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L'imperativo popolare Cap 2

Post n°11 pubblicato il 23 Aprile 2014 da elio_cicca

Questioni di “rispetto”

Volgare, vastaso, tascio, l’imperativo popolare (e con lui tutte le locuzioni che lo contengono) non conosce confini di classe sociale né, come si è appena visto, di luoghi o di occasioni. E’ pur vero, tuttavia, che un qualche limite esiste, sia pur molto esile, tale “ Che ‘l trapassar dentro è leggero”. Questa soglia, al di là della quale non è lecito andare, è il “rispetto”. Intendiamoci: si tratta di un concetto molto anfibio che vale sì ma che può anche essere aggirato senza destare soverchia sorpresa e senza esserne troppo svilito. E’ il caso che si presenta quando l’imperativo viene rivolto a persona più anziana. In queste occasioni è buona abitudine farlo precedere da un rispettosissimo Assa che non ne muta il senso ma, per così dire, lo colloca in un contesto linguistico d’altri tempi, quando ancora si usava il Voi. Allo stesso modo, rivolgendosi all’anziano nonno che fatica ad accendere il Toscano o la pipa, per invitarlo ad un maggior vigore nell’aspirazione, rispettosamente gli si dice: “Assa suca ca sbampa”.

Onde illustrare meglio il concetto, riferirò un episodio narratomi da un vecchio amico, oggi valente e stimato cattedratico ma, all’epoca dei fatti, poco meno che “cagnolo” in quanto in buona compagnia di altri suoi coetanei. Puntualizzo subito per non creare fraintendimenti: singolarmente presi, si sa, i ragazzi sono tutti buoni, bravi e cari ma quando fanno gruppo e si lasciano trascinare da quel demone che è il sivo ( o trippo o sdillinchio che dir si voglia), sono dolori! Lo ripeteva spesso Don Biagio M., Padre agostiniano reverendissimo non meno che illustre grecista che ha educato intere generazioni di liceali al Gonzaga , quando ancora si chiamava così. Quando, nel corso dei Consigli di classe, veniva richiesto di un parere sul comportamento di un qualche studente, con monotona convinzione ripeteva: “Senatores boni viri, senatus mala bestia!”. All’epoca dell’episodio prestava servizio di portineria un uomo simpaticissimo, ex sarto prima di trovare questa occupazione, da tutti stimato per la sua cortesia oltre che per il suo alto senso del dovere e dell’ubbidienza alle regole della Casa, come, non senza ragione, usavano chiamare il Liceo Gonzaga i Gesuiti che per l’appunto ci abitavano. Ogni mattina, sempre alla stessa ora, con svizzera puntualità, il portiere, il signor V., suonava la campana dell’entrata e subito, vociante e confusa si riversava la folla degli studenti diretti ciascuno alla propria classe. Un bel giorno, chissà a chi e perché, a qualcuno venne in mente di approfittare di quel momento di calca per urlare all’indirizzo del signor V. un sonoro SUCA seguito, appunto, dal suo cognome. Era evidentemente un gesto vile in quanto, oltretutto, chi lo metteva in atto era praticamente sicuro di non poter essere mai identificato in quella folla. Il signor V. dapprima non ci fece caso ma davanti al ripetersi quotidiano dell’episodio, aggravato dal fatto che dopo i primi giorni non più uno solo ma addirittura un gruppetto di scanazzati aveva preso l’abitudine di apostrofarlo in coro, decise di passare al contrattacco. Si appostò dalla parte opposta a quella dove si trovava la sua guardiola e non ci mise molto ad acciuffare gli sciagurati. Li rimproverò assai aspramente, li minacciò di riferire tutto alle rispettive famiglie oltre che al Padre Rettore, ricordò loro che i ragazzini devono portare rispetto a chi è più anziano e si guadagna da vivere onestamente…… L’indomani, la solita folla vociante si riversò nell’androne dell’austero edificio e mentre ancora il buon V. teneva il dito sul pulsante della campana, dalla marmaglia si levò un coro: “ Signor V. , SUCHI!!! “. Era bastato l’uso del congiuntivo per ristabilire il rispetto!

