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Aljoshka e le compagne.

Post n°81 pubblicato il 03 Dicembre 2010 da marcalia1
 

Dal diario personale di Aljoška Poroždorov, recuperato il 30 aprile 1958.

 

Martedì

Rotola il tuono. La neve pesa come calibri di cristallo, che cadono. La terra, qui intorno, ha il forte odore delle tombe. Il tuono avanza, da occidente. Il tuono fa male alle orecchie. Scricchiolano le pareti di legno, sfrigola la brace nella stufa. E' il vento, una nave; una grossa nave che beccheggia nella tormenta. Il vento e il tuono. Buio e silenzio. Tenebra.

Nere ombre nella neve. Respiri che sorridono alla luce del mio lume. Risa. Tuono, da occidente. Neve che picchia sulla mia testa, testa che marcisce al freddo. Il treno della notte. Solo ferraglia, vomiti della crosta del pianeta che mille omini cocciuti hanno rosicchiato. Stasera sarà calda la minestra per voialtri.

Ombre scure, ancora, dietro la finestra. Un buco fatto di puro buio che zittisce il respiro. Ti vedo, nera ombra sul fossato. Ecco il tuono. E' dentro me, adesso. Il tuono parla, è carne che vibra alla luce degli dèi boschivi. Il tuono sono io, mera rimembranza di uomo sepolto vivo e all'impiedi. Sorridi, spettro riflesso nella neve. Nubi e tuoni e vento e risa di fanciulle in amore. Le nubi solcano i miei occhi, con lampi di metallo azzurrato.

Il treno avanza. Musica di ingranaggi in tensione. Scoppiano gli occhi, esplodono di fuoco le sue bave. Scivola sulla neve, cadavere in putrefazione. Risa congelate nella notte, risa di fanciulle. Il treno sopravanza, è già lontano, oltre la boscaglia. Niente stasera, per me.

Risa e tuoni e neve. Nubi, sulla mia testa. Grosse, scure, vascelli di acciaio che volano nel freddo. Vi vedo fanciulle, io incomincio a vedervi. Pene d'amore, affogate qui. Io vi spio nel sonno. Calde allucinazioni, voi siete.

Muore la notte. La notte è brutta come la cacca di un morto. Ripari, solchi tracciati nella notte. Passi e risa di fanciulle che schiacciano la neve. Io vedo e sento. Io sono vivo.

Scrivo, pezzo freddo di uomo. Scrivo le vostre storie, le mie storie, le storie che mai furono scritte. Le storie sono figlie di altre storie. Fanciulle morte di dolore, soavi principesse della neve. Le vostre storie sono le mie. E' giunto il tempo di svegliarmi. Dormo un milione di secoli in questo letto. Il tuono fugge, corrono il vento e la neve dietro al treno che è passato. Muoiono le rusalke[1] un'altra volta.


Venerdì

Nevica forte qui in basso. Fanno già quasi tre settimane che non passa nessun treno. Niente di niente. Si ascolta solo il vento. Si ascoltano le risa di fanciulle, e immagino i miei baci sulla loro bocca. Fischia il samovar, ed io con esso. E' il cadenzare di ogni gesto quello che mi rende forte. Sono macchina congelata nei ghiacci. Mi sento molto solo, più di quando vivevo nel bosco. Non c'è nulla qui che dia il senso di un riferimento, uno qualsiasi. Lo spazio bianco è più grande di ogni possibile immaginazione.Mi sento male, quasi quasi ho le allucinazioni. Oggi ho parlato con gli alberi ma non mi hanno risposto; non hanno voluto ascoltarmi. Odo solo il silenzio. Nemmeno il vento fa più rumore, quasi fosse ammutolito nella propria ira. E sì, se nevica! Cristalli d'acqua che colpiscono il mio corpo mezzo morto di freddo, sulle rotaie. Non c'è nessuno qui, tranne me. Un mostro congelato che marcia lungo linea. Avrei voluto sentirle di nuovo ieri, pure nulla. Percepisco le loro dolci voci mentre cullano il mio sonno. Sono tante, belle, tutte di bianco vestite. Le bacio con la mente e accarezzo i loro spiriti. Ma ce n'è una, che sta sempre in disparte, col mento poggiato sulle ginocchia, schiacciata sotto l'albero della Notte. Non parla, solo geme nel pianto che l'accompagna nel suo cammino. Aspetto così. Magnificamente adornato di neve, attendo una loro chiamata. E' un gioco. E' una ossessione che ti svuota dentro. E' l'attesa carica e sacra che ti scioglie il cuore. Aspetto domani, ancora.

