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Turin Brakes - Outbursts (2010)

Post n°7 pubblicato il 23 Ottobre 2010 da syd_curtis
 


Non sarebbe nemmeno male questo disco dei Turin Brakes, in bilico tra folk elettrico, pop romantico e americana, se non fosse per l'uso straordinariamente insistito della melassa violinica: ci sono tre, quattro, cinque canzoni fotocopia nel centro dell'album, la voce a rimestare nel tenero, mentre ai lati s'allarga la devastazione degli archi.

Chi lo consiglia ai Turin Brakes, chi lo consiglia in generale ai gruppi pop-rock questo smodato impiego di basi orchestrali, che fanno tanto retorica enfatizzante, che banalizzano, rendono dozzinali canzoni pur buone, sviliscono la materia: chi? Sono basi precotte estratte da un pentolone che ne contiene tante così, tutte ridondanti e senza fantasia. Nel caso dei TB, la violinitudine tracima di brano in brano tanto che: a) pare di sentirla anche dove non c'è; b) ci si accorge di stare con l'orecchio teso pensando, beh, almeno qui l'ho scampata.

Intendiamoci, non sono contro l'uso di viola, violino, violoncello nella musica pop, per carità, ci sono ottimi esempi di archi inseriti nel contesto: quasi sempre, però, trattasi di singoli strumenti, nulla di preconfezionato, niente pentoloni orchestrali né sviolinate zuccherine. La viola di John Cale, tanto per gradire; oppure, senza scivolare nella preistoria, tra i dischi di quest'anno si può pensare, chessò, al bluegrass dei Coal Porters, o al bell'album di Anais Mitchell. Scivolando un po' più indietro, ricordo un Nick Cave d'annata (The boatman's call) in cui l'interazione chitarra/violino costituiva un punto di forza. Dannazione, vi ricordate Underground Dream dei Son Volt sfregiata dalla melassa nel finale? O il Neil Young di Harvest? La celeberrima The Long and Winding Road dei Fab Four, sconciata da Phil Spector?

Beh, è in ogni caso un vero peccato, perché la band londinese (Balham, un quartiere di South London) di Olly Knights e Gale Paridjanian (entrambi voce e chitarra) dimostra ampiamente di sapere il fatto proprio. Inglesi, le loro languide ballate elettro acustiche suonano dalle parti dei Gomez, o di Tom McRae, o di Badly Drawn Boy, con ammicchi a un po' di americana a scelta, tra i millanta gruppi del genere. Come dicevo, scontata la melassa violinica, da Embryos in poi è un bel sentire e poco importa se i Kings of Convenience suonavano alla stessa maniera e meglio dieci anni fa (cit.), la musica pop è un territorio instabile e relativo, aleatorio: non conosco granché i norvegesi e non ho ascoltato i primi album dei TB e rivendico l'emozione (ebbene sì) dell'ascolto nuovo.

Insomma, eliminati quei quattro cinque brani inascoltabili, il resto scorre molto bene e molto piacevole, anche se Rocket Song assomiglia fin troppo a Hallelujah di Leonard Cohen e Never Stops, forse la traccia di impatto più immediato, rimanda tra le righe (e curiosamente) alla Tracy Chapman di Talkin' bout a Revolution (nel refrain, ma forse è solo mia impressione o forse ricorda altro).

Gradimento: 6


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