Creato da Pitagora_Stonato il 12/07/2010

EREMO MISANTROPO

se non avete nulla da aggiungere astenetevi. Grazie

 

 

"Il Regno" - Emmauel Carrère

Post n°1408 pubblicato il 08 Settembre 2017 da Pitagora_Stonato
 

 

Ulisse arriva finalmente, a Itaca. Penelope lo aspetta da vent' anni - dieci anni di guerra, dieci anni di peregrinazioni. E’ invecchiata, ma la sua saggezza è rimasta intatta. Dà prova della sua abilità facendo penare i pretendenti che vorrebbero che Ulisse venisse dichiarato morto per dividere con lei il giaciglio. Ulisse si aggira intorno al palazzo, in incognito. Finge di essere un mendicante. Osserva quel mondo, che è il suo, senza di lui. Si fa riconoscere dalla nutrice Euriclea, dal porcaio Eumeo, dal cane Argo, poi stermina i proci, e dopo quest'impresa sembra giunto per lui il momento di farsi riconoscere da Penelope. Eccolo davanti a lei. Penelope lo squadra. Dovrebbe gettarsi fra le sue braccia, e invece no, non si muove. Tace. Telemaco, il figlio, che ha anche lui riconosciuto Ulisse, accusa la madre di avere un cuore di pietra. Penelope non ha un cuore di pietra: è prudente, e conosce bene la mitologia. Sa che gli dèi sono capaci di assumere qualsiasi aspetto, per ingannare gli uomini e più spesso le donne, e dice: « Se veramente / è Odisseo e a casa è tornato, certo noi due / ci riconosceremo anche meglio: perché anche noi / abbiamo dei segni, che noi soli sappiamo, nascosti agli estranei». Questi segni segreti, decisivi nelle fiabe e nelle storie di fantascienza in cui il protagonista, trasformato in rospo o inghiottito da un buco temporale, deve farsi riconoscere da qualcuno che non può riconoscerlo - al suo posto, neanche il protagonista riconoscerebbe se stesso - questi segni segreti non sono dello stesso tipo della cicatrice sulla coscia che la nutrice Euriclea ha notato accanto al fuoco. Potrebbero essere delle parole scambiate facendo l'amore, mormorate nel momento del piacere. Del resto, quando Penelope parla di segni segreti, Ulisse sorride. Forse non è l'unica volta che Ulisse sorride nell’ Odissea, ma è l'unica volta che Omero ce lo dice, e non è certo un caso. Poi Ulisse si fa lavare, ungere e vestire, e quando esce dal bagno vede che Penelope gli ha fatto preparare un letto. Il loro letto. Allora Ulisse racconta la storia di questo letto, massiccio e accogliente, che ha costruito con le sue stesse mani a partire da un tronco d'ulivo. Dice come ha sgrossato il legno, come l'ha piallato, tagliato, levigato, assemblato con perni, intarsiato d'oro, argento e avorio, munito di cinghie di cuoio color porpora, e a mano a mano che parla di quel letto, che è il luogo del loro desiderio, il luogo della loro fecondità, il luogo del loro riposo, Penelope si sente sciogliere le ginocchia e il cuore. Quando Ulisse finisce di parlare, Penelope si getta fra le sue braccia, Ulisse la stringe a sé, e forse ricorda - in ogni caso le ricorda il lettore - le parole che ha detto alla giovane e bellissima principessa Nausicaa quando le è comparso davanti la prima volta: «Gli dèi ti concedano quanto nel tuo cuore desideri, / un marito e una casa, e per compagna la felice / concordia; perché non c'è bene più saldo e prezioso, / di quando con pensieri concordi reggono la casa / un uomo e una donna».

