Creato da acliterni il 25/04/2008
Diario delle ACLI provinciali di Terni
 

 

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Le ACLI di Terni sottoscrivono la "Lettera aperta al mondo del Terzo Settore"

Post n°6 pubblicato il 09 Giugno 2008 da acliterni
 

Tra i promotori dell’iniziativa figurano parecchie, qualificate, organizzazioni del terzo settore e del volontariato italiani: Casa della Carità, CNCA, CeAS, CGM, la rivista “Vita”, ACLI, Alea, Antigone, ERIT, FeDerSerD, FICT, FISH, Forum Droghe, LILA, Lunaria, MOVI. Ma sono numerose le organizzazioni di rilevanza locale e le persone che hanno già sottoscritto l’appello da cui ha preso avvio la raccolta delleadesioni. 

Gli aderenti all’iniziativa ritengono che non sia più rinviabile un riconoscimento pieno, da parte della politica e degli altri attori sociali, della soggettività politica del terzo settore e del volontariato e della funzione pubblica da essi svolta; inoltre, chiedono con forza che la questione sociale sia assunta da tutti come “la questione” più importante che ha di fronte il Paese.

L’iniziativa, infatti, nasce anche dall’insoddisfazione che le organizzazioni sociali provano nei confronti del mondo politico e delle istituzioni, dal rischio che le organizzazioni civiche siano chiamate solo a svolgere compiti di controllo sociale e non valorizzate per il proprio patrimonio di valori e di competenze e che la tutela dei diritti e la risposta ai bisogni sociali rimangano ai margini dei programmi politici e dell’azione di governo. 

Il Cantiere vuole appunto cambiare questo stato di cose attraverso un vasto coinvolgimento di persone e organizzazioni.

Il 19 giugno è previsto un “convegno costituente” dal titolo Cantiere per un nuovo welfare, senza inclusione non c’è sicurezza in cui, sulla base delle riflessioni e delle proposte pervenute, verrà presentata una vera e propria piattaforma sul welfare.  

IL TESTO DELLA LETTERA

Lettera Aperta al mondo del terzo settore

Cantiere per un patto costituente di un nuovo Welfare

Desideriamo dare un segnale forte e insieme coraggioso a una politica che rischia, ancora di più oggi, di non comprendere e valorizzare chi nella società civile, sui territori si spende quotidianamente per promuovere coesione sociale, prossimità vere e sta dalla parte di chi non ce la fa o fatica ad essere riconosciuto nei suoi diritti di cittadinanza. In questi anni sono cresciute tante esperienze di accoglienza, di contrasto alla povertà, di cura della vita anche là dove le tante dipendenze segnano la vita di giovani.

Siamo stati sulle strade a cercare di interrompere le tante schiavitù, soprattutto di donne e di minori; abbiamo promosso comunità di accoglienza, valorizzazione delle famiglie reali, cultura di affido, valorizzazione della presenza di immigrati, sperimentazioni innovative di ospitalità; abbiamo affrontato il degrado urbano stando in mezzo alle favelas anche per ridare opportunità di vera serenità e sicurezza ai cittadini.

Abbiamo rifiutato la visione assistenzialistica e pietistica, abbiamo preso le distanze da una visione buonista, ci siamo formati sul campo, siamo diventati imprenditori sociali, abbiamo coniugato tanti saperi nella crescita competente delle risposte.

Non ci sentiamo di essere collocati nel “libro dei testimoni” o di quelli che suppliscono all’inefficienza di un sistema, o ne gestiscono parti come semplici esecutori. Abbiamo e vogliamo continuare a consolidare diritti, e promuovere responsabilità sociali.

Molti di noi hanno portato avanti un’intransigente difesa della legalità, combattendo ogni giorno criminalità, mafia. Siamo stati al fianco di tutti i processi di de-istituzionalizzazione per non abbandonare le tante fragilità, per rafforzare legami solidali e di prevenzione, per superare abbandoni, cronicità, stando vicini alle famiglie.

Abbiamo riportato sul territorio un desiderio di solidarietà, di cura dell’ambiente, un desiderio di pace e di giustizia che ci ha spinti a mobilitare energie di solidarietà nel mondo intero, nei luoghi più drammatici, attraversati da guerre e calamità. Abbiamo una cultura di pace che è quotidianamente vissuta.

Abbiamo dunque un patrimonio di esperienze associative e imprenditoriali che sono una ricchezza sociale inedita. Abbiamo un patrimonio di saperi a cui dare rappresentanza ed occasione di elaborazione di un pensiero comune, nell’interesse della/e comunità.

