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Nomi e cognomi.

Post n°82 pubblicato il 06 Dicembre 2010 da marcalia1
 

"Nomen omen", dicevano gli antichi. Ma siamo sicuri che, in Italia, attori o personaggi celebri con tanto di nomi che fanno "cool" solo perché pronunciati all'inglese, riscuoterebbero lo stesso successo fonetico nel nostro "allegro latino" (come definì Goethe la lingua italiana)? Non so, vediamone solo alcuni. Ecco Bruto Guglielmini, alias Bruce Willis. Tommaso Crociera, Tom Cruise. Ricordate quella avvenente biondona protagonista di "Flamingo Road", la serie che emulava "Dallas"? Lei era (bellissima) Morgan Fairchild, Morgana Bambinogiusto. James Brown, da noi, si chiamerebbe Giacomo Bruno (o Marrone). Alfred Hitchcock si trasformerebbe in Alfredo Pizzigallo (peggio: Pizzicazzo, perché "cock" in inglese allude anche al membro virile). Nicolas Cage, nipote del cotanto zio Coppola, all'anagrafe italiana sarebbe Nicola Gabbia. Lo scrittore vittoriano Thomas Hardy, Tommaso Ardito. L'attore Jeremy Irons? Geremia Ferri! Nick Taylor, golfista, Nicolino Sarto. William Shakespeare, vabbeh è noto, Guglielmo Scuotilancia o Scollalanza. Margaret Thatcher, udite udite, Margherita Impagliatore (e pensare che la nominavano "lady di ferro"). George Bush, Giorgio Rovo. Stephen King, Stefano Re (degli scrittori, avverando il motto latino citato in apertura). Robert Redford, Roberto Guadorosso. Gregory Peck, Gregorio Becca o Beccato o, perfino, Bacetto. Louis Armstrong, Luigi Fortebraccio. Orlando Bloom, idolo delle mocciose anche un po' pasciute, Orlando Fiorito (anche Sbocciato). Danny Glover, quello di "Arma letale", Danilo Guantaio. Il damerino inglese dalla faccia che reclama sonori sberle, quello Hugh Grant là insomma, sarebbe Ugo Permesso. Il grande Martin Sheen, che andava alla ricerca di Kurtz, Martino Splendore (e pensare che il vero cognome è Estevez). Clark Gable, difficile almeno nel nome: lo si potrebbe tradurre, in piena libertà, come Cosimo Timpano. James Bond, odiosissimo, Giacomo Legato: provate a dirlo in italiano: "il mio nome è Legato, Giacomo Legato" e vedrete quante pernacchie!

 
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Aljoshka e le compagne.

Post n°81 pubblicato il 03 Dicembre 2010 da marcalia1
 

Dal diario personale di Aljoška Poroždorov, recuperato il 30 aprile 1958.

 

Martedì

Rotola il tuono. La neve pesa come calibri di cristallo, che cadono. La terra, qui intorno, ha il forte odore delle tombe. Il tuono avanza, da occidente. Il tuono fa male alle orecchie. Scricchiolano le pareti di legno, sfrigola la brace nella stufa. E' il vento, una nave; una grossa nave che beccheggia nella tormenta. Il vento e il tuono. Buio e silenzio. Tenebra.

Nere ombre nella neve. Respiri che sorridono alla luce del mio lume. Risa. Tuono, da occidente. Neve che picchia sulla mia testa, testa che marcisce al freddo. Il treno della notte. Solo ferraglia, vomiti della crosta del pianeta che mille omini cocciuti hanno rosicchiato. Stasera sarà calda la minestra per voialtri.

Ombre scure, ancora, dietro la finestra. Un buco fatto di puro buio che zittisce il respiro. Ti vedo, nera ombra sul fossato. Ecco il tuono. E' dentro me, adesso. Il tuono parla, è carne che vibra alla luce degli dèi boschivi. Il tuono sono io, mera rimembranza di uomo sepolto vivo e all'impiedi. Sorridi, spettro riflesso nella neve. Nubi e tuoni e vento e risa di fanciulle in amore. Le nubi solcano i miei occhi, con lampi di metallo azzurrato.

Il treno avanza. Musica di ingranaggi in tensione. Scoppiano gli occhi, esplodono di fuoco le sue bave. Scivola sulla neve, cadavere in putrefazione. Risa congelate nella notte, risa di fanciulle. Il treno sopravanza, è già lontano, oltre la boscaglia. Niente stasera, per me.