 

Da "Il Regno" Emmanuel Carrère- Adelphi

 

 
 
 

Due rabbini vanno a New York Per un congresso di rabbini

Post n°1407 pubblicato il 08 Settembre 2017 da Pitagora_Stonato
 

Due rabbini vanno a New York Per un congresso di rabbini. All' aeroporto decidono di prendere lo stesso taxi e nel taxi fanno a gara a chi si mostra più umile. Il primo dice: « E vero, ho studiato un po' il Talmud, ma quello che so io è poca cosa in confronto a quello che sa lei». « Poca cosa? » dice il secondo. «Lei vuole scherzare  lo non posso neanche paragonarmi a lei». « Ma cosa dice? » replica il primo. « In confronto a lei io sono una nullità ».« Una nullità, lei? Sono io la nullità... ». E così via, finché il tassista si gira e dice: « Vi sto ascoltando da dieci minuti: due grandi rabbini clic affermano di essere delle nullità. Ma se voi siete delle nullità, allora io che cosa sono? Meno di una nullità... » . Al che i due rabbini Io guardano, si guardano e dicono: « Senti questo! Ma chi si crede di essere? ».

 
 
 

Universale fu lo stupore quando...

Post n°1406 pubblicato il 29 Agosto 2017 da Pitagora_Stonato
 

 

 

... ci disse che il suo nuovo compagno sapeva piegare le lenzuola...

 

Quelle con gli angoli!

 

PITSTON

 
 
 

Meglio donna che male accompagnata

Post n°1405 pubblicato il 07 Luglio 2017 da Pitagora_Stonato
 

(...) mentre si rotolavano sul tappeto in un impeto lei gli ha sussurrato:" Dimmi le parolacce, ti prego dimmi le parolacce!". E lui, dopo averci pensato un po':" Tuo fratello è uno stronzo!"

 

GEPPI CUCCIARI

 
 
 

dormire alternativo

Post n°1404 pubblicato il 12 Giugno 2017 da Pitagora_Stonato
 



PITSTON: " sai cosa è il bello del dormire sul tatami?"


IGN: " no... davvero non saprei cosa ci sia di bello nel dormire sul pavimento"


PISTON " puoi saltare sul letto senza paura di romperlo !!"


IGN : " si, ma non rimbalza"

 
 
 

... verrà il giorno

Post n°1403 pubblicato il 09 Giugno 2017 da Pitagora_Stonato
 

 

...che avrò scordato la password !

 
 
 

Crepuscolo di un idolo - Michel Onfray

Post n°1402 pubblicato il 29 Maggio 2017 da Pitagora_Stonato
 

 

Uno sbarramento sofistico                

                                                          

                                                          

                                                          

                                   La verità non può essere tollerante.              

                                   S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi (XI, 264)

           

E se non si crede alle finzioni freudiane? Se non si aderisce alla sua psicologia letteraria? Se si dubita dell'universalità del complesso edipico? Se non si accetta l'ipotesi che ogni ragazzo nutra desideri sessuali per la propria madre, e, conseguentemente, non desideri uccidere simbolicamente il proprio padre? Se si resiste all'idea che tutti noi abbiamo assistito alla scena primordiale di una copulazione tra nostro padre e nostra madre o de visu, o che il nostro inconscio conserverebbe la traccia di ciò che non può non essere avvenuto alle origini dell'umanità? Se si pensa che il tropismo incestuoso riguarda un solo uomo, senza che per questo ne sia affetta tutta l'umanità? Se si pensa che un mito è il contrario della scienza, e che perciò noci si dovrebbe poter parlare di mito scientifico? Se non si accetta l'idea che tutti i padri avrebbero il fantasma inconscio di abusare sessualmente dei loro figli? Se si pensa che il pasto totemico e la manducazione del corpo del padre dell'orda primordiale sono qualcosa di stravagante?           Se si stima che, quando si prendono in esame le patologie altrui, la verità del corpo concreto dovrebbe pesare di più dell’ipotesi di un inconscio noumenico dotato di tutte le qualità di un dio monoteista?  Se si preferisce la causalità dialettica alla causalità magica? Se ci si preoccupa meno dello sciamano o dello stregone e più del medico o del chirurgo per risolvere i propri problemi di salute? Se si sospetta che il lettino è un accessorio moderno nel vecchio teatro dei guaritori? Se, dopo aver esaminato la questione, si pensa che Freud ha mentito  molto; curato poco e guarito quasi per niente? Se si dubita che lo psicoanalista pensa più a sé stesso, al proprio reddito, alla propria disciplina, alla propria corporazione, che alla guarigione del suo paziente? Se si pensa che un conquistador vive su un pianeta diverso da quello in cui vive un uomo di scienza? Se si stima che la psicoanalisi è un'eccellente terapia ma per il suo inventore e solo per lui? Allora, vuoi dire che siamo troppo malati e che dobbiamo stenderci urgentemente sul lettino.

