Creato da: andrea_firenze il 15/06/2013
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scendo per qualche giorno la collina del quartiere della Croix-Rousse

Post n°153 pubblicato il 02 Gennaio 2014 da andrea_firenze
 

scendo per qualche giorno la collina del quartiere della Croix-Rousse, a Lione. È un quartiere residenziale da cui si può godere, da un punto panoramico del plateau alla fine del viale alberato principale, una bellissima vista dello skyline della città e uno scorcio del corso del Rodano, fino alle Alpi. Su questa cima si trova anche Le Gros Caillou, una pietra durissima rinvenuta durante lo scavo del tunnel che collega il quartiere al centro della città, diventata simbolo della durezza e della perseveranza di questa gente. Sembra un quartiere residenziale laborioso e placido, le persone sono tranquille e gentili, conservano solo un po' della durezza di cui si parla; d'altra parte non c'è più traccia delle canut revolts dei lavoratori della seta nell'ottocento. La vita scorre via tranquilla o tacendo, come altrove. Corro ogni giorno per queste vie sconosciute, prima di sera. Di fronte alla collina della Croix-Rousse, dove risiedo, se ne erge un'altra: la collina di Fourvière, detta la montagna mistica, con la sua bellissima cattedrale, in contrapposizione alla prima, la montagna del lavoro. Anche qui ogni tanto traghetto l'anima passeggera. Fra queste due colline c'è un po' della mia vita, cullata dalla mano cava della valle dove le nubi gonfiano la vela, dove rimango impigliato alla tua maglia e sento lontano l'asino che raglia, dove poco lontano il latte caglia. Infondo in natura nulla avviene per caso, e tutto accade secondo ragione e necessità pur nella casualità personale delle condizioni iniziali. C'è un motivo per cui sono qui, per quanto insulsa ne sia la ragione, ed è da ricercare là dove tutto inizia, nella battaglia in pancia di ogni simulata meraviglia di rivoluzione, nel momento in cui ti hanno dato la vita in mano come un'arma e non hai potuto capire e hai detto solo "mamma". Salgo ironico il murales del mur des canuts e faccio beffe di me ma non so nascondere lo spavento di come riesca a parlare esclusivamente di una vita, la mia, quando di essa so essere solo un accessorio. Non ho corpi, non vedo colline; appena esse mi trattengono per poco e ne posso essere consapevole solo perché un po' di coscienza mi si è versata come una bibita addosso. Vorrei riuscire a vederti, vita, e che non fossi uomo qualunque fra uomini, una delle tante sillabe del discorso sconnesso del cielo, un rumore indefinito dei suoi denti, un bersaglio senza volto di un dio buffone sui trampoli. Ma lo so, solo ciò che è stato seminato germina in questo campo e lo sforzo è tutto ciò che esiste, il magnetismo delle barriere. Ti conosco: tu sei lo scarto della fatica che fa l'improbabilità nel piegarsi al parallelo naturale, alla probabilità di ciò che è certo e per questo è tale; e le strutture, le direzioni dell'esultanza vanno annichilite per te nel sigillo delle mani e delle ossa, negli alberi che svezzano i rami e nei cieli i tremanti uccelli; e poi la polpa e il disordine alligna e cresce in quanti stecchi possa e di quale grandezza e si fa polmone, respira e spira se non s'innerva in lampioni arcuati, onde di cielo, che rinserrano le strade aperte d'acqua, e da lì si ritirano i molluschi umani mentre vie vivono appese nello spazio ricavato da ogni unghiata retta d'angolo nel curvo tempo, fissati dai sessi a puntina alla terra, riconoscibili alla catena. Ed io sto qui di fronte al Kraspek Myzik disattento e stufo del tempo che è il contrattempo dello spazio alla velocità della luce, con le intenzioni in mani che piegano come tronchesi e ci fanno morire, e mi volto, nella rissa instabile degli sguardi e delle impressioni, e la vedo là, la città che sbuca fra gli alberi col petto florido e l'ombrello; e