Ebbene?

Rischiamo ancora una volta di essere “tagliati fuori”, citati e poi affidati ad altri che dicono di rappresentarci. Chiediamo rispetto e dignità politica come portatori di un interesse verso una scelta politica che porti al centro questa nuova soggettività, che sta in questa società civile cui apparteniamo e che è portatrice di bene comune, di una visione della vita solidale.

Gli interessi dei deboli si difendono vivendo e condividendo questa passione. Gli interessi dei deboli ci appartengono e devono appartenere a noi tutti.

Tanti sono gli obiettivi per un nuovo welfare di opportunità che investa l’economia, i processi formativi, il senso di un’etica pubblica che ha bisogno di donne e uomini che hanno una storia di coerenza nelle biografie personali.

Vogliamo riconquistare un vero protagonismo. Certo molte delle nostre esperienze esprimono legittime pluralità di orientamenti, ma tutte chiedono e desiderano non solo di rivolgersi alla politica ma di esserne protagonisti.

Sì, siamo preoccupati e anche, a volte, indignati per come questo patrimonio di esperienza, questa professionalità di donne e uomini che lavorano e vivono nel sociale non viene considerata.

Intendiamo far sì che le nostre esperienze, che sono espresse in tutto il Paese, parlino davvero. Anche le candidature alle ultime elezioni, il modo con il quale si sono formate le liste rivelano una mancanza di considerazione di ciò che esprimiamo e delle competenze acquisite.

È in scena un modo di pensare e fare la politica che non ci appartiene e che non corrisponde all’idea di bene comune che guida il nostro operare di organizzazioni che sentono di svolgere una funzione pubblica. Non possiamo far sì che i principi della giustizia sociale, della legalità, della lotta alle povertà, della pace, della tutela dei beni ambientali non diventino prioritari e promotori di scelte politiche e orientamenti concreti. Per questo vogliamo avviare un grande luogo di discussione, raccogliere istanze, dare un segnale forte della maturità delle nostre esperienze che sono una straordinaria risorsa che può e deve esprimersi ed essere riconosciuta. Vogliamo esprimere autonomamente la nostra soggettività politica.

Sei azioni per sei temi chiave

Globalizzazione: un mondo a misura di ogni uomo

La globalizzazione sta rimodellando la vita economica, sociale e culturale dell’intero pianeta. Capitali, merci e persone sono ormai inseriti in flussi che collegano i punti più diversi del globo, modificando assetti e forme di vita, uniformando valori e immaginari.

La politica stenta a governare questo processo di trasformazione epocale.

Non casualmente, gli anni in cui si afferma la globalizzazione sono segnati dall’aumento delle disuguaglianze economiche e dalla incapacità di raggiungere quegli obiettivi di riduzione della povertà che la comunità internazionale si è data.

Dinanzi a questi processi occorre riaffermare il diritto a una vita dignitosa per tutti gli esseri umani del pianeta, ridefinire e rafforzare il ruolo della politica proprio nella sua capacità di orientare i processi economici per il benessere comune, elaborare un modello di sviluppo che sappia confrontarsi finalmente con il limite, rinunciando al mito della crescita a ogni costo, ribadire che “la terra è di tutti” così come altri essenziali beni comuni che non riguardano solo le risorse materiali, ma anche quelle della conoscenza.

In tale contesto anche la cosiddetta “cooperazione allo sviluppo” va radicalmente ripensata sia nelle risorse messe in campo - l’Italia non ha mai stanziato lo 0,7 del Pil come pure aveva promesso in sede internazionale - sia nell’approccio, slegandola quanto più è possibile dagli interessi del nostro Paese e delle imprese italiane e collegandola, invece, ai bisogni reali delle comunità locali, attraverso interventi co-progettati e co-gestiti.

Guerra e pace: vengo a te come colomba

In una situazione mondiale profondamente segnata da squilibri di ogni sorta - prodotti dalla lotta per l’accaparramento delle risorse disponibili, in primo luogo energetiche e minerarie, dalle gravissime disuguaglianze e dai conflitti di natura etnica e religiosa - il ricorso alla forza rischia di diventare permanente: è lo scenario della “guerra infinita”.

Oggi più che mai, allora, occorre agire per la pace, intesa non come mera aspirazione dell’animo, ma come continua e intelligente azione di prevenzione e gestione dei conflitti globali.