In effetti, Freud ha previsto tutto per impedire che si possa dubitare intellettualmente della sua invenzione, dal momento che la dottrina include una lettura dottrinaria del rifiuto della dottrina. Pertanto non si può sfuggire all'impero freudiano e al dominio ideologico di questo pensiero totalizzante, dunque totalitario, dove non esiste porta d'uscita. Da un punto di vista ideologico, la società psicoanalitica è inattaccabile, chiusa su sé stessa. Ha previsto il tribunale per giudicare gli oppositori, la difesa è dentro l'opera, le argomentazioni vengono esposte dieci volte, la perorazione del procuratore, che parla in nome dell'inconscio, viene distillata dappertutto nell'intera opera di Freud

La leggenda è stata costruita dunque attraverso l'autodifesa personale di Freud che ricorre alla scultura agiografica di sé negli scritti autobiografici - l'Autobiografia e Per la storia del movimento psicoanalitico forniscono la base; viene portata avanti con la produzione di una matrice autobiografica compiuta da un discepolo zelante, Ernest Jones, il quale, grazie a un monumento di carta, diffonde la favola del maestro così come era stata da lui fissata nei suoi racconti autobiografici; si giova infine dell'efficacissima costruzione di un apparato di dominio ideologico viennese, austriaco, europeo, americano, mondiale, grazie a congressi, case editrici, riviste, discepoli, organizzazioni, segrete o pubbliche, il tutto diretto, con mano maestra sul modello del padre, del dio, del capo, del dominatore dell'orda primordiale. La fabbrica di una macchina propagandistica a uso del tribunale rivoluzionario freudiano implica dunque una chiusura sofistica che si attiva non appena compare la minima critica

È questo dunque lo schema tipico della difesa contro lo storico che fa il suo lavoro e propone una lettura della leggenda che cerca di far emergere i fatti, la verità, il reale, le prove, l'indiscutibile, il certo, l'evidente. Grazie allo spirito di corpo, un secolo dopo il suo approdo sulle coste del paese delle meraviglie inconsce, il conquistador dispone di un esercito zelante che va all'attacco con la sciabola sguainata per difendere il regno delle causalità magiche con l'aiuto di una dialettica truccata.

Visita dell'arsenale. Uno: ogni opposizione proveniente da un individuo non analizzato è nulla; due: ogni rifiuto dell'analisi segnala inequivocabilmente un nevrotico, il cui ragionamento, de facto, non è valido; tre: ogni critica alla psicoanalisi si basa sulla critica a Freud in quanto ebreo, e dunque è  sospetta di antisemitismo; quattro: qualunque critica che provenga dal terzo escluso della coppia analista/analizzato è infondata; cinque: ogni insuccesso della psicoanalisi è imputabile al paziente, mai allo psicoanalista - si vedano le resistenze, il tornaconto della malattia, l'insuccesso a causa del successo, in quanto la nevrosi può nasconderne un'altra, ossia la vischiosità della libido, il transfert negativo, la pulsione di morte, il masochismo, il desiderio di dimostrare la propria superiorità all'analista; sei: dopo aver tentato di tutto per giustificare la disciplina, si può talora prendere in considerazione il fatto che lo psicoanalista non è ancora abbastanza psicoanalista...

 

 

da "Crepuscolo di un idolo - smantellare le favole freudiane"  Michel Onfray- Ponte alle grazie

 

 
 
 