adesso me lo ricordo da dove vengo: dallo stesso tocco di rosso che hanno i tetti, come teste insanguinate, dalla vagina, e che sono il riflesso dello specchio, dell'asola della nostra vita, luce di stella, e incrocio per un attimo l'orbita, a braghe calate, in discesa, tornato bambino, e mi pesto di nuovo i pantaloni. Una città ci accoglie, e i nidi sono come tagliole e culle, in cui si muore lentamente lo spazio di una esistenza in un paesaggio su cui piovono e si disfano lentiggini e chiazze di vecchio; e lo sperma è il filo che ci unisce e come un amo alla lenza stanno le dita, le mani, le branchie, le maglie, le pinne, i freni, i bracciali ed i ciondoli berberi alle orecchie, e le mie ciglia sono tenaglie trascinate come forche sulla realtà e le mie narici radici d'aria per ogni istante che nasce e muore. Colloca il tempo come azione nello stesso posto e non avrai tempo ma solo sacchi e volute di mani, autobus e capsule per denti a marcire, e la stessa cosa fanno le teste nei cappelli e le case sotto ai cieli, e le persone veloci infossate in nocche di strade in toraci di metallo, strade su cui ciascuno corre con la sua vista capriola portando stretti a sé artefatti e oggetti e scatole vuote, lapidi mute di testimonianza. Li vedo passare, anche qui, ad uno ad uno, che possano parlare oppure no, ladri; e mi sento come una casa svaligiata, un passerotto arruffato, reciso, recluso in una mutilata compassione per il sé, una matassa attraversata da locomotive di pensieri e sinapsi di città. Conducono e portano via tutto, trascinano, pescatori di tritoni; ed io sono là in mezzo, viscido, cinghiato; e mi rannicchio, spiumato, nel torace di mio padre, grasso come una quaglia; e mentre precipito e rovino, è questa la mia vita, la salita del pesce arpionato, un ciclone di visione: intravedo i ciclisti di sughero come torsoli di mele e trottole oscillanti, giranti mappamondi, e i bimbi sugli scivoli, nelle lingue che inghiottono sui fili d'erba le formiche, e la ballerina nella stanza del totem che incrocia le braccia con la faccia senza memoria, e Robert Combas e Geneviève con le tette rosse che danzano liberi nel giardino dell'eden, e la luce d'oro di Sylvia ed Elisabeth, sulle scogliere del Maine, nella loro impressione di grazia e di statuaria malinconia per le vite andate, per noi che andremo, e per l'inclemenza dei nostri volti osservatori, bassorilievi ciechi e nudi; e lambisco e calamito ogni cosa fino a casa, alla calma dello stato di arrivo, al posto delle quiete dove solo le tue parole fanno ancora rumore. Così che anche Lione è una perdita, un flusso sanguigno, stracolmo, in cui mi ritrovo immerso in movimenti, azioni, desideri, sentimenti, eventi, ed essi sono ancora conseguenze dell'unico pieno liquido fatto e la mia fretta un dove e un sotto di un tentativo disordinato di riparazione, come avessi un solo bicchiere per rimediare alle infiltrazioni che stillano dal tetto. Rimescolo tante vite in sogni ma non confondo la morte, che se ne resta là, da qualche parte, magnetica ed imperturbabile. Anche adesso, quassù, sul colle di Fourvière, sotto la cattedrale, la montagna è soltanto uno stantuffo di pietra ed io un insignificante essere umano di fiato e di cerniere. Laggiù, verso casa, dove s'intrecciano il Rodano e la Saona, un gatto mi aspetta sulle losanghe di una cattedrale spaccata da un guizzo blu; le solite intenzioni torcono i treni, i venti, gli orizzonti, e ovunque la notte e il giorno sono lo stesso battito del cuore della terra. Mi guardo intorno e la sento l'eterna contratta battaglia: vedo i sassi prigionieri di se stessi e le foglie che si rubano l'aria. E gli alberi, a Fourvière, hanno un cuore sacro, gli alberi si curano di me: sono braccia di mantide sul mio corpo incostolato; e l'anima, l'anima, è tutta nelle lacrime di un momento, fitte come allodole, e nel mio sperma d'oro.