Un impegno che deve riorientare anche le risorse messe in campo per le esigenze della “difesa”: la nonviolenza, l’interposizione non armata, le diverse forme di mediazione e di “diplomazia popolare” sono strumenti tutt’altro che utopici, ma che richiedono urgentemente sperimentazioni larghe e convinte.

Un progetto per la pace, quindi, che dovrebbe avere un segno ben diverso dalle presunte “missioni umanitarie” che, piuttosto, difendono gli interessi di pochi - siano essi gruppi o imprese o Paesi.

Giustizia: i marginali più pericolosi delle mafie?

La globalizzazione ha portato con sé anche nuove opportunità per soggetti criminali o che si muovono in aree più o meno illegali. Dal riciclaggio di denaro sporco alla tratta delle persone, le mafie di ogni parte del mondo hanno compreso in fretta quali nuove possibilità si andavano profilando. In tale processo le organizzazioni mafiose di casa nostra si sono rivelate intraprendenti ed efficienti, capaci di offrire servizi nuovi persino ad altri gruppi criminali e di espandersi in ogni parte del pianeta.

La pervasività, la capacità di integrarsi in strutture e con soggetti legali, la disponibilità di ingenti capitali fanno di queste organizzazioni dei letali nemici della democrazia e dell’ordinato sviluppo dei processi politici, economici e sociali.

Una situazione che, nel nostro Paese, è aggravata da un insufficiente senso dell’etica pubblica e della legalità, condizioni necessarie per assicurare benessere e godimento di diritti - non di “favori” - a tutti i cittadini.

È verso questi fenomeni di macro-criminalità e illegalità - tra cui va segnalato in particolare l’abnorme livello dell’evasione fiscale - che vanno indirizzate risorse e attenzioni, invece di propagandare e agire approcci esclusivamente repressivi indirizzati soprattutto verso le figure più deboli, siano esse tossicodipendenti, prostitute, immigrati clandestini, semplici mendicanti.

La parola “sicurezza” - e il cosiddetto “giusto diritto alla sicurezza” - stanno, infatti, diventando nel nostro Paese, e in tutto l’Occidente, il pilastro su cui costruire fortezze, barriere, divisioni, repressioni che alla lunga rischiano di penalizzare non solo i più marginali, ma la stessa democrazia.

Povertà: più servizi alla persona, reddito di cittadinanza e lotta alla precarietà.

La questione sociale è “la” questione più importante che ha di fronte il nostro Paese.

Una questione che va compresa nei termini dei diritti e delle responsabilità. Diritti che vanno tutelati e resi esigibili per tutti, responsabilità che vanno condivise ed effettivamente agite da tutti.

Diritti che restano in gran parte disattesi, anche per quelle persone che vivono le situazioni più dure. È urgente, per loro come per tutti i cittadini, definire i Livelli essenziali di assistenza, il pacchetto di diritti e servizi che deve essere garantito su tutto il territorio nazionale. Promuovendo le capacità e la responsabilizzazione delle persone e delle istituzioni, invece dell’assistenzialismo e di rinnovati intenti di istituzionalizzazione.

Anche per questo, occorre riequilibrare le risorse destinate ai trasferimenti monetari rispetto agli interventi di cura e accompagnamento delle persone, davvero troppo penalizzati, così come vanno accresciuti gli stanziamenti per gli invalidi, la maternità, l’infanzia e la famiglia, i giovani, la disoccupazione, il disagio sociale e le marginalità più gravi.

A tal fine appare ormai improcrastinabile il varo anche nel nostro Paese di una misura specifica contro la povertà - il reddito di cittadinanza - che permetta alle persone maggiormente in difficoltà di definire un nuovo progetto di vita.

Allo stesso tempo, è necessario ridurre gli elementi di precarietà della vita che colpiscono molti lavoratori soprattutto nel settore dei servizi. Specie per le nuove generazioni, la flessibilità si trasforma troppo spesso in permanente insicurezza, limitando fortemente la capacità di progettare il futuro, con un danno che non riguarda solo loro stessi ma l’intera società.

Proprio il terzo settore si presenta come un ambito in cui il lavoro è, frequentemente, precario e sottopagato, in alcuni casi per responsabilità dei dirigenti delle organizzazioni, ma più spesso per i meccanismi che regolano il reperimento delle risorse da parte di cooperative sociali e associazioni. Una situazione, dunque, che - come nel caso delle gare al massimo ribasso o dei ritardi nei pagamenti dovuti - chiama in causa lo Stato e gli Enti locali.

Federalismo: più autonomia ma in un Paese solidale.