Alghe americane - Akiyuki Nosaka

Post n°1401 pubblicato il 03 Aprile 2017 da Pitagora_Stonato
 



(...) Nell'estate del 1946 la mia famiglia abitava a Omiyacho, un quartiere distaccato da Osaka, e forse..a causa della vicinanza di tante famiglie di agricoltori, le razioni tardavano o mancavano del tutto. Mia sorella minore andava più volte al giorno fino al magazzino di riso nella speranza di vedere qualche annuncio scritto sulla lavagna appesa all'esterno, ma tornava spesso a casa delusa. Rimanemmo solo con del salgemma e del lievito in polvere, così provammo a scioglierli nell'acqua, quel beverone, però, provocava conati di vomito, e neanche la fame riuscì a farcelo bere. Grazie a Dio in quel momento ci annunciarono l'arrivo dei razionamenti: questa volta sarebbe stato per sette giorni. Era stata la moglie del barbiere a darci la notizia, correndo verso di noi e facendo sballonzolare fuori dalla scollatura quelle mammelle da vacca che si ritrovava. Afferrai il setaccio del miso, poi, pensando che sarebbe stato troppo piccolo per contenere un razionamento da sette giorni, decisi di portare anche un sacco. Fino a quel momento ci avevano sempre e solo rifornito per un massimo di due o tre giorni, e a una famiglia composta da tre persone spettava solo una manciata di riso, per cui un sacco sarebbe stato esagerato. Ora finalmente serviva, così gettai d'istinto, il setaccio e corsi verso il magazzino dov'erano accatastati i cartoni verdi dell'esercito americano. Lì fuori, alcune donne aspettavano la loro razione tra risate e discorsi osceni. (…)

Sapevamo che quelle scatole verdi non contenevano riso, bensì aiuti umanitari dall'America. Tutti rimanemmo in attesa di sapere che cosa ci avrebbero dato questa volta. Albicocche? Formaggio? Una volta ci avevano consegnato delle albicocche zuccherate, che però non ci saziarono, e del formaggio che, con i suoi nutrienti, unito alla zuppa di miso era risultato una prelibatezza. Davanti a numerosi sguardi in fremente attesa, il vecchio proprietario del magazzino apriva quegli scatoloni con un grosso coltello da cucina, facendo uscire diverse scatolette avvolte in carta colorata di rosso e verde.

- Calma, calma! - aveva detto per frenare l'entusiasmo di quelli che congetturavano sulla natura del contenuto. - Questa scatola non contiene riso ma razioni di gomma da masticare per sette giorni. Oh, guarda - esclamò tirandone fuori una come se si fosse trattato di una pietra preziosa, questa è per tre giorni! In ogni scatola c'erano cinquanta pacchetti da cinque chewin-gum l'uno, e la razione per sette giorni che spettava alle famiglie composte da tre persone come la mia era di nove scatole. Erano belle pesanti, e a trasportarle restituivano una sensazione di abbondanza. Mia sorella mi venne incontro ansiosa di sapere cosa fossero, e appena le svelai il contenuto esultò. Mia madre, invece, ne ripose una confezione davanti alla foto di mio padre sul piccolo altare buddista in legno bianco grezzo che un falegname del vicinato le aveva costruito in cambio di uno dei suoi kimono da festa, recuperato durante lo sfollamento, facendo suonare il campanello in segno di offerta. Lo stesso suono segnava anche l'inizio della nostra cena, che prometteva essere molto divertente: scartammo i chewing-gum e iniziammo a masticarli uno a uno dopo aver contato di poterne consumare ben venticinque per pasto. Il gusto, però, svaniva dopo poco, così per conservarlo ci riempimmo la bocca: avevamo le guance talmente piene che sembrava stessimo masticando qualcosa di sostanzioso come un anpan, un daifuku o un manju, ma la sensazione non era certo la stessa.

- Questa devo sputarla? - chiese mia sorella indicando una delle gomme, oramai scolorita, tenendola su un dito

—Già...

Altro che calmar la fame: a quelle parole mi resi conto che non avremmo mai potuto tirare avanti in quel modo per sette giorni, e come previsto quel senso di vuoto nello stomaco tornò più crudo di prima. Impotente, scoppiai a piangere dalla rabbia. Alla fine mi recai al mercato nero verso l'ora di chiusura per rivendere le gomme, e col denaro ottenuto comprai della farina di mais con la quale finalmente riuscimmo a placare la fame. Detto questo, non sto lamentandomi per come sia andata a finire, però fu così che scoprii che i chewing-gum non riempiono la pancia.


