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Messaggi di Aprile 2014

 

Neil Finn - Dizzy Heights

Post n°350 pubblicato il 22 Aprile 2014 da syd_curtis
 

 

 


E' una ossessione sconcertante dei media moderni: il miglior chitarrista degli ultimi 50 anni, le 100 canzoni più belle, i migliori album di sempre. Tutto ciò mi annoia, forse perché non sono incluso nella maggior parte di questi elenchi. (Neil Finn)


Ispirato: Nelle presentazioni promozionali dell'album, l'autore ha dichiarato: "non intendevo fare un solo-album nella versione minimalista cantante-cantautore. Avevo la sensazione che Fridmann potesse andar bene per aggiungere forme strane alla musica. E' ciò che sempre apprezzo: rendere le cose un po' più ampie, estese". E' proprio questo il caso, e funziona davvero alla grande. Sembra che 'Dizzy Heights' (Cime Vertiginose) sia un titolo appropriato: permea di sé il disco, che sia la voce di Finn, o le stesse canzoni, o la produzione. E' grande che Finn ci abbia regalato ancora un disco da solista, in particolare se ispirato dalla presenza di Fridmann. Una partnership riuscita, che gode di un notevole spirito avventuroso. Dizzy Heights è certamente il lavoro di Finn più ispirato da parecchio tempo a questa parte. (Music Omh)

Confuso:  Il più grosso difetto dell'album: Finn cerca chiaramente di far confusione, per apparire quel songwriter sperimentale che in realtà non è. E' molto meglio quando va diretto e diritto allo scopo, un sentiero che sceglie di NON seguire in Dizzy Heights; utilizza l'intervento di Fridmann per creare un effetto disturbante. "E' bravo a sovvertire le cose", dice Finn del suo co-produttore, "a far apparire le cose un po' più incasinate e meno ovvie, a rifuggire il troppo 'buon gusto', cosa che è sempre una tentazione". Beh, avrei preferito che Finn cedesse "Into Temptation" (per citare il titolo di una canzone dei Crowded House) e creasse qualcosa che colpisse e disarmasse, come è solito fare. Ma Dizzy Heights sembra voler tenere a distanza questo aspetto della personalità del Finn songwriter, come se l'autore volesse provare di essere qualcosa di più di un ordinario Songsmith (generatore di canzoni), buono solo a far ballare la gente; e questo è male (dannazione! Ndt), perché i greatest hits di Finn hanno sempre avuto un effetto indelebile sull'ascoltatore. (PopMatters , solidarietà al recensore, attaccato (nei commenti) dai talebani del gusto).


Opinioni non richieste:
Se amate, come il sottoscritto, la canzonetta pop da tre minuti dalla melodia canaglia, che conservi in ogni caso una predilezione riconoscibile per l'arrangiamento sobrio, non potete non conoscere (e non voler bene a) Neil Finn. Neozelandese d'origine, classe 1958, in giro sin dagli anni Settanta con un gruppo che si può ascrivere a ragione nel movimento new-wave, gli Split Enz, in seguito confluiti nei Crowded House -altra band di cui val la pena recuperare la discografia a cavallo tra Ottanta e Novanta-, Finn ha sempre mostrato doti insuperabili di songwriter: dategli una chitarra elettrica, una sezione ritmica scattante, e vi sfornerà nel giro di qualche minuto un pezzo pop da canticchiare sotto la doccia. Questo suo Dizzy Heights, uscito a quasi tredici anni dal precedente One Nil, quando lo si credeva oramai affaccendato in tutt'altri progetti, lo vede tornare in forma più che buona. E' un album bizzarro, suggestionato dal feeling psichedelico del produttore, quel Dave Fridmann noto per le collaborazioni con i Flaming Lips: si vedano a proposito la iniziale Impressions, o la suite, di gusto quasi Radiohead (!), White Lies and Alibis, o la pasticciatissima (e orribile, va detto) Divebomber. E' solo un accenno, tuttavia: nelle sue parti migliori, l'album s'assesta intorno al canone consueto dell'autore; pezzi come Flying in the face of love, Better Than TV, Pony Ride, e soprattutto la rotondissima, perfetta Recluse (a dispetto del testo discutibile), sono bigiotteria colorata che non costa nulla indossare in primavera, mentre si cammina a piedi nudi tra margherite e primule. 

