Creato da livieroamispera il 03/04/2013

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Povera Nina Siciliana!

Certo è che Nina Siciliana deve averla fatta davvero grossa ad Adolfo Borgognoni (1840-1893) e Bindo Bonichi, autori del volume "Studi d'erudizione e d'arte" (Bologna, Romagnoli, 1877), i quali, a pag. 91 e seguenti del secondo volume, così si esprimono, per porre in dubbio la sua stessa esistenza:

"Ed eccovi appunto il reo: la Nina. 

La si fe' chiamare e trovò chi la chiamò e seguita ancora a chiamarla (l'avete udito or ora) la Nina Siciliana. Ma non le date retta: è un nome finto, un passaporto falso. Intorno a ciò ogni questione è ormai superflua. 

Quell' arguto critico e diligentissimo ricercatore chè Alessandro d'Ancona dimostrò come due e due fa quattro qualmente la sicilianità della Nina fosse dovuta non ad altro che a una stranissima alzata d' ingegno dell' Allacci il quale, dedicando la sua raccolta agli Accademici della fucina di Messina, trovò molto naturale il dire (ed essi trovarono molto naturale il credere) essere stato ordinato da Dio che la prima donna che poetò in italiano dovesse essere siciliana. Aggiungeva poi l' Allacci, sempre agli accademici messinesi parlando, che un «bell' ingegno e delle cose di Sicilia molto pratico» (che dal Mongitore si ritrae essere stato Giovanni Ventrimigli) avevagli detto che la  Nina doveva essere di Messina «perché in niun altro luogo di Sicilia praticavasi questo nome (Nota: Le antiche rime volgari secondo la lezione del codice vaticano 3793 etc. Bologna, Romagnoli 1811. Vol. 1° App. 2).» 

Come ciascuno vede, i due argomenti recati in campo da Monsignore sono tali che il primo sarebbe peggiore del secondo, se il secondo non fosse peggiore del primo. 

Fu anche, anzi primamente, la Nina battezzata per Nina di Dante; e si spacciò la storia degli amori platonici (più platonici di così era impossibile, stando l'uno sul poggio di Fiesole, l'altra in Sicilia) di questa «copia gentile». Il colto pubblico, al solito, si bevve su ogni cosa. Ma tutta quella storia sovra che si fonda? Ve lo dico subito: sovra quelle «poche cose (Nota: F. Zanotto vol. cit.)» che rimangono di lei. Notate bene che quelle «poche cose» si riducono in realtà a un solo sonetto: il timido tentativo del De Sanctis di regalare alla Nina il sonetto adespoto dello Sparviere (Nota: Stor. let. ital. I.) non deve parere cosa seria; e però tutta la storia degli amori della Nina col maianese non ha altro fondamento che quattordici o, per dir meglio, che cinque rime. 

Nessuno di voi, o lettori amabili, dormirebbe tranquillo, quando sapesse la sua casa riposare su fondamenti così debolini. E non solo la storia degli amori della Nina non ha altro fondamento che quel sonetto, ma non ha altro fondamento la personalità storica di lei; dachè, all' infuori di quel sonetto, non si trova, a pagarla tant' oro, nessuna testimonianza ch' ella ci abbia vissuto. Ma dico male: neppur questo è vero esattamente: il sonetto non proverebbe nulla, non contenendo esso nè il nome di lei nè alcun cenno biografico. La esatta verità è dire che tutta la prova cosi degli amori della Nina come della sua esistenza sta nell' intestazione: Dante da Maiano a Monna Nina, apposta a un sonetto di Dante e nell' altra intestazione: Risposta di Monna Nina a Dante, apposta al sonetto che si dice essere di questa «poetessa chiarissima»: due magri documenti per rizzarvi su una narrazione quale è quella che ci è stata tante volte ripetuta. Dante da Maiano «amò una donna detta Nina siciliana, anch' essa rimatrice di grido e seppe tanto procacciarsi l' amore della donna che dessa apertamente faceasi chiamare Nina di Dante.» Cosi il Villarosa (Nota: Raccolta di antiche rime toscane, Palermo, Assenzio 1817, Voi. 4° 229). Più diffusamente il Perticari con quel suo solito stile pettoruto: «Fioriva tra toscani del ducento un tal Dante da Maiano: poeta non ignobile, di franco animo, sperto non pur di lettere, ma si di leggiadrìe, che vivea al modo di buon paladino; perchè, udito egli narrare di una tal Monna Nina di Sicilia, ch' era in fama di poetessa, se ne accende: le scrive, comecchè ignoto, e la richiede d' amore. Gode la donna: e gli risponde cortese; poichè le arti gentili fanno i loro coltivatori pari a sè stessi; e gli dice: ch' ella conta per gioia l' aver tale amante: e solo desidera di vederlo, e conoscere se la sua penna abbia buona consonanza col cuore. Questo sì strano affetto, come di versi nato, cosi fu di versi nudrido. Ed ei si leggono ancora (Nota: Perticari. Dall' amor patrio di Dante. Cap. VII.).» La Nina amò poi tanto il suo caro paladino «che non volle che altri si vantasse dell' amor suo e si faceva chiamare Nina di Dante (Nota: Nannuci. Manuale. I. 327.).» Tutto questo com' ho accennato non è altro che una lussuriosa fioritura, una mirabolante fruttificazione svoltasi dai germi di quelle due rubrichette: Dante da Maiano a Monna Nina: Monna Nina a Dante. Non è forse il caso di esclamare: 