" Una tomba per le lucciole - Alghe americane" - Akiyuki Nosaka - Collana Novel - Kappalab

 

 

 

 

 
 
 

Rosita... Rosita... ti insegno io a giocare a nascondino!

Post n°1400 pubblicato il 27 Marzo 2017 da Pitagora_Stonato
 

 

 

 

 

 

vieni Rosita... vieni...

 

 

 

 

 

 

 
 
 

AMOR VINCIT OMNIA

Post n°1399 pubblicato il 15 Marzo 2017 da Pitagora_Stonato
 

 


CAPITOLO TRENTUNESIMO

AMOR VINCIT OMNIA

Nella chiesa di Svartsjö, sotto la scala della tribuna, vi è un ripostiglio ingombro di roba vecchia: vanghe per le fosse consunte, banchi di chiesa in pezzi, targhe di; metallo asportate, ed altre cianfrusaglie.

Là dentro, dove la polvere è così spessa che la nasconde allo sguardo insieme al resto, si trova anche una cassa intarsiata di un prezioso mosaico di madreperla. Se appena la si ripulisce un po', sembra brillare e scintilla come la parete di una montagna in una fiaba. La cassa è chiusa a chiave e la chiave è in mani sicure, perché nessuno deve servirsene. A nessun mortale è concesso gettare un'occhiata a. Soltanto quando il diciannovesimo secolo sarà alla fine, si potrà infilare la chiave nella serratura, alzare il coperchio della cassa e i tesori custoditi per tanti e tanti anni potranno essere guardati da occhi umani.

Così ha disposto quello che un tempo ne era il proprietario.

Sulla piastra d'ottone della serratura vi è un'iscrizione: Labor vincit omnia. Ma su quella piastrina sarebbe più adatta un'altra scritta: Amor vincit omnia, perché anche la vecchia cassa celata nel ripostiglio sotto la tribuna è una testimonianza della potenza dell'amore.

O Eros, onnipotente dio!

Tu, amore, sei veramente eterno. Vecchia è la razza umana su questa nostra terra, ma tu l'hai accompagnata attraverso tutti i tempi.

Dove sono gli dèi dell'oriente, i possenti eroi che avevano per armi i fulmini e, sulle rive di sacri fiumi, ricevevano offerte di latte e miele? Quegli eroi sono morti. Morto è Bel, il forte guerriero, morto è Thot, il gigante dalla testa d'avvoltoio. Morti sono i superbi dèi che riposavano sui cuscini di nubi dell'Olimpo, e morti sono pure gli eroi di tante gesta che dimoravano nel Valhalla tutto cinto di mura. Tutti gli dèi dei tempi antichi sono morti, tranne Eros, Eros l'onnipotente.

E opera sua tutto quanto vedi. E lui che tiene in vita la razza umana. Lo riconosci ovunque! Dove puoi andare, senza trovare Forma del suo piede nudo? Quale suono ti è mai giunto alle orecchie che non abbia come nota dominante il fruscio delle sue ali? Egli dimora nel cuore degli uomini come nella semente del grano assopita. Riconosci con tremore la sua presenza anche nelle cose morte.

Esiste qualcosa che non sia attratto, che non aneli a lui? Esiste qualcosa che possa sottrarsi al suo potere? Tutti gli dèi della vendetta, gli dèi della forza e della violenza crolleranno. Ma tu, amore, tu rimani eterno!

*

Il vecchio zio Eberhard sta seduto alla sua scrivania, uno splendido mobile con cento cassetti, il ripiano di marmo e grosse borchie d'ottone brunite dagli anni. Lavora con grande zelo e diligenza, solo, lassù nell'ala dei cavalieri.

O Eberhard, perché mai in questi ultimi giorni della fuggevole estate non corri anche tu come gli altri cavalieri per i boschi e per i campi? Eppure sai che a nessuno è dato adorare impunemente la dea della sapienza. Hai poco più di sessant'anni, ma la tua schiena s'è già fatta curva, i capelli che ti coprono il cranio non sono più i tuoi, rughe profonde solcano la tua fronte sopra gli occhi infossati, e la decadenza della vecchiaia si rivela in mille grinze attorno alla tua bocca senza denti.

