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« la terra non ha un solo penealla fine del mese del sole »

scendo per qualche giorno la collina del quartiere della Croix-Rousse

Post n°153 pubblicato il 02 Gennaio 2014 da andrea_firenze
 

scendo per qualche giorno la collina del quartiere della Croix-Rousse, a Lione. È un quartiere residenziale da cui si può godere, da un punto panoramico del plateau alla fine del viale alberato principale, una bellissima vista dello skyline della città e uno scorcio del corso del Rodano, fino alle Alpi. Su questa cima si trova anche Le Gros Caillou, una pietra durissima rinvenuta durante lo scavo del tunnel che collega il quartiere al centro della città, diventata simbolo della durezza e della perseveranza di questa gente. Sembra un quartiere residenziale laborioso e placido, le persone sono tranquille e gentili, conservano solo un po' della durezza di cui si parla; d'altra parte non c'è più traccia delle canut revolts dei lavoratori della seta nell'ottocento. La vita scorre via tranquilla o tacendo, come altrove. Corro ogni giorno per queste vie sconosciute, prima di sera. Di fronte alla collina della Croix-Rousse, dove risiedo, se ne erge un'altra: la collina di Fourvière, detta la montagna mistica, con la sua bellissima cattedrale, in contrapposizione alla prima, la montagna del lavoro. Anche qui ogni tanto traghetto l'anima passeggera. Fra queste due colline c'è un po' della mia vita, cullata dalla mano cava della valle dove le nubi gonfiano la vela, dove rimango impigliato alla tua maglia e sento lontano l'asino che raglia, dove poco lontano il latte caglia. Infondo in natura nulla avviene per caso, e tutto accade secondo ragione e necessità pur nella casualità personale delle condizioni iniziali. C'è un motivo per cui sono qui, per quanto insulsa ne sia la ragione, ed è da ricercare là dove tutto inizia, nella battaglia in pancia di ogni simulata meraviglia di rivoluzione, nel momento in cui ti hanno dato la vita in mano come un'arma e non hai potuto capire e hai detto solo "mamma". Salgo ironico il murales del mur des canuts e faccio beffe di me ma non so nascondere lo spavento di come riesca a parlare esclusivamente di una vita, la mia, quando di essa so essere solo un accessorio. Non ho corpi, non vedo colline; appena esse mi trattengono per poco e ne posso essere consapevole solo perché un po' di coscienza mi si è versata come una bibita addosso. Vorrei riuscire a vederti, vita, e che non fossi uomo qualunque fra uomini, una delle tante sillabe del discorso sconnesso del cielo, un rumore indefinito dei suoi denti, un bersaglio senza volto di un dio buffone sui trampoli. Ma lo so, solo ciò che è stato seminato germina in questo campo e lo sforzo è tutto ciò che esiste, il magnetismo delle barriere. Ti conosco: tu sei lo scarto della fatica che fa l'improbabilità nel piegarsi al parallelo naturale, alla probabilità di ciò che è certo e per questo è tale; e le strutture, le direzioni dell'esultanza vanno annichilite per te nel sigillo delle mani e delle ossa, negli alberi che svezzano i rami e nei cieli i tremanti uccelli; e poi la polpa e il disordine alligna e cresce in quanti stecchi possa e di quale grandezza e si fa polmone, respira e spira se non s'innerva in lampioni arcuati, onde di cielo, che rinserrano le strade aperte d'acqua, e da lì si ritirano i molluschi umani mentre vie vivono appese nello spazio ricavato da ogni unghiata retta d'angolo nel curvo tempo, fissati dai sessi a puntina alla terra, riconoscibili alla catena. Ed io sto qui di fronte al Kraspek Myzik disattento e stufo del tempo che è il contrattempo dello spazio alla velocità della luce, con le intenzioni in mani che piegano come tronchesi e ci fanno morire, e mi volto, nella rissa instabile degli sguardi e delle impressioni, e la vedo là, la città che sbuca fra gli alberi col petto florido e l'ombrello; e adesso me lo