Corpo freddo. Solitudine. Paura, ora soggiace la paura sotto il mio letto. Avanzo, punto infinitesimo nella vastità della piana, a trovare lo scambio. Blocchi di metalli ghiacciati, giunti come stecchi al freddo della nottata. Sono io che marcio avanti, sempre avanti. Lo spazio qui fuori non esiste più. Alberi, unicamente alberi. Ecco, io so di essere uno di quegli alberi. Respiro, nutro il mio corpo, penso: un tronco spesso che mi blocca il cammino. Avanzo come uno spettro senza volontà, né desiderio alcuno.

Il treno. Mille e mille ingranaggi che ruotano all'unisono come un orologio fatto di rubini. E' meccanica pura che scivola sul terreno. Il treno è già qui. Sento il suo odore fatto di olio e grassi che colano sulle fiancate, l'odore della gente che non dorme da giorni. Il treno è un serpente di metallo lucente che svergina la tormenta, la notte, e l'attesa. Ma stasera nulla per me. Né lettere, né messaggi di servizio: ricambi e viveri, viveri e panni che puzzano di amido, e cialde e carne e vodka, per il gelo e per non pensare.

Ora è tardi. Il rumore di ferraglia è già scomparso. Odo le loro voci. Sono tante e belle, cariche d'amore. Tra poco andrò da loro, a scaldarmi il cuore. Le rusalke amano il gioco. Le rusalke vivono qui, in questa stanza e sulla riva dei ruscelli. Mi parlano di ieri, quando io non ero ancora nato. Le rusalke fanno l'amore per non amare, baciano lo spettro che io sono. Le rusalke sanno forse di non essere mai vissute, come un libro pensato e mai scritto. Eppure io le vedo e respiro dei loro profumi.

Ancora tempo. C'è ancora tempo prima che parta una volta per tutte. Ma in fondo, ancorpiù l'attesa di sloggiare, è forse la mia mente che si stacca dal mondo. Scivolano sulle mie braccia, e sulle mie gambe, e sul mio viso, pure idee che non hanno forma. Essere vivi: questo è ciò che conta, adesso. Muoversi, parlare, fare cose per riuscire a crearsi un incantamento ed andare avanti. Sempre avanti. Senza respirare, sotto la tormenta.

 

Domenica
Mi sono smarrito nella tajga. Non c'è più nessuno ormai qui che voglia ascoltarmi, ecco tutto. Si sono scordati di me. Mi sono perso nell'eternità del mondo o forse è il mondo intero che si è sbriciolato. Vai a capirle certe cose. Ti dicono: la collettività necessita del tuo servizio. D'accordo, c'è chi ha bisogno che io lustri il fondo del barattolo finché qualcuno abbia di che vivere. Ma dov'è la misericordia, allora? Ti prendono per matto, questo sì. Ma la pazzia null'altro è se non l'allegria di un giorno che dura per sempre. E non lo sanno, per niente. Poco ma sicuro. Ti danno la vodka in modo che tu possa pensare ad altro; ti saziano il corpo di carne rifredda per darti la possibilità di pensare il contrario di quello che vorresti gridare. Già, gridare. Come se per farlo si debba per forza avere la voce: aaaahhhhhh! Non è mica urlo quello, mica rumore della bocca. Il vero grido è dentro me, che si ribella. Il vero grido sono la mia faccia e le mie membra. Fanno tremare la terra. Scuotono i pensieri che sono tutto il mondo, insieme a me.