O Eberhard, perché non vai a zonzo per i boschi e per i campi? La morte ti coglierà tanto più facilmente davanti al tuo scrittoio, proprio perché non hai ascoltato il richiamo della vita.

Lo zio Eberhard traccia un grosso tratto a inchiostro sotto la sua ultima riga. Poi estrae dagli innumerevoli cassetti della scrivania un fascio di carte ingiallite e ricoperte di una fitta scrittura: tutte le diverse parti della sua grande opera, un'opera che porterà attraverso i secoli il nome di Eberhard Berggren. Ma non appena ha disposto uno sull'altro quei fascicoli, fissandoli con muta ammirazione, ecco aprirsi la porta ed apparire sulla soglia la giovane contessa.

Eccola, la giovane signora di tutti quei vecchi uomini! La donna che servono e idolatrano più di quanto possa fare una nonna con il primo nipote. La donna che hanno trovato povera e malata e a cui han donato tutti i beni più preziosi della terra, esattamente come il re della fiaba alla povera e bella fanciulla incontrata nel bosco. E per lei che ora ad Ekeby suonano i corni e i violini. E per lei che tutto si muove, respira, lavora nella grande proprietà.

Adesso è guarita, sebbene ancora debole. La solitudine in quella grande casa le sembra molto lunga, e dato che sa che i cavalieri sono usciti, vuole vedere che aspetto abbia l'ala dei cavalieri, quel luogo famoso e tanto decantato.

Entra quindi pian piano, e lascia errare lo sguardo sulle pareti intonacate e sulle cortine a scacchi gialli che racchiudono i letti, ma quando si avvede che la stanza non è deserta, si ferma, tutta confusa.

Lo zio Eberbard le si fa incontro cerimonioso e la conduce davanti al mucchio di fogli coperti dalla sua scrittura.

"Vedete, contessa", dice, 1a mia opera è finita. Ora quello che ho scritto deve prendere le vie del mondo, e allora grandi cose avverranno."

"Che cosa avverrà, zio Eberhard?"

"Oh, contessa, scoppierà come un fulmine, un fulmine che illumina e uccide. Da quando Mosè lo tolse dalle nubi tempestose del Sinai, e lo pose sul seggio d'onore del grande tabernacolo, da allora là è rimasto sicuro e indisturbato, il vecchio Jahvè, ma adesso gli uomini devono vedere chi è: fantasia, vuoto, polvere, creatura nata morta dal nostro cervello. Ricadrà nel nulla", dice il vecchio posando la mano rugosa sul fascio di carte. "Sta scritto qui, e quando gli uomini leggeranno questi fogli, dovranno crederlo. Trasaliranno di paura e capiranno la propria stoltezza. Useranno le croci come legna da ardere, le chiese come granai, e i preti lavoreranno la terra."

"Oh, zio Eberhard", esclamò la contessa rabbrividendo un poco, "siete dunque un uomo tanto terribile? E in quei vostri fogli stanno davvero scritte cose tanto terribili?"

"Terribili?" ripeté ilvecchio. "Sono la verità. Ma noi siamo tutti come bambini che nascondono il viso nel grembo della madre, non appena incontrano uno sconosciuto. Ci siamo abituati a nasconderci davanti alla verità, davanti all'eterna sconosciuta. Ma ora essa verrà e dimorerà tra noi, ora tutti la conosceranno."

"Non soltanto i filosofi, contessa, ma tutti gli uomini,tutti."

"E Jahvè deve morire?"

"Luie tutti gli angeli, i santi,i diavoli e tutte le menzogne."

"E chi reggerà il mondo?"

"Credete proprio, contessa, che finora qualcuno l'abbia retto? Credete a quella provvidenza che protegge i passeri e conta i capelli sul nostro capo? No, nessuno ha mai retto il mondo, e nessuno lo reggerà."

"Ma noi, noi uomini, che ne sarà di noi?"

"Saremo quello che siamo sempre stati: polvere. Chi è stato bruciato e non può ardere più, è morto. Siamo fascine di legna, lambiti dalle fiamme della vita.

La scintilla della vita vola dall'uno all'altro, l'uomo si accende, divampa e si estingue. Questa è la vita."

