Creato da guarneri.cirami il 18/07/2009
 

Racconti&altro

Le storie di Alberto Guarneri Cirami: i suoi romanzi, i suoi racconti e il suo teatro.

 

 

« NON PRONUNZIERO' IL TUO NOMEQuando mi innamorai di Te »

LA DOLCE MORTE

Post n°1044 pubblicato il 18 Novembre 2015 da guarneri.cirami
 

Dedico il mio racconto ad una grande persona:
a Giulio Cesare Buono,
mio indimenticabile professore delle Medie,
che si è spento in questi giorni

Più dolce sarebbe la morte se il mio ultimo sguardo
avesse come orizzonte il tuo volto.
E se così fosse, mille molte vorrei nascere
per mille volte ancor morire.
William Shakespeare, da “Amleto”

Forse perché della fatal quiete tu sei l’imago,
a me sì cara vieni, o sera!”
Ugo Foscolo da “Alla Sera”

firenzealbadel7ottobre-viL’ultima giornata di vita del professore Giulio Corsaro era iniziata all’alba con una richiesta particolare a Turi Giordano, infermiere di turno del Reparto di Oncologia e suo ex alunno. “Posso fumarmi un’ultima sigaretta, Salvatore?” “Un ultima sigaretta professore?” aveva ripetuto sorpreso l’infermiere. Si aspettava magari che gli chiedesse dell’altra morfina, ma una sigaretta… “Una sigaretta non si nega mai ad un condannato a morte, Salvatore…Mia nonna, ricordo, ci chiese un gelato al cioccolato ed un caffè…Che male può farmi una sigaretta ormai?” Stavano tutti sulla terrazza che dava luce alla sala dei visitatori. Il professore aveva infatti chiesto al più giovane dei suoi figlioli, di essere accompagnato lì, per guardare l’alba e sentire sulla sua pelle martoriata odorante di medicamenti l’aria fresca e profumata di quel mattino di primavera, di quell’ultimo giorno del mondo…

Era quello uno di quei mattini che solitamente donano speranza anche agli esseri più tristi e depressi. Anche lui stesso, in gioventù, malato d’amore e preoccupato per il lavoro, ne aveva sperimentato i benefici effetti. Ma adesso guardava a quel mattino, ai fiori, agli alberi, agli esseri del cielo, che riempivano di musica e colori la terra, con un po’ di mestizia. Era davvero dura dover lasciare tutto. Ma quel suo nemico era troppo più forte di lui, e sentiva di non potergli più opporre molta resistenza, mentre le sue ossa sembravano spezzarsi sotto la croce che il Destino aveva scelto per lui. Tuttavia era forte la sua fede e ringraziò Dio ancora per quel nuovo mattino, dopo quell’altra notte insonne di sofferenza; e ringraziò Dio per la tutta la sua vita, trascorsa in quella terra benedetta dal sole; per la sua vita da uomo libero, amato dai suoi cari e rispettato dai suoi amici. Perché se il lavoro – conquistato e portato avanti con gli studi e i sacrifici di una vita – ti da la dignità e la libertà, è l’amore di chi condivide la tua esistenza, a donarti quella “beatitudine (che) addolcisce ogni dolore” e ti fa andare avanti. Come accadeva adesso in quella sua ultima battaglia, con la moglie e i cinque figli attorno a sé.

E nessuno poteva dire che egli non meritasse quell’amorevole sostegno. Che non si era certo smokingrisparmiato per far star bene la sua famiglia durante i suoi cinquant’anni di matrimonio. La lunga carriera di insegnante; le lezioni private; e finanche (grazie alla sua abilità alla macchina da scrivere e poi al computer) la battitura delle tesi di laurea di molti alunni e figli dei suoi alunni. Cosicché, in quella lunghe notti trascorse dinanzi ad una macchina da scrivere e poi ad un computer, caffé e sigarette erano stati i suoi preziosi alleati contro la stanchezza. Tanto lavoro, tanto volontariato in parrocchia, e poche vacanze così era stata la vita del professore. Per la villeggiatura bastavano la campagna della moglie poco fuori città; per i divertimenti le feste della parrocchia, le partite allo stadio di una squadra di quarta serie e i picnic al bosco di Campo San Pietro a venti chilometri dal paese. In verità il professore aveva anche delle passioni tutte sue, che condivideva con alcuni amici di lunga militanza: il teatro, la musica classica, l’opera lirica e la politica cittadina. Per non parlare della sua collaborazione ad un quotidiano della provincia per lo sport e la cronaca nera locali. Una vita piena sorretta dalla passione e dalla fede.