Un’etimologia ( azzardata?)

Chiunque abbia frequentato il Liceo e si sia cimentato nell’ardua prova della traduzione di un classico greco, avrà certamente incontrato per via il termine psuchè che vuol dire “soffio vitale”, “vita” e corrisponde a quel concetto che già i latini chiamavano “anima”. Da Omero in poi il termine è praticamente presente in tutti o quasi gli autori classici. Se nel tradurlo nessuno studente degno di questo nome ha mai trovato difficoltà (tanto è diffuso e rinvenibile in qualunque versione), nel pronunciarlo…i problemi esistevano, stante l’allucinante somiglianza fonica con la nostra “voce verbale”. Non c’era proprio scampo: malignare era praticamente inevitabile e le battutacce e le risate irrefrenabili. Si arrivava al punto di sperare di non essere mai interrogati su qualsivoglia passo in cui figurasse il termine: meglio improvvisare una qualunque traduzione o fare “scena muta” piuttosto che scoppiare a ridere (sull’onda degli sghignazzi dei compagni ) mentre si era alla cattedra, sotto gli occhi degli inorriditi docenti! Non c’era (e non c’è) evidentemente altro legame tra i due termini se non quello esclusivamente sonoro, “musicale”: si tratta infatti di concetti talmente distanti che nemmeno al più aberrato sarebbe mai venuto in mente di metterli in relazione. Peccato! Perché se allora, quando si studiava il greco, a qualcuno fosse venuta la curiosità di chiedersi quale fosse veramente l’etimologia del popolarissimo SUCA….chissà! Voglio provarci adesso. Spero scuserete il ritardo ( nonché l’ardire)! Nella Grecia antica pare andassero assai “di moda”i furti di fichi, cosa peraltro comprensibilissima considerata la loro abbondanza nell’area Mediterranea oltre che la bontà del frutto in sé. Era una pratica talmente diffusa e difficile da estirpare, nonostante le leggi promulgate per debellare il fenomeno, che ci fu chi s’inventò la professione di accusatore dei ladri di fichi.

Costui si chiamava sicofante ed altro non era se non una spia, un delatore o, in caso di innocenza, un diffamatore. “Che c’entra questo? “ Si chiederà qualcuno spazientito. C’entra sì, perché in greco fico si dice sukon , nome neutro, che al nominativo plurale fa suka.  Ed eccoci arrivati al capolinea del ragionamento. Se la strada percorsa fosse quella giusta, allora si potrebbe proporre anche più di una interpretazione etimologica per il nostro imperativo. La prima, la più evidente, si riconnetterebbe alla sfera sessuale, a quella “oralità” alla quale apertamente si riferisce l’imperativo popolare: i fichi, come noto a tutti i buongustai, non si mangiano soltanto….! Intelligentibus pauca. E poi, come non collegare il termine alla voce popolaresca ( non soltanto siciliana) che designa l’organo sessuale femminile? L’altra via sarebbe invece quella che richiama alla mente l’odiato mestiere del sicofante, il che spiegherebbe la carica di disprezzo, di eversivo ed irridente sarcasmo che quasi sempre si intuisce nelle scritte, solo apparentemente immotivate, che riempiono la città! Che altra valenza può avere, per esempio, scriverlo in ascensore senza neanche l’indicazione del destinatario cui l’ingiuria è rivolta? Vuoi vedere che i convittori della mia infanzia erano gli inconsapevoli “portatori sani” del millenario gene dell’odio verso gli spioni? O dei contestatori sovversivi e rivoluzionari in pectore? Ah, l’etimologia! Che miracoli può fare! Ma, a proposito: siamo veramente sicuri che si tratti di una scienza esatta?