Maxima de nihilo nascitur historia ? 

Ma non finiscono qui i peccati della Nina e de' suoi complici. Uno de' quali fu, come abbiamo visto, Monsignore Allacci. Questi non contento di aver favorito la Nina nella prefazione del suo libro, volle favorirla anche nell' indice. Infatti nell' indice de' rimatori che va unito alla raccolta, inscrisse tra gli altri rimatori la Nina di Dante. Dicendo Monsignore che rime di coloro i cui nomi stavano in quell' indice si trovano ne' codici vaticani, chisiani e barberiniani, fece credere che non solo in qualcuno de' codici tra i ricordati fossero rime della Nina, ma ch' essa in quei codici fosse inscritta coll' appellativo di Nina di Dante. Il che è falso, falsissimo; di rime della Nina (anche senz' altri appellativi) nessun vide mai nulla in nessun codice di questo mondo. 

Il Nannucci appuntava, nel sonetto della chiarissima poetessa parecchie espressioni che, all' avviso suo, dimostravano come ella, per essere di Sicilia, non maneggiasse bene la frase toscana e cadesse in più d' una improprietà e ineleganza. 

Notava, tra l' altre, il Nannucci la parola parvenza tolta in significato di presenza anzi che di apparenza, scambio in verità molto strano e del quale, oserò dire, non si troverebbe esempio in verun altro dugentista, tutti i rimatori di Sicilia compresi: solo forse se ne troverebbe esempio nel discorso che in "voci prette" fa il Conte di Culagna alla sua donna. 

Ma ciò proviene, sapete da che? Non già dall' essere la Nina nativa di Sicilia, sibbene dal non essere essa una dugentista. Certo: tanto è vero ch' essa fiorisse (per servirmi d' un modo sacramentale) ai tempi di Dante da Maiano, quanto è vero e credibile che il Cagliostro si trovasse alle nozze di Cana. 

Già, a comprovare una fiaba gli amori poetici della Nina con Dante avrebbe dovuto bastare questa semplicissima avvertenza: che se la cosa fosse stata vera, essendo ella cosi nuova, così bizzarra, così poetica non poteva a meno che molti, massime rimatori contemporanei o di poco ai due posteriori, non ne avessero serbato la notizia nei loro scritti. Ma che Nina dugentista!... Ma che amori con Dante di Maiano !... La Nina nacque in Firenze, nella officina degli eredi di Filippo Giunti, l' anno del Signore 1527. Chiedete come e da' quali genitori ? 

Brevemente sarà risposto a voi. 

In nessun altro tempo come nel secolo decimosesto l' amore e la gelosia del primato linguistico e letterario ribollì nell' animo de' letterati toscani. Non si rifuggì per parte loro da nessun argomento, da nessun mezzo; diciamolo pure, non si rifuggì nemmeno dall' imposture, tanto più facili allora che adesso, massime che quelli i quali non si fecero scrupolo d' intingersi in così fatta pece, erano uomini di vaglia, e come! Cuoceva, smisuratamente cuoceva ai toscani che Dante avesse vituperato Guittone, avesse anteposto il Guinizelli all' Urbiciani e ad altri rimatori di quella provincia. 