 
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la terra non ha un solo pene

Post n°152 pubblicato il 25 Dicembre 2013 da andrea_firenze
 

la terra non ha un solo pene, ha parrocchie di spermatozoi fedeli attorno ad ogni congiurante campanile; muove gesti d'albero in archi più lunghi, ha per colli capriole ed illude le case fra essi, desolate come pidocchi nei capelli, che siano linee senza tempo a delineare il tempo, mentre essa si piena nell'unicità dell'onda in onda. La terra accosta e sparge al centro di ogni scena oggetti casuali, assegna forme diverse, colori, suoni, bocche e buchi, arti per camminare, becchi per pigolare, ingranaggi per funzionare; li sistema nell'ovatta del tempo, fra corazza ed uovo: in ciascuno di essi c'è più della solitudine del Golgota: si tocca da solo il liscio, onanistico rubinetto, non sai farlo venire, se non d'acqua; gode l'eccitata rumorosa lavatrice, in lenzuola di panno; penetra sterile la fedele aguzza forchetta. Si sostiene ciascuno nell'attività che veste la materia e che l'ha perso; ed in essa sopravvivi ancora, anche tu, distratto, umano. Ma rompi un ramo e libera il sangue di dio, bianco, dal fico e ne sentirai la carne; perdi te stesso e masturbati, grida, buca e smania: con te soffre l'assenza di croce e chiodi anche il liscio rubinetto, la rumorosa lavatrice, la fedele forchetta. Sintesi di cose sintetiche è la realtà e non ha che buchi neri per maniglie. Infiliamo le nostre mani secche in fiche di donne attraversandole come una porta: la tua era calda di ventre di balena, molle della luce adiposa dei ricordi d'infanzia. Ho tastato con le mani la valle, tiepida, Jack Frost se n'era appena andato; ho cercato, a tentoni, senza sapere cosa, forse un altro me stesso, nel desiderio inconscio di essere ancora partorito e che fosse neutro, antisettico, come la solitudine, la sparizione, lo struggimento di conservazione. Per una donna dai piedi di bronzo, per le cui carezze ho un viso, solida come le colonne del tempio di Gerusalemme, circondata dalle curve delle sue spalle, da colline tese, terrazzamenti e balze di tendini, fasce di vegetazione su zolle fertili; e sopra, assediata da capezzoli di torri sorde e mute di ardesia e giada senza abbaini e da foglie di vite schiuse e indifese come pance di rana, bagnate di carte geografiche, per quelle stesse mani secche con cui sollevo il mondo, in un amleto di corallo, insanguinato, inzuppato, imbevuto, ingannato, sono rimasto impigliato alla vita.

 
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io sono il peso e tu la terra