Risa e tuoni e neve. Nubi, sulla mia testa. Grosse, scure, vascelli di acciaio che volano nel freddo. Vi vedo fanciulle, io incomincio a vedervi. Pene d'amore, affogate qui. Io vi spio nel sonno. Calde allucinazioni, voi siete.

Muore la notte. La notte è brutta come la cacca di un morto. Ripari, solchi tracciati nella notte. Passi e risa di fanciulle che schiacciano la neve. Io vedo e sento. Io sono vivo.

Scrivo, pezzo freddo di uomo. Scrivo le vostre storie, le mie storie, le storie che mai furono scritte. Le storie sono figlie di altre storie. Fanciulle morte di dolore, soavi principesse della neve. Le vostre storie sono le mie. E' giunto il tempo di svegliarmi. Dormo un milione di secoli in questo letto. Il tuono fugge, corrono il vento e la neve dietro al treno che è passato. Muoiono le rusalke[1] un'altra volta.


Venerdì

Nevica forte qui in basso. Fanno già quasi tre settimane che non passa nessun treno. Niente di niente. Si ascolta solo il vento. Si ascoltano le risa di fanciulle, e immagino i miei baci sulla loro bocca. Fischia il samovar, ed io con esso. E' il cadenzare di ogni gesto quello che mi rende forte. Sono macchina congelata nei ghiacci. Mi sento molto solo, più di quando vivevo nel bosco. Non c'è nulla qui che dia il senso di un riferimento, uno qualsiasi. Lo spazio bianco è più grande di ogni possibile immaginazione.Mi sento male, quasi quasi ho le allucinazioni. Oggi ho parlato con gli alberi ma non mi hanno risposto; non hanno voluto ascoltarmi. Odo solo il silenzio. Nemmeno il vento fa più rumore, quasi fosse ammutolito nella propria ira. E sì, se nevica! Cristalli d'acqua che colpiscono il mio corpo mezzo morto di freddo, sulle rotaie. Non c'è nessuno qui, tranne me. Un mostro congelato che marcia lungo linea. Avrei voluto sentirle di nuovo ieri, pure nulla. Percepisco le loro dolci voci mentre cullano il mio sonno. Sono tante, belle, tutte di bianco vestite. Le bacio con la mente e accarezzo i loro spiriti. Ma ce n'è una, che sta sempre in disparte, col mento poggiato sulle ginocchia, schiacciata sotto l'albero della Notte. Non parla, solo geme nel pianto che l'accompagna nel suo cammino. Aspetto così. Magnificamente adornato di neve, attendo una loro chiamata. E' un gioco. E' una ossessione che ti svuota dentro. E' l'attesa carica e sacra che ti scioglie il cuore. Aspetto domani, ancora.

Corpo freddo. Solitudine. Paura, ora soggiace la paura sotto il mio letto. Avanzo, punto infinitesimo nella vastità della piana, a trovare lo scambio. Blocchi di metalli ghiacciati, giunti come stecchi al freddo della nottata. Sono io che marcio avanti, sempre avanti. Lo spazio qui fuori non esiste più. Alberi, unicamente alberi. Ecco, io so di essere uno di quegli alberi. Respiro, nutro il mio corpo, penso: un tronco spesso che mi blocca il cammino. Avanzo come uno spettro senza volontà, né desiderio alcuno.

Il treno. Mille e mille ingranaggi che ruotano all'unisono come un orologio fatto di rubini. E' meccanica pura che scivola sul terreno. Il treno è già qui. Sento il suo odore fatto di olio e grassi che colano sulle fiancate, l'odore della gente che non dorme da giorni. Il treno è un serpente di metallo lucente che svergina la tormenta, la notte, e l'attesa. Ma stasera nulla per me. Né lettere, né messaggi di servizio: ricambi e viveri, viveri e panni che puzzano di amido, e cialde e carne e vodka, per il gelo e per non pensare.

Ora è tardi. Il rumore di ferraglia è già scomparso. Odo le loro voci. Sono tante e belle, cariche d'amore. Tra poco andrò da loro, a scaldarmi il cuore. Le rusalke amano il gioco. Le rusalke vivono qui, in questa stanza e sulla riva dei ruscelli. Mi parlano di ieri, quando io non ero ancora nato. Le rusalke fanno l'amore per non amare, baciano lo spettro che io sono. Le rusalke sanno forse di non essere mai vissute, come un libro pensato e mai scritto. Eppure io le vedo e respiro dei loro profumi.