Una cosa piccola, che mi va di aggiungere (sui Crowded House): la band, com'è noto, si sciolse nel 1996. Nove anni dopo, Paul Hester, "il miglior batterista con cui abbia mai suonato e per molti anni il mio più intimo amico" (Finn), si tolse la vita in seguito a un lungo corpo a corpo con la depressione. In una breve, ma bella intervista al Telegraph (da cui ho tratto anche quel pezzetto posto in cima all'articolo), dal titolo significativo "Music is a mystery", Finn spiega così la reunion del gruppo, avvenuta nel 2006: rispetto a Paul, il suo congedarsi da noi in quel modo così prematuro, mi ha portato a chiedermi dell'energia che avevamo creato nel tempo in cui siamo stati insieme. Era passato tanto tempo da quando ci eravamo lasciati, quindi non sto cercando di assumermi nessuna responsabilità al riguardo, ma tenevo così tanto a lui, e tenevo tanto a ciò che avevamo fatto assieme, e suppongo che non volessi che la storia finisse in una maniera così orribile. Volevo creare una storia nuova, e bella.

 
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Notwist - Close to the Glass

Post n°349 pubblicato il 17 Aprile 2014 da syd_curtis
 



Pollice su:
I Notwist fondono il lato sperimentale della loro musica e le innegabili competenze pop, dentro canzoni che sono ugualmente dinamiche e inquietanti: canzoni come 'Signals' sono allo stesso tempo abrasive e accattivanti, sposano percussioni rumorose con archi e melodia struggente. La raggiunta maturità della band fa sembrare facile questi accostamenti, la loro esperienza nella sperimentazione viene messa al servizio delle canzoni più forti, come nei nove minuti strumentali di 'Lineri'. [...] Il modo in cui uniscono l'organico e l'elettronico, il cerebrale e l'emotivo, fa di Close to the glass l'album più gratificante e divertente dell'intera carriera dei Notwist. (da All Music).

Pollice giù: A differenza della parte migliore della produzione Notwist, Close to the glass non è nutriente, quanto ad emozioni: prima di tutto, perché non c'è una sensazione reale che tutto sia in gioco. In questo senso, il titolo dell'album pare deludentemente appropriato. Non c'è un punto di ingresso, come se l'intera cosa sia stata progettata per tenerti a distanza. (da Pretty Much Amazing).

Opinioni stringate: i Notwist tornano, dopo sei anni di silenzio, con un album perfetto, in cui tutto si tiene: istanze pop della più bell'acqua (Kong), chitarre acustiche (Steppin' In), chitarre distorte che paiono uscite dai primi anni Novanta (7-Hour-Drive, e quanto suona strano Kevin Shields in un disco dei Notwist!), il tutto ricamato sopra un tessuto elettronico che è loro consono e che suona vivace, sentito, tutt'altro che routinario (date un ascolto quantomeno alla title track). Non c'è una sola traccia che sia di troppo: diritto tra i dischi dell'anno.

 

 
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Cheatahs - Cheatahs

Post n°348 pubblicato il 06 Aprile 2014 da syd_curtis
 

 

Pollice su: Album infarcito di gioiellini - spicca l'apertura di Geographic, una miscela energica di chitarre esplosive, voce malinconica e un potente riff alla Bastards Of Young; il fatto che non sia stato rilasciato come singolo pare sconcertante. Northern Exposure è il punto in cui più si avvicinano ai Dino Jr, mentre il brano di chiusura Loon Calls è il culmine del disco nel suo complesso, una palude downbeat di rumore e melodia che sfuma in uno squillare di note di chitarra. (Music Omh).