"Oh, zio Eberhard, non vi è dunque una vita dello spirito?”

"No"

"E nemmeno una vita oltre la morte?"

"Nemmeno."

"Né il bene, né il male, né meta, né speranza?"

"Nulla."

La giovane donna si avvicina alla finestra. Guarda le fronde ingiallite dell'autunno, gli astri e i crisantemi dalle grosse teste redine in cima agli steli incrinati dal vento. Guarda le onde scure del Löven, il torvo cielo autunnale che minaccia tempesta, e per un istante si insinua in lei lo spirito della negazione.

"Zio Eberhard", dice, "come è grigio e brutto il mondo, come tutto è inutile! Voglio stendermi per tetra e morire!"

Ma subito una voce di protesta si leva veemente da ogni sua fibra. Le generose energie dell'èsistenza e l’onda tumultuosa dei sentimenti invocano, proclamano la gioia di vivere.

"Non vi è dunque nulla", esclama infine, "che possa dare bellezza all'esistenza, ora che mi avete tolto Dio e l'immortalità?"

"Il lavoro", risponde il vecchio.

Ma la giovane donna guarda di nuovo fuori e la invade un senso di sdegno per quella miserabile saggezza. L’insondabile si erge davanti a lei, e ad un tratto capisce che lo spirito alberga in ogni cosa, sente la forza che si cela anche nelle forme apparentemente morte, e che può rendersi manifesta in tanti modi. E la sua mente turbata cerca un nome per la presenza dello spirito divino nella natura.

"Oh, zio Eberhard", dice, "che cos'è il lavoro? È forse un dio? Ha uno scopo in se stesso? Trovategli un altro nome!"

"Non ne conosco altri", risponde il vecchio.

Ma ora quel nome lo ha trovato lei, il nome che cercava, un povero vecchio nome spesso contaminato.

"Zio Eberhard, perché non diri amore? "

Un leggero sorriso sfiora la bocca sdentata con il suo intrico di rughe.

"Qui", dice il filosofo, e colpisce col pugno il mucchio delle carte, "qui si uccidono tutti gli dèi, ed Eros non l'ho dimenticato. Che è mai l'amore, se non una brama della carne? Perché porlo più in alto di tutti gli altri bisogni del corpo? E allora facciamo un dio della  fame, facciamo un dio della stanchezza! Ne hanno uguale diritto. Ma occorre metter fine a simili sciocchezze! E viva la verità!"

La giovane contessa china il capo. No, non è così, quella non è la verità, ma non può controbattere.

"Le vostre parole mi hanno ferito l'anima", dice.

"Tuttavia, non vi credo. Gli dèi dell'odio e della vendetta potrete forse ucciderli, ma non altro."

Allora il vecchio le prende la mano, gliela posa sul libro e con il fanatismo dell'ateo le ripete:

"Quando avrete letto questo, dovrete credermi."

"Mi auguro allora che questi vostri fogli non capitino mai sotto i miei occhi", dice la contessa. "Perché se dovessi credere a ciò che vi sta scritto, non potrei più vivere."

E si allontana, in preda a un profondo turbamento,  mentre il filosofo, dopo che se n'è andata, rimane là seduto a meditare.

Il mondo non ha ancora potuto pronunciare il suo giudizio su quelle vecchie carte zeppe di frasi blasfeme. Il nome dello zio Eberhard non ha ancora raggiunto le vette della fama.

La sua grande opera è nascosta dentro una cassa gelosamente custodita nel ripostiglio sotto la scala della tribuna, nella chiesa di Svartsjö. E soltanto allo scadere del diciannovesimo secolo potrà vedere la luce del giorno.

Ma perché così ha disposto il filosofo? Temeva forse di non aver sufficientemente dimostrato la sua tesi? Aveva paura di persecuzioni? Come non conoscete lo zio Eberhard!

Non capite? Egli amava la verità, non la propria fama. E la sua fama, non la verità, ha sacrificato affinché una creatura da lui amata di affetto paterno potesse morire conservando la sua fede in ciò che aveva di più caro.

Oh, amore, tu sei davvero eterno!


da "La saga di Gösta Berling" Selma Lagerlöf- Iperborea

 

 
 
 

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