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Tutti i Vermeer a New York

Post n°387 pubblicato il 12 Agosto 2010 da a17540
 



Tutti i Vermeer a New York

Un film di Jon Jost. Con Emmanuelle Chaulet, Stephen Lack, Katherine Bean, Grace Phillips Titolo originale All the Vermeers in New York.Drammatico, durata 87 min. - USA 1990.









Da una parte Jan Vermeer di Delft (1632-1675), pittore olandese, che mori giovane e sulla cui vita si hanno poche notizie. Ma in compenso i suoi quadri - piccoli interni di vita borghese, scene domestiche, ritratti di donne colte in momenti di poetica quotidianità - furono molto amati dai letterati della fine del secolo scorso, primo fra tutti Marcel Proust: e si direbbe che siano molto amati dai cìneasti di questo secolo, visto che un suo quadro, La dentellière, ha ispirato a Goretta il film omonimo(La merlettaia) e che ora il nome di Vermeer figura addirittura nel titolo di Tutti i Vermeer a New York. Dall’altra parte Jon Jost, classe 1943, cineasta underground passato nelle file del cosiddetto cinema “indipendente”, obiettore di coscienza ai tempi del Vietnam e per questo finito in galera, forte bevitore, e autore - tra l’altro - di quel Camaleonte che, distribuito i. malamente in Italia, riuscì tuttavia a suscitare le ire censorie del solito giudice Bartolomei quando il comune senso del pudore non aveva ancora incontrato Madonna.
Cosa unisce la strana coppia, al di là del fatto che Jon Jost è l’autore di Tutti i Vermeer a New York? Quando venne invitato neI 1991 a Pesaro con due suoi film, Tutti i Vermeer a New York e Sure Fire, i’impenitente regista off disse, a proposito del primo, che si trattava di “una riflessione poetica su un decennio di follia e corruzione”. Aveva ragione, e poche volte l’aggettivo poetico - la stessa qualità di poesia del quotidiano che si trova in Vermeer - è stato attribuito così meritatamente. E così sorprendentemente. Perché Tutti i Vermeer a New York - certamente il più “in” tra i film di Jon Jost - comincia come una commedia alla Jaglom, in un appartamento elegante dove vivono tre ragazze: la ricca padrona di casa che si sente in colpa per il suo pacchetto azionario, un’aspirante attrice di nazionalità francese che non sa da che parte prendere i suoi personaggi, una cantante lirica che gorgheggia fuori orario. Continua in una galleria d’arte dove il mercimonio e le falsità del mercato artistico prendono toni da commedia. E approda a una gigantesca agenzia di Wall Street dove un giovane broker, aggredito e ossessionato dai numeri che compaiono sui video, trasferisce denaro da un punto all’altro del globo con il sentimento di partecipare a un folle rito astratto.
E lui, Mark (Stephen Lack, un Richard Gere più teneramente quotidiano), l’anima di questo film. E la sua nostalgia per un mondo meno implacabile che gli ha fatto scegliere un appartamento somigliante a una casa europea “a livello della strada”, che lo spinge regolarmente al Metropolitan a indagare il mistero di cinque dei Vermeer di New York (altri tre, ci informa, sono alla Frick Coilection), che gli fa mettere un bigliettino in mano alla ragazza incontrata di fronte a un ritratto di Vermeer che le somiglia straordinariamente.
Sarebbe troppo bello se le cose fossero facili come nei film, se Anna, la giovane francese, si facesse conquistare dal semplice e “umanistico” desiderio d’amore di questo yuppie per forza. Ciascuno purtroppo insegue un diverso sogno di completezza. E la conclusione del film - che, elegantissimo nonostante il basso costo, splendidamente fotografato da Jon Jost stesso in tonalità vermeeriane, brillantemente scenografato, sembra una versione ironica e in minore dei lucidi film hollywoodiani su Wall Street o sulla vita elegante nella Grande Mela - lascia un sapore amaro che scava in profondità.
Jon Jost giura di non sapere nulla né di Cechov né di Proust, che pure Anna legge così bene e così a proposito. Ma nel film, sotto la tenerezza della sua ironia e dello humour, corre una profonda nostalgia esistenziale per un modo di sentire e di vivere - e, come si vedrà, di morire -che paradossalmente è più vicino a Cechov e a Proust che alla vincente aggressività dei ruggenti anni ottanta, di Oliver Stone o di American Psycho.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996





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