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American West

Post n°118 pubblicato il 31 Gennaio 2008 da hunkapi.genova

Quando nel 1789 il giovane governo degli Stati Uniti adottò la propria Costituzione inaugurò l’epoca che venne chiamata dei trattati con gli “indiani”, che terminò ufficialmente per decisione del Congresso solamente nel 1871. Sostanzialmente i trattati stabilivano che in cambio della cessione di vasti tratti di terra da loro usufruita, gli “indiani” ottenevano diritti esclusivi su appezzamenti più piccoli, le riserve, su cui il governo avrebbe vegliato come una sorta di “amministratore fiduciario” a beneficio degli indiani stessi. Erano territori scelti perché di scarso pregio che, per ironia della sorte, la storia ha trasformato in veri e propri eldorado.
Carbone, petrolio, gas naturale, energia geotermica sono tra le risorse più frequenti che si ritrovano nel sottosuolo di riserve nativo americane piccole e grandi sparse tra Colorado, New Mexico, California, Montana, Idaho, Arizona, Washington (State), South Dakota, Michigan, Florida, North Dakota, Utah, Nevada, Wyoming. Approssimativamente il 50% delle riserve di uranio statunitensi e circa il 30% di quelle di carbone si trovano in riserve indiane, senza parlare del petrolio di cui è ricco l’Oklahoma.
Come è facile immaginare, una volta compresa l’importanza di questi depositi è seguito un lungo periodo di sfruttamento delle terre indiane, a volte fraudolento a volte legalizzato, in cui le nazioni tribali hanno avuto scarsissimo potere decisionale e ancora più scarsi proventi derivati dall’uso altrui delle loro risorse. Per esempio la compagnia carbonifera Peabody ha estratto carbone per anni dalle terre navajo pagandolo un prezzo molto basso, stabilito dal Ministero degli Interni. Nonostante la Corte Suprema abbia annullato i verdetti delle corti inferiori sulla collusione tra il Ministero e la compagnia Peabody, è evidente che il governo attraverso il proprio Ministero ha mancato di assicurare quella corretta gestione fiduciaria della riserva a cui è obbligato per legge.
Nel corso del novecento la concomitanza di scoperte scientifiche ed eventi storici ha svelato l’importanza dell’uranio in ambiti bellici e, nei primi decenni del secolo, l’utilizzazione dei giacimenti senza controlli e misure adeguati ha avuto un impatto devastante sia sull’ambiente che sulla salute pubblica di una buona parte del mitizzato West americano. Le vicende della riserva navajo ne sono l’esempio più eclatante.
I navajo (o più propriamente diné, il nome tribale che significa “la gente”), possiedono una riserva di 17 milioni di acri compresi tra Arizona, New Mexico, Utah in un’area che i loro antenati occuparono tra il tredicesimo e il quattordicesimo secolo. Accanto alle popolazioni autoctone come gli indiani pueblo e gli hopi, in quel periodo si stanziarono infatti navajo e apache provenienti dalla zona subartica del continente (Canada nord-orientale e Alaska), gruppi tribali accomunati da lingue appartenenti ad un’unica famiglia linguistica, l’athabaskan, a sua volta inserita nel phylum linguistico na-dené. (Il phylum non è altro che un macro-raggruppamento di famiglie linguistiche come lo è l’indoeuropeo per noi). Fu dalle popolazioni pueblo che essi impararono a coltivare e quindi a sopravvivere nel nuovo ambiente.
Nel 1598 vi giunsero gli spagnoli penetrati da sud, i primi a coniare il nome “navajo” per indicare i diné, dai quali sia i navajo che gli apache acquisirono i cavalli. Con il trattato di Guadalupe-Hidalgo del 1848, il Messico cedette agli Stati Uniti ogni rivendicazione su California e sudovest e, da quel momento, le popolazioni indiane di quei luoghi vennero assoggettate alla legge americana o attraverso la stipulazione di trattati o con la forza.
Dopo un primo trattato tra i navajo ed il governo federale nel 1849 ne seguirono altri, ma le ostilità tra comunità indiane e non-indiane non cessarono. Durante gli anni della Guerra Civile (1861-1865), gli attacchi dei navajo e degli apache si intensificarono. Nel 1863 Il colonnello Christopher (Kit) Carson riuscì a esiliare un gran numero di mescalero apache e circa 8000 navajo a Bosque Redondo, nel New Mexico orientale, dopo averli affamati bruciando i loro raccolti e averli stretti d’assedio durante l’inverno successivo. Quella marcia forzata provocò molte vittime e i sopravvissuti vi rimasero prigionieri per ben cinque anni. Solo nel 1868 si stabilì la creazione della riserva navajo attraverso un ulteriore trattato pacificatore.
La terra navajo non suscitò alcun interesse esterno fino al 1918, quando entrò in funzione la prima miniera di vanadio (elemento spesso associato all’uranio) della compagnia Kerr-McGee. Il paesaggio, rimasto uguale per secoli, cominciò a mutare. A partire dagli anni quaranta, a seguito del famoso Manhattan Project, si intensificò l’estrazione di uranio per la fabbricazione di bombe atomiche. L’attività delle miniere proseguì nel clima di guerra fredda dei successivi anni cinquanta per terminare solo a metà degli anni ottanta. I navajo vi lavorarono a migliaia, svolgendovi le mansioni più svariate legate all’estrazione e al trattamento dell’uranio grezzo.
In quei primi decenni i minatori pranzavano sottoterra, bevevano l’acqua che filtrava dalle pareti e riportavano a casa i vestiti da lavoro contaminati dalla polvere radioattiva. Non avevano tute protettive o mascherine, sebbene il rischio di contaminazione fosse ben noto. Spesso i minatori vivevano vicino alle miniere, e le pietre dei dintorni venivano usate per costruire o fare manutenzione alle abitazioni; in questo modo la contaminazione era sia sul posto di lavoro che a casa. Ad oggi rimangono un migliaio di pozzi di miniere abbandonati e numerosi depositi di residui di scarto risultanti dalla conversione dell’uranio grezzo in concentrato uranifero mai messi in sicurezza. Essi contengono, tra gli altri, anche il radio 226 che per la sua solubilità è potenzialmente pericoloso per le falde acquifere. A Shiprock, il più grande centro urbano della riserva, uno di questi depositi ha contaminato un bacino acquifero, ma non è un caso isolato. Nel 1979 un serbatoio di ritenuta di residui di scarto vicino a Churchrock, all’interno della riserva, crollò riversando milioni di litri di acqua radioattiva nel fiume Puerco River, già fortemente contaminato sin dagli anni cinquanta.
Per cinquant’anni gli strascichi di una scellerata estrazione hanno causato l’insorgere di varie forme di cancro e di altre malattie legate a mutazioni cellulari sia nei lavoratori delle miniere sia sul resto della popolazione - si stima che gli adolescenti navajo che vivono nei pressi dei depositi di scarto si ammalino di cancro in un numero 17 volte superiore alla media nazionale statunitense. Nel 1990, dopo parecchie pressioni di organizzazioni navajo come il Navajo Uranium Radiation and Victims Committee, è stato promulgato il Radiation Exposure Compensation Act, una legge le cui restrizioni e requisiti hanno reso impossibile alla gran parte dei lavoratori ammalati l’accesso ad alcuna forma di indennizzo almeno fino al 2000, anno in cui sono stati introdotti emendamenti correttivi. L’anno successivo il presidente Bush ha però bloccato il risarcimento per tutti i lavoratori non-minatori, cioè per coloro i cui compiti erano espletati all’esterno della miniera.

 
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