ricordo da dove vengo: dallo stesso tocco di rosso che hanno i tetti, come teste insanguinate, dalla vagina, e che sono il riflesso dello specchio, dell'asola della nostra vita, luce di stella, e incrocio per un attimo l'orbita, a braghe calate, in discesa, tornato bambino, e mi pesto di nuovo i pantaloni. Una città ci accoglie, e i nidi sono come tagliole e culle, in cui si muore lentamente lo spazio di una esistenza in un paesaggio su cui piovono e si disfano lentiggini e chiazze di vecchio; e lo sperma è il filo che ci unisce e come un amo alla lenza stanno le dita, le mani, le branchie, le maglie, le pinne, i freni, i bracciali ed i ciondoli berberi alle orecchie, e le mie ciglia sono tenaglie trascinate come forche sulla realtà e le mie narici radici d'aria per ogni istante che nasce e muore. Colloca il tempo come azione nello stesso posto e non avrai tempo ma solo sacchi e volute di mani, autobus e capsule per denti a marcire, e la stessa cosa fanno le teste nei cappelli e le case sotto ai cieli, e le persone veloci infossate in nocche di strade in toraci di metallo, strade su cui ciascuno corre con la sua vista capriola portando stretti a sé artefatti e oggetti e scatole vuote, lapidi mute di testimonianza. Li vedo passare, anche qui, ad uno ad uno, che possano parlare oppure no, ladri; e mi sento come una casa svaligiata, un passerotto arruffato, reciso, recluso in una mutilata compassione per il sé, una matassa attraversata da locomotive di pensieri e sinapsi di città. Conducono e portano via tutto, trascinano, pescatori di tritoni; ed io sono là in mezzo, viscido, cinghiato; e mi rannicchio, spiumato, nel torace di mio padre, grasso come una quaglia; e mentre precipito e rovino, è questa la mia vita, la salita del pesce arpionato, un ciclone di visione: intravedo i ciclisti di sughero come torsoli di mele e trottole oscillanti, giranti mappamondi, e i bimbi sugli scivoli, nelle lingue che inghiottono sui fili d'erba le formiche, e la ballerina nella stanza del totem che incrocia le braccia con la faccia senza memoria, e Robert Combas e Geneviève con le tette rosse che danzano liberi nel giardino dell'eden, e la luce d'oro di Sylvia ed Elisabeth, sulle scogliere del Maine, nella loro impressione di grazia e di statuaria malinconia per le vite andate, per noi che andremo, e per l'inclemenza dei nostri volti osservatori, bassorilievi ciechi e nudi; e lambisco e calamito ogni cosa fino a casa, alla calma dello stato di arrivo, al posto delle quiete dove solo le tue parole fanno ancora rumore. Così che anche Lione è una perdita, un flusso sanguigno, stracolmo, in cui mi ritrovo immerso in movimenti, azioni, desideri, sentimenti, eventi, ed essi sono ancora conseguenze dell'unico pieno liquido fatto e la mia fretta un dove e un sotto di un tentativo disordinato di riparazione, come avessi un solo bicchiere per rimediare alle infiltrazioni che stillano dal tetto. Rimescolo tante vite in sogni ma non confondo la morte, che se ne resta là, da qualche parte, magnetica ed imperturbabile. Anche adesso, quassù, sul colle di Fourvière, sotto la cattedrale, la montagna è soltanto uno stantuffo di pietra ed io un insignificante essere umano di fiato e di cerniere. Laggiù, verso casa, dove s'intrecciano il Rodano e la Saona, un gatto mi aspetta sulle losanghe di una cattedrale spaccata da un guizzo blu; le solite intenzioni torcono i treni, i venti, gli orizzonti, e ovunque la notte e il giorno sono lo stesso battito del cuore della terra. Mi guardo intorno e la sento l'eterna contratta battaglia: vedo i sassi prigionieri di se stessi e le foglie che si rubano l'aria. E gli alberi, a Fourvière, hanno un cuore sacro, gli alberi si curano di me: sono braccia di mantide sul mio corpo incostolato; e l'anima, l'anima, è tutta nelle lacrime di un momento, fitte come allodole, e nel mio sperma d'oro.

 
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