Post n°151 pubblicato il 16 Dicembre 2013 da andrea_firenze
 

io sono il peso e tu la terra inquieta a cui tende ogni emozione, evento, frammento astratto, movimento. Non conosco le condizioni iniziali ma so il processo e che un naufragio è dentro un altro naufragio e che il mondo è la spirale della stiva di una nave in un gorgo, e la terra fra i pianeti è la stessa terra al centro di alberi e case, la stessa della mia solitudine di uomo fra gli uomini, dell'uccello fra i rami, del libro fra gli oggetti in disordine di una stanza nelle cui pagine una nave di lettere affondi e ciascuna di esse sia intrappolata in balia del vortice formato dall'inflessione scivolosa delle altre. Una spirale è semplice, non ha bisogno di orologiai né di disegnatori. Giù nello scolo niente respira, tutto è pieno; allentarsi è vivere, e il resto è il suono strascicato dell'incontinenza d'ogni cosa: delle montagne sudate con le loro nevi che si sciolgono, dei corpi liberi da piscia e merda, delle città ammonioteliche munite di reti fognarie, nefroni tubuli anse e reni, nei cieli di grandine e pioggia, nelle piante di linfa, nelle lacrime d'occhi. E le tue parole sono come l'ascesso che matura dai denti e la tua bocca un poro della bestiale natura col suo fortuito rettile articolarsi, sgroppare e straboccare nello spazio e nel tempo di materia che genera lingue dalla sonorità più morbida o più dura per quanto attrito i popoli o le singole persone facciano sulla terra. Lingue e inflessioni, slang, imprecazioni e distorsioni nascono da ostacoli, salite e discese; culture, popoli e linguaggi da pianure e valli dove rallenta l'evoluzione. Ed il suono fuoriesce da labbra umide di fica, ed è un parto di camere gestazionali vuote, sottostima delle case dove parli e ridi, significante di parole per racconti anembrionici, ingorghi in labbra di calla e su lingue di città, dove scorre il plancton umano dell'autostrada muscolare; e sgorga in scrocchi dalla cavità delle ossa, come da strumenti musicali, canne d'organo, e quando piove, dai gesti d'ago del cielo col suo arcolaio; e germina impercettibile là dove spunta l'erba, fra i piccoli sassi, nella schiumante pietra focale, nella leggerissima frizione emotiva oltre che materiale, nei nostri vagiti di neonati morti presto, nelle grida, nelle risa e nei pianti di uomini nati non da parto di donna ma da retto di terra, e puoi intuire là dove si crepa la superficie il suo ano rovesciato dove guardare dall'intestino le interiora dell'universo è un vanto, mentre fuori, attorno a te, all'orizzonte del paesaggio, si scorge il corpo dinoccolato del mattino e della sera e da sereno a tempesta si declina la volubilità del rutto, del lampo, della grandine e del pianto. Una spirale di suono è l'onda in prospettiva, la fecondazione, la precipitazione su mammelle di roccia, e il pensiero è una forcina ritorta per serrature, il cui linguaggio d'ultrasuoni trapassa vuoti e contiene cieli noce, gravidi d'uccelli, carichi di uova, e si colma in immagini e riflessi decentrati dell'unica anima la cui originalità è solo combinatoria. Per questo io resto il peso e tu sei la terra inquieta a cui tende ogni emozione, evento, frammento astratto, movimento; e non so che dirti. A sera, ubriaco, nella notte frizzante d'ortica, come un eccitato giano bifronte, stupro indifferente l'androginia del tuo essere. Che tu sia natura morta o vita silente, sei muta. Nella notte frizzante d'ortica, cavalcando sinusoidi, legato per i polsi, osservo le galassie e, traslati, vedo stormi d'uccelli, e non conosco morte e rinascita ma est ed ovest ed i punti cardinali. Sfrecciando fra le persone, ricci urticanti come piccoli cespugli di rovi, bramo e invidio d'essere tutta la materia e avverto l'impossibilità di comprendere te che mi comprendi e porto sigilli d'anima e non ho parole per spiegare le parole che riescano a raccontare le cose ma solo solide sillabe atomiche del tuo rumore. E i gufi nelle "o" e le serpi nelle "i" martellano le foreste meccaniche della visione della mia mente elicoidale mentre a sera, ubriaco, nella notte frizzante d'ortica, regalo a te i nodi che ho in gola.

 
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vite normali, sveglie agli ultimi piani di condomini