Espressioni proverbiali

Se, come giustamente si ritiene, nei proverbi si riconosce l’anima di un popolo (oltre che la sua sagacia e la sua saggezza), allora sarà opportuno darci almeno una sbirciatina, sia pure superficiale, dal momento che le espressioni proverbiali, per la loro stessa natura di manifestazioni prevalentemente orali nate all’interno delle cosiddette “culture subalterne”, sono tanto intimamente legate alle realtà locali e presentano una tale varietà che, forse, nemmeno la pluriennale esplorazione del Pitrè è riuscita a catalogarle tutte. Proprio in questo territorio l’imperativo popolare e le locuzioni contenenti il verbo nella sua forma infinitiva hanno trovato ampia e facile cittadinanza, senza peraltro suscitare scandalo alcuno, finendo, anzi, per divenire di uso comune, per quanto colorito. Espressioni del tipo: “ Sucarisi a qualcuno cu l’uocchi” non arrossano le guance di nessuno, signorine comprese. Andrebbero, anzi, maggiormente apprezzate per la loro delicatezza perché se “ Mangiarsi qualcuno con gli occhi” è cosa che si fa in un batter d’occhi, il “sucarisi a qualcuno è operazione assai più diluita nel tempo e voluttuosa, ci si sente meglio il gusto, se ne prolunga il piacere…Come nella pubblicità televisiva di una nota mozzarella! E che dire dei babbaluci , pietanza principe e principesca di tante occasioni palermitane, Festino di Santa Rosalia in testa? Qui l’azione lenta è dettata dalla necessità di evitare i gusci ma, quand’anche ciò non fosse necessario, state pur certi che il palermitano DOC mai e poi mai brucerebbe in un solo istante un tale piacere godurioso. Certo, ci sono delle occasioni in cui il nostro verbo trova pure luogo in contesti di scarsa piacevolezza anzi di vera e propria delusione, come per taluni festeggiamenti, come quelli che seguono matrimoni e battesimi, per i quali ci si era preparati magari attraverso un duro digiuno, ma che si sono poi rivelati un vero FLOP, almeno dal punto di vista gastronomico. E’ il caso delle feste proverbialmente “Fatte coi fichi secchi” che da noi vengono bollate con l’infamante Agneddu e sucu e finiu u’ vattiu, espressione che facilmente si presta a storpiature e doppi sensi. I dottissimi studenti liceali di un tempo, infatti, con la massima naturalezza usavano renderla in latino ( Agnus sucusque…) ma tra gli stessi non mancavano quelli, non meno dotti e sicuramente più maliziosi, che la mantenevano nella sua forma dialettale “limitandosi” soltanto a sostituire il sucu con l’imperativo popolare e, a chi faceva rimostranza per la volgarità, rispondevano candidi: “ Ma è soltanto un proverbio!”.

 

Mandare al diavolo

“ Te c’hanno mai mannato a quer paese…” cantava con scanzonata ironia Alberto Sordi. E, chissà quante volte ci sarà capitato di mandare qualcuno al diavolo ( o di esserci mandati)! Esiste un’espressione per così dire “nazionale” ( il celeberrimo VAFFA) ma poi c’è, un po’ come accade con i proverbi, l’infinita varietà dei modi di dire locali. A Palermo, tra le tante possibilità, ce ne sono almeno un paio che meritano di essere osservate più da vicino, sia perché contengono il nostro verbo, sia perché la dicono lunga sulla creatività verbale dei concittadini. La prima ( va sucati un pruno ) si caratterizza per la sua insolita morbidezza, per la finezza del sentire che vi è sottesa, tale da apparire addirittura fuori luogo in un contesto che si suppone carico d’ira e/o di delusione. A chi verrebbe in mente di esprimersi così durante una agitata se non proprio violenta discussione per un posteggio oppure a conclusione di una storia d’amore, di quelle che si chiudono con il tanto tradizionale quanto ipocrita “ Restiamo buoni amici” ? Ci si aspetterebbe sonori schiaffoni, pianti, “ Orribili favelle, parole di dolore, accenti d’ira, voci alte e fioche, e suon di man con elle”… e invece, basta un semplice quanto efficace: “ Ma va sucati un pruno”! Ci vuole proprio il “ Cor gentile” per esprimersi in siffatta manieeeeera (per dirla con l’ex Presidente del Milan) ! Pur tuttavia non sempre le umane reazioni sono caratterizzate da toni altrettanto idillici: spesso gli stati d’animo divengono esacerbati, l’ira e lo sdegno, non più controllabili, superano gli argini delle buone maniere, tracimano, travolgendo tutte le convenzioni e persino il buon senso. E’ in questi frangenti che può accadere di sentire: “ Va sucaci i piriti ai gnuri” . Si tratta di espressione ignominiosa e decisamente plebea, ributtante, vomitevole alla quale qualcuno fa ricorso solo quando l’odio si sposa con lo sdegno, la rabbia cieca con il disprezzo. Impensabile una cosa simile ed ovviamente, in quanto provocazione, irrealizzabile. Ma , ve la immaginate una situazione del genere? No, decisamente no. Il solo pensiero fa “Tremar le vene e i polsi”. Per quanto comprensibile sia il perdere le staffe, questo proprio non si può giustificare. Resta però un dubbio: perché proprio “ ai gnuri”, cioè i cocchieri ? Cos’hanno di più abominevole rispetto al restante genere umano i “ gnuri” ? Non sarà mica per la vicinanza coi cavalli?