Ancora tempo. C'è ancora tempo prima che parta una volta per tutte. Ma in fondo, ancorpiù l'attesa di sloggiare, è forse la mia mente che si stacca dal mondo. Scivolano sulle mie braccia, e sulle mie gambe, e sul mio viso, pure idee che non hanno forma. Essere vivi: questo è ciò che conta, adesso. Muoversi, parlare, fare cose per riuscire a crearsi un incantamento ed andare avanti. Sempre avanti. Senza respirare, sotto la tormenta.

 

Domenica
Mi sono smarrito nella tajga. Non c'è più nessuno ormai qui che voglia ascoltarmi, ecco tutto. Si sono scordati di me. Mi sono perso nell'eternità del mondo o forse è il mondo intero che si è sbriciolato. Vai a capirle certe cose. Ti dicono: la collettività necessita del tuo servizio. D'accordo, c'è chi ha bisogno che io lustri il fondo del barattolo finché qualcuno abbia di che vivere. Ma dov'è la misericordia, allora? Ti prendono per matto, questo sì. Ma la pazzia null'altro è se non l'allegria di un giorno che dura per sempre. E non lo sanno, per niente. Poco ma sicuro. Ti danno la vodka in modo che tu possa pensare ad altro; ti saziano il corpo di carne rifredda per darti la possibilità di pensare il contrario di quello che vorresti gridare. Già, gridare. Come se per farlo si debba per forza avere la voce: aaaahhhhhh! Non è mica urlo quello, mica rumore della bocca. Il vero grido è dentro me, che si ribella. Il vero grido sono la mia faccia e le mie membra. Fanno tremare la terra. Scuotono i pensieri che sono tutto il mondo, insieme a me.


Lunedì

Avanzo di un metro o due, lungo la linea. Ora mi giro, volgo lo sguardo oltre la boscaglia innevata. E poi le vedo. Candide come la bellezza di un angelo, fluttuano nell'aria, e ridono. Si prendono gioco di me. Ci vado, ora; mi sa tanto che mi butterò tra quelle braccia delicate. Sì, mi sa proprio che lo farò. Nulla più mi lega a questi luoghi, se non il fatto che io vi sia vissuto. Ma tant'è. I ricordi sono come foto sbiadite che non portano memoria. I ricordi fanno male come morsi. Ecco, ora sono tra voi. Sono il dio del bosco che si è risvegliato. Lampi e spade di fiamme, eterei gorghi di luci che nascono dal mio ventre intorpidito. Vi danzo sul corpo che non è corpo, anima galleggiante. Sto per valicare un altro mondo, lo sento. Sto per andare oltre, nello spazio strano ed incommensurabile in cui non esiste opera né immagine. Questo mondo è dentro me, lo sento davvero. Aaaahhhh!,questo sì che è un grido! Un grido che squarcia il ventre in verticale, che ti lacera la pelle come un otre troppo gonfio, che ti scoppia da dentro fino a sbudellarti. Sono al limite, quasi. Andrò a perdermi lì giù, riempirò il mio spirito delle dolcezze di cui mai ho goduto prima. Le rusalke sono fiori. Le rusalke sono la luce delle stelle coperte dalle nubi. Sto bene ora. E' una splendida, magnifica illusione che mi porto in fondo al cuore. Me ne vado, io parto preso per mano. Non so dove. C'è tanto spazio al di là del mondo che un limite, ne sono certo, riuscirò a trovarlo.