Egli non aveva mai avuto il tempo di conoscere la noia ed altri vizi che non fossero le sue sigarette. I tanti ex alunni, i molti amici, che nei giorni della sua malattia erano andati a trovarlo in ospedale, rappresentavano la prova evidente che la sua vita era stata spesa bene, che aveva fatto una buona semina…e nessuno l’avrebbe mai dimenticato. “Ma anche che sto per morire, Lucia!” disse il professore alla moglie, che per tutta risposta scoppiò a piangere. “Ma che dici Giulio!” “Non piangere dai Lucia…Per tutti i mortali morire è un dovere!” concluse il professore col fiato sempre più corto. Tanto che Peppe, uno dei figli, pensò di aumentare la dose di ossigeno “Oh Giulio, al diavolo le tue citazioni!” replicò la moglie. “Poi per i vecchi come me è addirittura un obbligo: stiamo diventati troppi a questo mondo, bisogna pur fare spazio! Anche se, quando s’avvicina la morte, nessuno vuole morire, la vecchiaia non pesa più.” riprese lui serafico. “Trovo il tuo spirito proprio fuori luogo…” protestò ancora la moglie. Cosicché il marito le sorrise chiedendole di avvicinarsi a lui e mettersi comoda, che voleva metterla alla prova. “Quale prova, Santo Iddio?” “Ti da fastidio la sigaretta cara..?” “Mi prendi in giro Giulio…? Ti sopporto da una vita con quelle tue maledette sigarette! A te, a te dovrebbe dare fastidio…Ma se non riesci neanche a respirare Giulio! Buttala via per carità…” “ Ma che male vuoi che mi facciano ormai…anche il dottore non dice nulla…Ma è vero: quella di non fumare, Lucia, è l’unica promessa che non ho mantenuto. Per il resto sono stato un buon marito, non è vero forse..?” “ Si…lo sei stato….lo sei ancora, ma basta con questi discorsi…vuoi farmi piangere?” disse la moglie stringendogli la mano flagellata dagli aghi delle flebo. “Ricordi cara quando eravamo fidanzati..?” “ E’ passato così tanto tempo Giulio…” Ma egli rievocava il passato e i suoi occhi si illuminavano. “Dopo mesi di prove io e gli altri ragazzi dell’Oratorio Salesiano riuscimmo a mettere in scena Amleto e tu eri in prima fila a guardarmi…che eri bella Lucia!” “Giulio!” “ Ed io era come se recitassi solo per te, solo per i tuoi occhi…” “Basta Giulio…ti prego…siamo vecchi ormai….” “ Più dolce sarebbe la morte se il mio ultimo sguardo/ avesse come orizzonte il tuo volto./E se così fosse, mille molte vorrei nascere/ per mille volte ancor morire…» Era troppo questo per la povera Lucia, che prese a singhiozzare forte e rientrò dentro, raccomandando ai figli di badare essi a quel testardo del marito. « Cosa ho mai fatto…» fece sorpreso deluso il professore dinanzi a quella reazione. «Anche tu, però, papà…» osservò la figlia, che corse subito a consolare la madre.

