sui quali un Paese relativamente marginale come il nostro non potrà mai dir nulla, rifugge dalle discussioni di dettaglio, perché i dettagli sono noiosi e perché nei dettagli sta il diavolo dell’impegno, della capacità di incidere e decidere.
In Italia la politica viene subito dopo il calcio, nella classifica degli argomenti di discussione più amati. Solo che nel calcio tutti facciamo il tifo, ma qualcuno lo gioca. I nostri politici, invece, sono solamente i capo-tifosi, una torma infinita di arringatori di ultras.
In casa berlusconiana, negli anni sono cambiati i simboli, i punti di riferimento. La “rivoluzione liberale” citata dal Cavaliere venerdì (e ripresa con l’ottimismo della volontà solo dal Giornale di Mario Giordano) è un vestito paradossalmente logoro perché mai indossato. Il richiamo del Cav alla dichiarazione d’indipendenza americana, che confonde con la Costituzione, tanto quanto una volta era convincente, sembrava la campana a morte della prima repubblica, ora è un pro-forma. In quella reincarnazione del pentapartito che è il Pdl, i founding fathers degli Stati Uniti stanno assieme ai lari e penati della repubblica democratica fondata sul lavoro. Francamente, è un po’ troppo. Dall’antipolitica, siamo passati al post-politica. Per coltivare una vera “vocazione maggioritaria”, serve anche questo.
Tuttavia, credo che in realtà a Berlusconi le “forze che puntano alla modernizzazione del Paese e sono da sempre minoranza” (Ricolfi) debbano un briciolo di gratitudine. Persino oggi. Per due motivi. Il primo, è che oggettivamente Berlusconi ha squassato il discorso pubblico. L’ha cambiato profondamente, e nonostante la crisi, nonostante gli zombie keynesiani che scappano dai cimiteri e i residui della nostra tecnocrazia che tornano a battere bandiera statalista, il Novantaquattro c’è stato. Il genio di Berlusconi fu allora strappare la battaglia fiscale dalle mani di Bossi, facendola sua. Dal punto di vista delle politiche, non so se sia stato un passo in avanti. Forse un Nord arrabbiato e solo, avrebbe spuntato più facilmente un nuovo patto fiscale. In generale, la pressione fiscale ha conosciuto oscillazioni minime. Ma il Berlusconi con la calza sulla telecamera ha cambiato l’Italia almeno in un senso. Da allora, l’idea che la tassazione sia un semplice strumento di politica economica ha vita più grama. Ed è pian piano germinato un segmento di opinione pubblica che non crede che i redditi dei cittadini siano creta a disposizione della classe politica.
L’abbassamento delle tasse è la lepre che il levriero berlusconiano insegue a vuoto da anni. Se è così, una quota di responsabilità ce l’ha anche l’élite del Paese: che quando quella promessa era la prima pietanza del menù imbonito da Berlusconi ai suoi elettori, la ridicolizzava come qualunquismo economico.
Ora, quello stesso pezzettino del Paese rimprovera al presidente del consiglio di non volerci più nemmeno provare. La libertà economica è stata “sdoganata” anche presso coloro che ieri la irridevano come “libertà dei padroni”. Se si può dire che il liberismo è di sinistra, il merito è del Berlusconi che ha rinfoderato le parole rivoluzionarie per praticare il tirare a campare. E’ la “liberalizzazione del liberismo”. La libertà economica in Italia non è un legato da preservare: è ancora una prospettiva politica. E fa finalmente parte del vocabolario dei “migliori”, gli integratissimi bastiancontrari che al governo non saranno mai ma contribuiscono a plasmare il modo in cui pensano i loro concittadini.
Nel lungo periodo, questo fatto relativamente nuovo, questo recente convergere su agende e agendine liberaleggianti da parte dell’intelligenza del Paese, apre una finestra d’opportunità. Il problema è che intanto, un po’ per opportunismo suo e un po’ per le preconcette ostilità d’altri, ci siamo giocati il breve periodo berlusconiano. E nel medio, forse non saremo tutti morti ma continueremo a pagare troppe tasse.

Di Alberto Mingardi, da "Il Riformista"
29 marzo 2009

 
 
 
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