Sabato

Idee fisse. Sempre quelle. Beh, sono matto mi dicono, e forse ci credo anch'io. Ma sia quel che sia, penso alle verità che mi scaturiscono dal cuore, non per niente. Oggi nessun treno. Mi sa che si sono scordati di me; mi sa davvero che mi confondono con qualcun altro, così non mi vengono a cercare. Vorrei proprio vederlo l'altro me stesso. Dicono le rusalke che ogni uomo ne porta dentro due. Eppure qui, io non vedo nessun altro all'infuori del mostro che sono io. Ma perché? Dove sono andati a finire gli altri? Sono andati, ecco, sono partiti senza salutarmi.Come potrò vivere con questa esitazione di lasciare tutto? Le rusalke raccontano. C'è qualcuna di loro che annuncia la partenza prima ancora di salutare. Farò così. Svanirò presto nella tenebra disabitata del mondo appena annunceranno la mia venuta. Sarò fine e principio di ogni cosa. Tornerò a confondermi con l'io diverso che alberga separato nel corpo mio. Mi inoltrerò nell'abisso senza uguali ed in questo sprofondare amplissimo lo spirito che per secoli mi ha innalzato perderà se stesso: sarò nel fondamento semplice dove ognuno è tutto ma in verità non sta in nessun luogo. Allora sarò sempre io, milioni di volte, nella moltitudine nulla. In quell'abisso ineffabile tutto diverrà intima uguaglianza, senza più voce e volontà. Lì, sono sicuro, non mi resterà che tacere dimenticato nel silenzio infinito. Né altro, sicuro.


Nota del Curatore:

Al villaggio più nessuno parlava. Sembrava come se un velo ricamato di gelo fosse caduto sopra le facce dei villani. Non si scambiavano i saluti, nemmeno. Era morta la profonda speranza che ognuno covava nel cuore. Ciascuno conosceva, in fondo, ciò che nessuno voleva sentirsi dire. Avevano ucciso Aljoška. Si erano scordati di lui; e in questa spaventosa dimenticanza il mondo, proprio quel mondo che fino allora li aveva arrisi, si sbatté feroce contro di essi.

Lo credettero inabissarsi dolcemente nel fiume gelido di aprile. Lo immaginarono così, accalcati intorno alla baracca di Dojbròvina, mentre il cielo grigio si addensava ad Est.

Non vollero, né seppero credere a niente. Il pazzo si era allontanato, se n'era andato nell'unico luogo in cui avrebbe potuto stare bene, dissero poi. Ed io so che avevano ragione. Aljoška solo si era salvato. Accolto dalle principesse dei ruscelli, benvoluto dalle acque, morì col sorriso sulla bocca. Per la prima volta in vita sua.

Nevicò per molti giorni, e per molti giorni ancora l'ira del tempo cadde sulla terra. Il gelo freddò i loro cuori. Il gelo spezzò le catene che li teneva uniti. Ma in tutto quel marciume, solo Aljoška si era salvato. Veramente pio, prigioniero immacolato nel petto di tutte le rusalke, partecipava dell'estasi.

Ed era morto, sul serio.




[1] Nella mitologia slava, anime di fanciulle morte violentemente, annegate in laghi o fiumi delle quali si crede che continuino ad abitare le acque e le rive.

 

 
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Pensiero meridiano n.1

Post n°80 pubblicato il 25 Novembre 2010 da marcalia1

L'amore è un sacrificio inutile.

 
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"Pizzica e taranta" non è "pizze e foje".