Lunedì

Avanzo di un metro o due, lungo la linea. Ora mi giro, volgo lo sguardo oltre la boscaglia innevata. E poi le vedo. Candide come la bellezza di un angelo, fluttuano nell'aria, e ridono. Si prendono gioco di me. Ci vado, ora; mi sa tanto che mi butterò tra quelle braccia delicate. Sì, mi sa proprio che lo farò. Nulla più mi lega a questi luoghi, se non il fatto che io vi sia vissuto. Ma tant'è. I ricordi sono come foto sbiadite che non portano memoria. I ricordi fanno male come morsi. Ecco, ora sono tra voi. Sono il dio del bosco che si è risvegliato. Lampi e spade di fiamme, eterei gorghi di luci che nascono dal mio ventre intorpidito. Vi danzo sul corpo che non è corpo, anima galleggiante. Sto per valicare un altro mondo, lo sento. Sto per andare oltre, nello spazio strano ed incommensurabile in cui non esiste opera né immagine. Questo mondo è dentro me, lo sento davvero. Aaaahhhh!,questo sì che è un grido! Un grido che squarcia il ventre in verticale, che ti lacera la pelle come un otre troppo gonfio, che ti scoppia da dentro fino a sbudellarti. Sono al limite, quasi. Andrò a perdermi lì giù, riempirò il mio spirito delle dolcezze di cui mai ho goduto prima. Le rusalke sono fiori. Le rusalke sono la luce delle stelle coperte dalle nubi. Sto bene ora. E' una splendida, magnifica illusione che mi porto in fondo al cuore. Me ne vado, io parto preso per mano. Non so dove. C'è tanto spazio al di là del mondo che un limite, ne sono certo, riuscirò a trovarlo.

Sabato

Idee fisse. Sempre quelle. Beh, sono matto mi dicono, e forse ci credo anch'io. Ma sia quel che sia, penso alle verità che mi scaturiscono dal cuore, non per niente. Oggi nessun treno. Mi sa che si sono scordati di me; mi sa davvero che mi confondono con qualcun altro, così non mi vengono a cercare. Vorrei proprio vederlo l'altro me stesso. Dicono le rusalke che ogni uomo ne porta dentro due. Eppure qui, io non vedo nessun altro all'infuori del mostro che sono io. Ma perché? Dove sono andati a finire gli altri? Sono andati, ecco, sono partiti senza salutarmi.Come potrò vivere con questa esitazione di lasciare tutto? Le rusalke raccontano. C'è qualcuna di loro che annuncia la partenza prima ancora di salutare. Farò così. Svanirò presto nella tenebra disabitata del mondo appena annunceranno la mia venuta. Sarò fine e principio di ogni cosa. Tornerò a confondermi con l'io diverso che alberga separato nel corpo mio. Mi inoltrerò nell'abisso senza uguali ed in questo sprofondare amplissimo lo spirito che per secoli mi ha innalzato perderà se stesso: sarò nel fondamento semplice dove ognuno è tutto ma in verità non sta in nessun luogo. Allora sarò sempre io, milioni di volte, nella moltitudine nulla. In quell'abisso ineffabile tutto diverrà intima uguaglianza, senza più voce e volontà. Lì, sono sicuro, non mi resterà che tacere dimenticato nel silenzio infinito. Né altro, sicuro.


Nota del Curatore:

Al villaggio più nessuno parlava. Sembrava come se un velo ricamato di gelo fosse caduto sopra le facce dei villani. Non si scambiavano i saluti, nemmeno. Era morta la profonda speranza che ognuno covava nel cuore. Ciascuno conosceva, in fondo, ciò che nessuno voleva sentirsi dire. Avevano ucciso Aljoška. Si erano scordati di lui; e in questa spaventosa dimenticanza il mondo, proprio quel mondo che fino allora li aveva arrisi, si sbatté feroce contro di essi.

Lo credettero inabissarsi dolcemente nel fiume gelido di aprile. Lo immaginarono così, accalcati intorno alla baracca di Dojbròvina, mentre il cielo grigio si addensava ad Est.

Non vollero, né seppero credere a niente. Il pazzo si era allontanato, se n'era andato nell'unico luogo in cui avrebbe potuto stare bene, dissero poi. Ed io so che avevano ragione. Aljoška solo si era salvato. Accolto dalle principesse dei ruscelli, benvoluto dalle acque, morì col sorriso sulla bocca. Per la prima volta in vita sua.

Nevicò per molti giorni, e per molti giorni ancora l'ira del tempo cadde sulla terra. Il gelo freddò i loro cuori. Il gelo spezzò le catene che li teneva uniti. Ma in tutto quel marciume, solo Aljoška si era salvato. Veramente pio, prigioniero immacolato nel petto di tutte le rusalke, partecipava dell'estasi.

Ed era morto, sul serio.




[1] Nella mitologia slava, anime di fanciulle morte violentemente, annegate in laghi o fiumi delle quali si crede che continuino ad abitare le acque e le rive.

 

 
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