Post n°150 pubblicato il 06 Dicembre 2013 da andrea_firenze
 

vite normali, sveglie agli ultimi piani di condomini, sembrano strane al vento, che tocca facce, corre capelli. Un cielo vecchio e spossato si annoia, poggiato sulle venule e gli angoli dei palazzi che lo bucano come capillari, mentre agita esacerbato le tende dagli orli di ostrica, in moto come scie presbiti di pesci farfalla, le piante grasse sui balconi. Non c'è un motivo vero per essere qui o in alcun luogo: la vita si ferma solo in ciò in cui non siamo più. Credo nella reincarnazione delle coscienze, non credo nella personalità. Il solo fatto che condividiamo lo stesso respiro che si fa senile, che sia fatto con branchie, spiracoli, trachee, capillari piliferi, foglie o nasi, è la conferma dell'aspirazione a un contatto unico, alla monade da cui siamo rimasti esclusi come schizzi di malta rappresa fuoriusciti dal bicchiere di una betoniera, come polvere posata sulle assi di vecchi armadi dalle serrature arrugginite. Ci illudiamo di esserne i tesori ma sono sicuro invece che qualcosa sia semplicemente stato scosso, nomade, che siamo stati messi fuori posto, ancora in caduta, e che essere e vivere la vita siano l'avanzo di una percezione in atto, non perfettibile e costretta a percorrere una via che inizia e finisce in sé non nel corpo ma nella sensazione straziante di esso. I vestiti che indossi nascondono la tua nudità; la tua nudità è ciò che chiamo il mio vuoto. Se oggi ci lasciassimo andare moriremmo subito, senza trattenute, incompleti, come telline sullo scoglio o acqua di mare nella risacca. Niente è più degno del pensare al niente d'oggi, del non fare niente. Gocce d'urina seccano sul coperchio del water, voraci; la rasura fiorisce nel lavandino, come in un giardino. Così ogni giorno, come le stagioni. La macchina del caffè ed il water continuano a produrre gli stessi rumori, indifferenti, come gli afflati in questo corpo e i quattro venti. E la vita rinasce comunque, anche senza grande collaborazione, con svogliata partecipazione. Da morto crescerei ugualmente, qualunque sia il significato di crescere, per i realisti invecchiare, per i sognatori consumare, per me forse smarrire la strada verso il cielo e poi, nutrire la terra. Anche essere qui, al terzo piano di un palazzo, è una involontaria arborescenza. Siamo allo stesso tempo alberi e frutti, poi di nuovo seme per altri alberi e frutti. Come un albero non faccio poi molto per perpetuare la vita, è insito nella mia sopravvivenza il crescere; i concetti di lavoro, progetto, amore, attività, accumulazione, sesso, fine, sono idee di cui mi sono appropriato per giustificare il fatto di averne coscienza, per dare un senso alle troppe eiaculazioni. Siamo piante che hanno appreso ad innaffiarsi. I bronchioli della mucosa polmonare sono prefigurati nella fertilità di quella vaginale che fiorisce sotto un po' d'acqua come su un seme nella terra, per un po' di schiuma come quella che si forma negli alveoli, sui rami delle piante dove strusciano e scintillano il bruco o la lumaca, nel sudore sulla pelle in una camiciola Interlok puro cotone, la mia serra di costole; sbocciata dalla fessura delle mutande Llabel, dai boxer ormai da vecchi, che non si trovano più, dice mia madre, come sorgenti incontaminate. Eppure non ho fatto molto ultimamente, non ho pensato a niente. Ci saranno altre fuoriuscite, altre perdite dai corpi, non programmate. A causa di esse avremo figli verso cui dovremo giustificare la connotazione negativa del termine causalità. Faremo latte dai capezzoli. Fra rocce e seni, ruscelli e peni, opere d'arte e alberi uomo, stomaci e mari, brocche, suonatori di zampogna, uova ed ali saremo le scimmie incaricate della reiterata riproduzione e della ciclica rinascita di altro sangue azteco, vittime consapevoli dell'ingannevole effimero conato che trasla di significato per quanto fraintendiamo l'essere. Ma ricorda e non dimenticare mai questa consapevolezza; ai tuoi figli dirai un giorno che muovere qualcosa significa anche inevitabilmente dargli una fine e che la persuasività della ragione è l'unica libertà concessa alla nostra personalità. La fine; forse troppo in anticipo sono stato consapevole di ciò a cui ognuno di noi deve pur finire di pensare. Troppo presto mi hanno imprigionato per rendermi libero dalle spirali del serpente, beato come Visu, steso sulla superficie del mare primordiale, quando tutto era ancora fermo. In tutto e per tutto siamo stati creati a somiglianza di dei; regaliamo fini ai nostri consanguinei, senza rimpianto né difficoltà, senza fatica. Lo facciamo sicuri che non saremo mai puniti: infondo gli dei non sono meno colpevoli eppure se ne fregano. Ma l'ho sempre saputo: giusto o sbagliato ha poca importanza perché, come uomini, i massimi sistemi ci rappresentano di più, ma lo siamo di meno. Perciò ricorda anche di dire ai tuoi figli, dopo avergli insegnato i dettagli di una vita di compensazione e l'acqua rubata e i pani riposti, che pure loro non faranno eccezione e che la merda, che è ovunque, è il rosume di noi tignole dell'universo.