Post n°79 pubblicato il 21 Novembre 2010 da marcalia1
 

Certe volte penso davvero che Nanni Moretti abbia ragione: "le parole sono importanti". Su Facebook mi sono imbattuto in un volantino elettronico sulle offerte coreutiche nostrane - che ometto di riportare - scovandovi una grave ingenuità. "Pizzica e taranta" non sono un sintagma che implica per logica consequenziale due attanti nominali, come "prosciutto e melone", "pizze e foje" o "Gianni e Pinotto". La pizzica-pizzica è invero l'espressione profana della tarantella liturgica, appunto la "danza della piccola taranta". Ma, di fatto, la taranta è il mitico ragno che morde e rimorde alle pudenda sotto la canicola, non la danza di per sé: a meno che chi si propone il corso di "taranta" non obblighi i suoi allievi ad imitare i contorcimenti convulsivi e il grido rituale dei tarantati, ad eseguire "l'arco isterico", a far vorticare su se stessi fino allo sfinimento a terra, nonché a vomitare l'acqua benedetta di san Paolo attinta (si spera) a Galatina. Cioè, in altre parole, sarebbe corretto parlare di "taranta" come ballo se si imponesse di eseguire la pantomima storica del ragno immaginato che pizzica e costringe a ballare. Eppure, altro ancora, è che mentre "pizzica" suppone tarantismo (ovvero tutto l'apparato culturale del morso e della sua terapia risolutrice), "taranta" implica tarantolismo  (a dire il morso reale come caso clinico appurato) e i due sostantivi, benché assonanti, rinviano a due aspetti differenti dell'aracnidismo così come esso è stato notato in Terra d'Otranto. Persino sul piano etimologico ci muoviamo su due piani differenti: pizzica è, secondo Rohlfs, lemma sacro legato alla Pizia oracolare, che in stato di trance forniva i responsi nel tempio di Apollo a Delfi; taranta, all'opposto, richiama il radicale indeuropeo *tar, da cui anche l'italiano "tremare". Ci troviamo davanti a due criteri pertinenti alla stessa isotopia antropologica, è vero, ma che in realtà non necessariamente si rapportano. Scrivere pertanto su quel manifesto che ci sarà un corso sulla "pizzica e la taranta" sa tanto di piaggeria, di autocompiacimento del nulla, che si esprime nella immagine critica di una impreparazione di fondo risolta in quattro e quattr'otto per esigenza della domanda commerciale o della moda che si consuma in fretta. Nel peggiore dei casi è - absit iniuria verbis - una presa per il culo somministrata da qualche insipiente che vuole spillare (cosa e per cosa non è dato sapere) soldi a degli ingenui improvvisati di danza, fulminati come tanti Frattazzi sulla via di Velletri da quello di cui tutti (s)parlano, ma nessuno sa bene in fondo cosa sia: ovvero "il rimorso che ti viene da piangere", e che trova la sua illusione di guarigione nella tarantella, la danza che toglie la maledizione dell'inquietudine. Meditate, gente. Meditate.

 

 
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L'officina della parola. Perché nascono oggi le varianze semantiche.

Post n°78 pubblicato il 22 Settembre 2010 da marcalia1
 

Diciamoci la verità: oggi non parliamo più come una volta. Tutto è mistificato, svuotato, riconsiderato alla luce di nuovi ordini culturali. La parola diventa il detto e il suo contraddetto; l'opposto, in riduzione, di quello che vorrebbe dire. Si edulcora ogni sostantivo, ogni verbo; si parla per eufemismi, perché uno non abbia ad accorgersi di saper usare i termini sbagliati per indicare davvero come stanno le cose. Propongo tre esempi.

Escort: una volta si chiamavano prostitute (letteralmente: "coloro che espongono, mettono in mostra"); puttane (in senso etimologico, la radice sanscrita puta vuol dire ciò che è santo: torniamo così al senso religioso della sacra prostituzione antica); meretrici (dal latino merere: guadagnare); troie (le femmine del maiale); in Nord Italia, per le influenze celtiche (cfr. baches, femminuccia), bagascia; a Napoli, invece, sono semplicemente 'e zoccole. Escort invece è parola inglese che vuol dire "guidare, condurre, scortare", dal latino excorrigere[1], affine all'italiano "accorgere", nel senso di trovare, imbattersi. Nel mondo anglosassone, opulento e vizioso, le escort erano e sono tuttora belle ragazze che accompagnano (a pagamento) ricchi uomini d'affari nelle cene di rappresentanza, per il puerile senso d'orgoglio tipico del maschio umano di essere ammirato con una donna avvenente al proprio fianco. Uscire a cena con una escort non implica necessariamente il dopocena in albergo, nelle intimità delle lenzuola, la cui scelta ricade volontariamente sempre sulla donna. Ora, dico questo, perché la stampa di regime vuol farci credere che il Nostro Sempre Caro Presidente S.B. sia stato in compagnia di escort a Palazzo Grazioli, passando il tempo a discutere di politica; che Bertolaso si sia fatto fare i massaggi per la sciatica; e che Tarantini abbia proposto loro un vertice intellettuale con bonazze ventenni. Se fosse così allora io sarei Carlo Marx; ma poiché so di non esserlo nemmeno nelle intenzioni, una escort è quello che è: la donna di tutti. Purché si paghi. In altre parole, si cerca di ridimensionare il problema di un uomo (allora) sposato che va a puttane coi suoi compagni di merenda, un uomo che fonda i suoi valori etici sulla sacralità della famiglia e che, sia detto per inciso, governa il nostro Paese. Che poi se la spassi pure con le minorenni sembra non rappresentare un problema per nessuno. Anzi, il "papi" diventa vittima di un complotto perverso al fine di screditarlo agli occhi della nazione. Meglio una volta, allora, quando il "vaffanculo" era detto per amore della verità e le escort si limitavano ad accompagnare coloro che ci andavano.