Siamo consapevoli, a partire dal lavoro che ci impegna ogni giorno nei territori per rispondere ai problemi sociali delle persone e delle comunità, che la dimensione locale è l’ambito chiave per pensare e attuare le politiche.

L’esigenza federalista va sostenuta nella sua capacità di responsabilizzare Enti locali e corpi intermedi, in un quadro di solidarietà tra regioni; va, invece, rifiutata quando nasconde l’intento di disarticolare, de facto, il Paese e di appoggiare spinte egoiste che già in Italia appaiono molto forti.

Occorre realizzare un federalismo solidale, quindi, che dovrebbe essere accompagnato da una complessiva redistribuzione delle risorse anche tra i cittadini e permettere l’accesso a nuovi e più adeguati servizi.

Soggetti svantaggiati: da “marginali” a protagonisti.

Un impegno nuovo e assai più efficace va profuso in favore delle tante persone che vivono particolari condizioni di svantaggio o di difficoltà, quando non di autentica discriminazione.

Nei confronti delle persone immigrate - clandestine, irregolari o in regola che siano - devono essere previste reali occasioni di integrazione e sostegno, quantomeno per i diritti fondamentali. La garanzia dei diritti civili e i percorsi di integrazione sono le condizioni che permettono un reale contrasto alla clandestinità e all’illegalità. È ben noto che i Paesi europei hanno bisogno di un numero consistenti di immigrati per mantenere il proprio tenore di vita (assicurandosi così forza lavoro e contributi pensionistici, ad esempio), ma - più ancora - essi dovrebbero preoccuparsi di sviluppare continue e diffuse azioni di educazione che permettano di conoscere l’Altro e considerarlo come fonte di arricchimento culturale e sociale.

La questione della convivenza tra nazionalità, culture e religioni differenti appare, infatti, un nodo - forse, “il” nodo - cruciale per il futuro delle nostre democrazie, a fronte invece di un investimento economico a dir poco modesto e a una stigmatizzazione sempre più marcata, favorita da un vasto movimento culturale e politico, che trasforma gli immigrati in facili capri espiatori.

Per quanto riguarda le persone che sopportano una sofferenza psichica, proprio nell’anno in cui si celebra il trentennale della legge Basaglia, si registrano da più parti intenzioni regressive.

Occorre, invece, ribadire i principi che ispirarono la legge 180, pur in presenza di una necessaria ridefinizione dei servizi offerti alle persone che vivono situazioni di disagio mentale e alle loro famiglie.

Il crescente numero delle persone senza dimora, e la complessità dei problemi da esse vissuti, evidenzia le tante storture che rendono oggi difficile vivere nella nostra società. La strada sta diventando il ricettacolo in cui cercano scampo non pochi marginali, ma una massa sempre più ampia di persone, italiane e straniere, spesso giovani, che hanno poche risorse economiche ma anche, in molti casi, problemi di alcol e tossicodipendenza.

Una complessità che i pochi e ridotti servizi esistenti non sono in grado di reggere. Occorrono investimenti economici e una riorganizzazione e riqualificazione dei servizi.

Per le persone disabili sono tanti i nodi che andrebbero urgentemente affrontati: le incertezze sui fondi e la loro cronica carenza, la possibilità di accedere a reali opportunità di lavoro, l’integrazione scolastica, l’esigenza del “dopo di noi”.

Anche per queste persone, occorre incentivare protagonismo e autonomia affermando libertà dal rischio di una nuova istituzionalizzazione, che ci porterebbe indietro di quarant’anni.

Le condizioni, infine, in cui si trovano a vivere le persone in carcere stanno di nuovo arrivando a un punto critico, a causa del sovraffollamento perenne degli istituti di pena, ma anche della mancanza di opportunità (istruzione, formazione, casa, accesso alle misure alternative) per ridefinire un nuovo progetto di vita.

Il carcere resta il luogo in cui rinchiudere i più poveri ed emarginati - specie gli immigrati e i tossicodipendenti -, strumento di contenimento sociale e non di riabilitazione e re-inclusione del condannato. Va, invece, riaffermato con forza che i detenuti, pur nell’esigenza di scontare la propria pena, restano cittadini portatori dei diritti fondamentali costituzionalmente sanciti.

Un’attenzione particolare, in tal senso, andrebbe rivolta a quei bambini che sono costretti a crescere in carcere perché la propria madre è detenuta, alla situazione insostenibile degli Ospedali psichiatrici giudiziari e alla condizione dei detenuti tossicodipendenti.

 

 
 
 
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