Sarcasmo ed ironia

Tra i tanti usi (e talora abusi) dell’imperativo popolare, c’è ampio spazio per le stilettate sarcastiche, ironiche e, più in generale, per quei motteggi che, a seconda della situazione, riescono a mettere in difficoltà il prossimo (meglio se un avversario) dissuadendolo dalle sue intenzioni oppure coprendolo di ridicolo in modo da indurlo a non “provarci” più. Accade così, per esempio, che a qualcuno venga in mente di fare una proposta per così dire insolita e magari provocatoria del tipo:” Totuccio, che ne dici di portarci tutti al ristorante e di pagare il pranzo?” La risposta di Totuccio non può che essere l’arcinoto SUCA con la non lieve variante di un abnorme prolungamento dell’accento sulla “ U “ ( SUUUUUUCA!!!) dove il conseguente stiramento del suono sta a significare, appunto, quanto pazzesca sia ritenuta l’avance precedentemente profferita. Se poi al suono si accompagna anche il gesto…. Non ci sono proprio dubbi. Analogamente, la risposta si potrebbe ripetere per qualunque tema affrontato: votare quel partito piuttosto che quell’altro; prestare dei soldi a qualcuno che notoriamente dimentica di restituirli; fidanzarsi “in casa” con una fanciulla che, per dimostrare la propria illibatezza, produce un certificato otorinolaringoiatrico…e via di questo passo. Se in tutti questi casi, evidentemente, l’imperativo popolare equivale all’espressione: “Fossi matto!” oppure “ Sei diventato pazzo?”, ve ne sono diversi altri in cui la parola, pronunciata però stavolta in maniera secca e repentina, equivale a dire: “Ma che stai dicendo?”, “Piantala “oppure “ Parla come mangi!”.

 

Era proprio questo il senso di un sonoro imperativo che fu pronunciato con voce stentorea in Piazza Politeama all’indirizzo di un uomo politico abbastanza noto che, dalla nativa provincia lombarda, era venuto a tenere un comizio a Palermo. Costui, aveva iniziato a snocciolare dati, percentuali, espressioni economiche in lingua straniera, il tutto in una prosa contorta, cervellotica e farraginosa. Ad un certo momento, nel silenzio generale dei non molti presenti, peraltro più confusi che persuasi da quella cascata di parole, si udì un solenne SUCA, rapido e tagliente come una lama. Per un attimo fu il panico: l’oratore s’interruppe, le persone ammutolite si guardarono l’un l’altra. Poi a qualcuno scappò da ridere e fu subito il contagio: nessuno più riusciva a trattenersi e tutti proruppero in un fragoroso applauso. Sul palco, qualcuno del seguito sussurrò qualcosa all’orecchio dell’uomo politico che, evidentemente perplesso, dopo poche battute chiuse opportunamente il proprio intervento e scomparve alla vista mentre dagli altoparlanti si levavano le note dell’inno del suo partito. Fu come una “caduta degli dèi”, ingloriosa ed imprevedibile e a determinarla era stata una sorta di APROSDOKETON , una battuta finale a sorpresa, come in tanta letteratura giambica ma, stavolta, dal sapore inconfondibilmente popolare.

 


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