Burlesque: termine d'origine francese che allude, come per l'italiano burla, ad un genere letterario di marca satirica o celiosa. Oggi spopola in tv, dominata dall'egemonia culturale della destra capeggiata sempre dal Nostro Amatissimo S.B., padrone dell'informazione italiana, nella variante tardiva dello spogliarello da belle époque sotto le pretese dello scherzo. Ma qui non si tratta di uno stesso principio, quello dei vasi comunicanti: ovvero, non è cultura del simile che si rifonda nel simile. Non vedo infatti la differenza d'ordine attiva tra una "ballerina" di burlesque sul Chiambretti Night ed una povera ragazzotta ucraina che si sveste nei più infami locali notturni di Palermo. La sfumatura è tutta linguistico-culturale: ci si spoglia e si ammicca in francese, certo, suscitando il desiderio chimico del Viagra in quei miseri compagni di merende che accompagnano il pasto con cocaina e champagne; ci si illude di assistere ad uno spettacolo che ha la falsa pretesa di emulare il non-seno di un corpo femminile che si sveste, corpo che resta infine solo l'immagine inappagata di una brama erotica mascherata da chili di cosmesi. Un tempo il burlesque aveva la sua storia nei locali londinesi in cui il puritanesimo estenuato obbligava a coprire perfino le gambe dei tavoli; e la gente vi assisteva per dimenticare l'oppressione dei sensi, benché le donne non si spogliassero. Ma quella vittoriana è un'epoca che dista ventimila anni-luce dall'Italietta televisiva di oggi, specchio sudicio di una morale ipocrita che spaccia i sogni dei ricchi per le illusioni dei poveri.

Single: sostantivo (celibe, nubile) e aggettivo (solo, unico) da bandire definitivamente, soprattutto dall'italiano. Primo perché in lingua inglese scapolo si dice bachelor e zitella spinster (unmarried va bene per ambedue e per tutti quelli in vista dell'altra metà del cielo, senza il beneplacito ufficiale del "sì"). La seconda ragione sta poi nel fatto che single implica il criterio di scelta esistenziale. Non a caso il termine si è diffuso nel gergo giovanilistico a partire dagli anni Ottanta, quando andava di moda in USA essere uomini e donne in carriera, comprarsi un attico a New York e scegliersi nei locali alla moda uno/una con cui passare la notte. Single non è lo scapolo o la zitella ormai sul viale del tramonto. Single è la volontà di starsene soli, per un criterio consapevole di autoaffermazione. Essere single implica l'idea moderna della dinamicità sociale, delle relazioni promiscue e forse anche il timore di sbagliare quella scelta sentimentale che condizionerebbe un decorso in due. Lo scapolo e la zitella, al contrario, sono le figurine antiche di un'Italia in bianco&nero che sentiva ancora il vento della speranza sulla faccia; in loro dominavano i sogni dell'amore, spesso imposto dalle trame parentelari, a  meno che non si fosse rinunciato a trovare davvero la moglie o il marito. Gli scapoli e le zitelle odoravano di balere paesane frequentate la domenica pomeriggio; sapevano di quella dolce tristezza che coglie gli individui al limite consapevole di una possibilità ancora irrealizzata: era pura poetica della rêverie sotto l'influsso incantato del probabile batticuore. La "singletudine" sta al loro opposto. Si nutre di liturgie effimere, di riti sconsacrati, di sabati sera qualunque, di aperitivi conditi con sguardi ammiccanti, di amplessi forse nemmeno cercati. Ma si resta soli, stringendo il niente nei pugni, privandosi (in fondo) di un abbraccio elementare che disegna a ben vedere l'ipotesi suggestiva di un Amore. Sempre una scelta, d'accordo, che però addossa a sé, condensandola, l'immagine del vuoto su cui poggia un nuovo criterio morale in cui va a finire che l'arredamento della casa nuova diventi più importante della parola, anzi di quel sintagma antico come il tempo, cibo dei poeti morti, che da sempre genera consenso per chi ci crede: "ti amo". Il meglio di tutto.


[1] Cfr. Skeat Walter W., An Etymological Dictionary of the English Language, Oxford, Clarendon Press, 1963, sub voce "escort".

 

 
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