Cani perduti nel deserto: Se vi siete mai chiesti perché i cani lascino penzolare la testa fuori dal finestrino della macchina, date un ascolto a Geographic degli Cheatahs e lo saprete. Conoscerete la sensazione innegabilmente gioiosa che può dare l'immersione del proprio viso in un flusso di chitarre simile alla scia di un jet, lingua penzoloni davanti al mondo, nemmeno si fosse una Miley Cyrus sedata. [...]. Non è mai noioso, questo disco, il dinamismo delle tracce testimonia del senso del movimento loro proprio. Tuttavia, dopo un po', non sembra esserci una vera destinazione. Un po' come uscire per un viaggio nel deserto con alcuni compagni incredibilmente entusiasti, solo per scoprire, dopo cinque ore di viaggio senza soste, che nessuno ha portato una mappa. (DIY)

Opinioni non richieste: Il disco d'esordio degli Cheatahs è una piccola, parzialissima consolazione per chi, come me, ha sofferto la delusione del secondo album degli Yuck. Londinesi come loro, gli Cheatahs, giovani e con la fregola shoegaze per le chitarre distorte e super-sature, la testa voltata verso gli amati Novanta. Pout-pourri di ammiccamenti, il loro album, omonimo, uscito a Febbraio, in un spettro sonoro che va dai Dinosaur Jr ai Pixies ai My Bloody Valentine (impossibile non pensare a loro, in sedicesimo, sia chiaro, davanti a pezzi come Kenworth). Piace soprattutto dove pigia forte il pedale del distorsore, vedi Get Tight, o The Swan, o ancora Northern Exposure, e pure quando rallenta il passo come in Fall - senza però inseguire, va detto, il fantasma younghiano così caro agli Yuck medesimi, ciò che ce li faceva amare, quella mistura di fragore e zucchero metropolitano (prima che Blumberg lasciasse e diventassero altro). Gli Cheatahs vanno in direzioni diverse, come è giusto che sia, e non sempre convincono. Piacciono meno, al sottoscritto, quando si fanno più dreampop, le chitarre si spianano e il suono un po' si impasta, perde nitore. Un buon lavoro, in definitiva, assai derivativo ma allo stesso tempo (o proprio per questo) capace di far trascorrere tre quarti d'ora di arroccamento nostalgico a chi ha lasciato parte del proprio cuore e della propria giovinezza in quel decennio che fu, a cavallo tra Ottanta e Novanta.

 
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Angel Olsen - Burn Your Fire For No Witness

Post n°347 pubblicato il 04 Aprile 2014 da syd_curtis
 

 

 

Pollice levato: La cosa davvero notevole di Burn Your Fire For No Witness è la messa in discussione della vera natura della canzone triste. Le canzoni di questo disco non mettono in scena lo spettacolo della tristezza. Sembrano non richiedere la presenza di un pubblico per creare significato; sono la pura espressione delle emozioni dell'interprete. Ad un primo livello, fanno ciò che ci si aspetta da loro, aggiungono senso al dolore e alla perdita. Su un altro piano, non cercano una catarsi o una connessione con questa tristezza, non quanto cerchino, invece, di spazzarla via. In quest'opera brillante, Olsen non è la voce rotta della guarigione. E' la voce stessa, nella sua potenza e bellezza, con parole attente che formano e affilano, a costituire il vero punto di rottura, la rottura che permette di lasciarsi le cose alle spalle. (PopMatters)

Esercizio critico: Se c'è una critica da fare a questo ritorno di Angel Olsen, è che la seconda parte del disco perde per strada parte dell'enfasi accumulata nella prima. Iota, ad esempio, è bellezza ottenuta col minimo sforzo, ma difetta del senso proprio delle migliori tracce dell'album. Enemy suona come non fosse del tutto finita, con la voce suadente di Olsen a tenere assieme tutto quanto. (Music OMH)

Opinioni di cui si può far senza: Troppe esagerazioni in rete su questo (per altro, buon) disco di Angel Olsen. Comprendo il desiderio di scovare la nuova Patti Smith, PJ Harvey, Cat Power, Feist e compagnia, ma non mi pare sia il caso, o non lo sia ancora, quantomeno. La Olsen ha i numeri, certamente, ma il risultato non è tale da gridare al miracolo. Un paio di pezzi ben al di sopra della media (Forgiven/Forgotten e soprattutto la bellissima e riverberata Hi-Five), diverse notevoli ballate elettriche, ma pure un brusco calo di intensità nella parte finale del disco, che fa scivolare verso la chiusura senza grandi sussulti. Siamo dalle parti, se volete, di Torres o di Sharon Van Etten (strombazzatissima, quest'ultima). La Olsen, mio parere, ha una marcia in più rispetto ad entrambe grazie alla qualità della voce, tanto che anche quando rallenta il tiro, non annoia.

 
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