timthumb.php«Non faccio che fare piangere la mia ragazza…E pensare che conquistai vostra madre facendola ridere!” osservò immalinconito il professore, che adesso però sentiva freddo tanto da chiedere ai suoi figli di riportarlo in camera. Lungo il tragitto egli però si avvide della moglie stanca disperata, che si abbracciava alla figlia. Così si lamentò con i figli di quell’insopportabile piagnisteo, di quel mortorio che accompagnava il suo trapasso. Come se la vita finisse davvero lì, murata in un sepolcro. Che invece era da lì che iniziava qualcosa di inimmaginabile ai suoi sensi…La qualcosa lo intristiva certo, per la perdita dei propri cari e di quella maschera a cui s’era abituato da anni, e che l’aveva accompagnato per l’intera esistenza; ma pure lo intrigava, per il mistero che lo attendeva al di là della sofferenza e della morte del suo povero corpo smagrito. Così rivolse alla moglie una sguardo amorevole e le porse la mano, perché lei la prendesse un’ultima volta prima dell’addio, come quando erano fidanzati ed avevano tutta una vita davanti a loro. Il professore aveva in quell’istante lo stesso sguardo luminoso e birbante di quando era solo un giovanotto di belle speranze con un mucchio di idee per la testa. Così sotto gli sguardi inebetiti dei medici cantò un’aria che gli ricordava i bei tempi in cui lui e la moglie erano giovani e innamorati. Perché la vita è bella e non ce lo dobbiamo mai scordare! Questo a parte questo gran problema della morte, che nessuno potrà mai risolvere, neanche le menti più brillanti del pianeta! Basta pensare che Dio Medesimo fattosi uomo è dovuto prima morire e poi risorgere. «Eh, un’impostura della gente plebea! La nobiltà ha dipinta negli occhi l’onestà. Orsù, non perdiam tempo: in questo istante io vi voglio sposar. Quel casinetto è mio: soli saremo,e là, gioiello mio, ci sposeremo. Là ci darem la mano, là mi dirai di sì. Vedi, non è lontano: partiam, ben mio, di qui». Giulio così andava incontro alla morte: cantando le sue belle arie, quasi andasse ad un matrimonio. Non vi dico la meraviglia dei medici e degli infermieri. Nessuno di loro aveva mai visto qualcuno, con la grave patologia di cui soffriva il professore, così allegro e lucido e, in apparenza, strafottente.

Viale-alberato

Ma lì, in ospedale, Giulio Corsaro non voleva morire. Così parlò forte ai suoi cinque figli. Anzi prese uno di essi, Peppe (quello che gli somigliava di più), per il colletto e gli disse chiaro e tondo che lo stava deludendo con quel suo immobilismo. Che facesse qualcosa, che parlasse con i medici e lo facesse uscire da lì quel giorno stesso. Il professore non vedeva l’ora di tornarsene a casa sua. Tanto da contemplare (in caso di resistenza dei medici) pure un piano b: la fuga nell’ora di cambio del turno. Ma non c’è ne fu bisogno, perché anche i medici alla fine convennero che non aveva senso che rimanesse lì: ossigeno e antidoloriferi li avrebbe avuti anche a casa. Così i figli misero la firma e la sera di quel suo ultimo giorno sulla terra, il professore Corsaro se ne tornò a casa. “Forse perché della fatal quiete tu sei l’imago, a me sì cara vieni, o sera!” disse mentre contemplava il lungo viale alberato che conduceva alla sua abitazione, aspirando forte il profumo dei giardini che tornavano a fiorire. Mai come in quel momento (forse solo durante la sua fanciullezza) egli aveva prestato tanta attenzione al cinguettio dei passeri tra i rami; mai aveva provato tanta meraviglia commozione e malinconia guardando l’orizzonte ed il colore del cielo al tramonto di quel suo ultimo giorno. Piangeva, ed a un certo punto chiese ai figli di fermarsi un istante in un largo belvedere. Perché da quel punto del paese egli potesse vedere per un’ultima volta il mare: immobile e azzurro come in un dipinto… “Ma basta malinconia,” disse Daniele, il figlio minore, dopo che sistemarono il padre in un lettino “ potremo giocare a carte, che ne dite..?” “Credo che papà debba riposare, magari dormire qualche ora…” disse Stefania, l’unica ragazza dei Corsaro. “ Ci manca solo questo, che dorma qualche ora…E chi ha sonno figlia mia. Avrò tanto tempo per dormire…dopo.. Sveglio, sveglio voglio stare, e giocare a carte, che stavolta magari vi faccio pure vincere…” Così Luciano, il maggiore, alzò la spalliera del letto e il professore giocò con i suoi ragazzi fino a notte fonda, fino a quando le sue palpebre ed il suo respiro non si fecero pesanti e l’ultimo canto non morì sulle sue labbra. Poco prima di perdere coscienza aveva voluto ascoltare un’ultima volta la sinfonia della sua opera preferita – La Forza del Destino di Verdi – e salutare, abbracciare uno per uno i suoi ragazzi e la moglie…

“Non c’è orizzonte più bello di voi per i miei occhi,” aveva detto loro prima di addormentarsi, ripensando al suo amato Shakespeare, “mai, mai ho sognato qualcosa di migliore o diverso per me…fama, onori, gloria non sono niente di fronte alla gioia all’amore di una famiglia…di una moglie, dei figli…siete stati voi miei cari la mia vita, la mia gloria, il mio onore…”

Alberto Guarneri Cirami

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