 
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le scogliere di Dover

Post n°149 pubblicato il 02 Dicembre 2013 da andrea_firenze
 

le scogliere di Dover, sotto la pioggia, penetrano la tua schiena bruna, adultera e lussuriosa. Sono fantasmi terra di Siena su spiagge ruvide e rose, intrise di conchiglie sborrose di corpi putrefatti e umiliati; hanno il volto variopinto di un fiore mestruato, le insenature disinibite bagnate sugli orli rossi da linfe femminee, da pallidi resti di umani allunati su ossa piatte di mare. La bellezza contempla la sua pace d'inganno; mormora il loro visibile insinuarsi con l'estenuazione di un carcerato continuamente liberato, rassegnata alla costrizione di un mondo che non smette mai di sgravare la sua teoria d'ideogrammi. Le scogliere di Dover sono testicoli equini, corrono all'orizzonte nelle tue gambe in velocità e dragano la luce in reticoli fin dove finisce il mare; poi restano in presenza, esasperando le cale, intaccature di latta e sale dove sfocia l'assenza, forme svanite che anelano alla vita. Le scogliere di Dover sono un sigillo infranto, la spina dorsale, uno spartiacque flesso ed esasperato, la rabbia emersa di possesso del tempo che non conoscevo e di quello che ho posseduto, rabbia di fili elettrici tesa viva su dischi di terre tattili, promiscue, senza vestiti, sotto grovigli immacolati di carne e pelo, intricati giardini inglesi d'ogni cosa che c'è e non si accorge ma crepita del frastuono della vicinanza a qualcosa, a un passo che batta il cuore alla notte; rinserrate da acque stracolme e gibbose di cervello nella loro pelle granitica crepata di labbra umide come sconfinate colonie di vermi e, sul fondo, soffuse e imperlate della tua fica calda rosso candela, aspra melograno là all'unione verso lo spiraglio, all'apertura dell'assenza, non sai se sia concrezione salmastra o dissolvenza; ed io a ritroso autistico pellegrino, Noé ubriaco e segaiolo, invasato poeta di versi inetti e d'arte, gesto vitale, sborrata, pisciata di cane, col mio seme corruttore carnale, vena d'oro che spacca la pietra, sussurro incerto il mio delirio mentre il vento s'inarca, s'avvolge e rotea la mia introspezione, l'apre dal petto e la getta in piazza esposta ad un cielo che si specchia in una pozza al fondo dei miei polmoni. Le scogliere di Dover sono massacro e terra, bianche spatolate nella torba patetica pantomima dell'utero materno, culmine congestionato e gesto verso un orizzonte fitto di croci di cigni; sulla terra che è il massacro prima del massacro, dove si vive e si è travolti ed il segno s'accentua e grava, poi subito svanisce nel solco del serpente piumato che sibila e striscia sull'ano dell'anno. Le scogliere di Dover lontane e transitorie quanto le scogliere.  Moli teutoniche nella memoria, come un terso diaframma, un'ansia, una bianca malia, un prurito; le scogliere di Dover: la convulsione di sperma trionfale di una mare contratto, il tumore che alligna nel midollo della mia umanità.

 
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