Pigliarsela con Dante non istava bene e sarebbe stato un darsi della zappa nel piede. Qualcuno si provò a farlo, ma non fu seguito. Che si fece allora ? Si ricorse a un metodo assai diverso di riabilitazione dei vecchi rimatori toscani, di quelli che, insieme a tant' altri d' altre parti d'Italia, l' ingegno alto e stizzoso dell' Alighieri aveva battezzati per "grossi". Si pensò di regalare a Guittone, il gran caposcuola toscano, sonetti belli e forbiti che, senza entrare in tante controversie, infirmassero la sentenza dantesca. Si pensò di foggiare un componimento per comprovare che la fama e le rime d'un di que' vecchi trovatori (Dante da Maiano) erano a suoi tempi tali da giungere in paesi lontani e da ivi suscitare non solo l'ammirazione negli uomini, ma anche l' amore nelle donne; si foggiò il sonetto della Nina e insieme si creò la Nina, la Nina di Dante che in seguito divenne la Nina siciliana. Con un po' di buona volontà la leggenda della leggiadria, dell' amore, della costanza della Nina e di Dante non doveva essere troppo difficile a dar fuori; e non fu. 

Egli è un fatto che nessuno ormai saprebbe e vorrebbe mettere in dubbio che nella famosa raccolta di raccolta di Rime antiche edite daglì eredi Giunti, nel 1527, furono stampati come di Guittone d'Arezzo ventinove sonetti e una ballata, i quali sonetti e la qual ballata non solo non si trovano in nessuno dei più antichi testi, tra cui alcuni (come il Laurenz. red. 9: 63 sono ricchissimi di cose dell'Aretino): talune di quelle rime non si trovano (e son le più) in testo nessuno; qualcuna si legge col nome di autore inestimabilmente più recente; e un sonetto, tra gli altri, è nientemeno che di Gian Giorgio Trissino. In quella medesima raccolta e non altrove, non in nessun codice più o meno antico, non in nessuna raccolta anteriore, sta il famoso sonetto della Nina, il solo, l' unico sonetto di questa poetessa divenuta più celebre di tanti rimatori genuini e valenti, molti de' quali dormono ancora ignorati nel polveroso silenzio delle biblioteche. 

Dopo tutto questo, che si deve conchiudere? Si può -chiedo io- seguitare ancora a narrare o solo anche ad accennare agli amori di Monna Nina e di Dante? Si può egli fare ancora il torto a Rinaldo d'Aquino, a Giacomo da Lentino, a Pier delle Vigne di metterli in mazzo con questa questa ... Nina? Alla quale diedero primamente parvenza (qui la parola cade con tutta proprietà in acconcio) coloro che misero insieme la raccolta giuntina delle rime antiche ed ebbero (non si trascuri di notar questo) tutta la cura di serbarsi anonimi. Pure da molti indizi si è sempre sospettato ch' ei fossero sottosopra i medesimi che curarono nello stesso anno l' edizione giuntina del Decamerone (conosciuta col nome di ventisettana) vale a dire: Bernardo di Lorenzo Segni, Antonio di Niccolò degli Alberti, Francesco di Lorenzo Guidetti, Schiatta Bagnesi, Pietro Vettori, Antonio Francini il vecchio e Bartolommeo Cavalcanti (Nota: Manni, Istoria del Decamerone 642). 

«Colui che ordinò questo canzoniere -scrive il Perticari, trattando della raccolta del 27, in una lettera a L. Caraneti- e che scrisse la nobilissima lettera in nome di Bernardo Giunti, era certo un letterato grande, perchè non so se possa leggersi scrittura più leggiadra e più grave, nè se alcun libro abbia prefazione più leggiadra.

Lasciamo da una parte tutta questa leggiadria, che altri potrebbe bene non vedercela o vedercene assai meno del conte pesarese: ma questi aveva davvero ragione, allorchè giudicava che chi pose insieme quel canzoniere doveva saper bene il fatto suo: i nomi da me recati qui sopra, darebbero di ciò ampia e salda conferma. 

Ed ora, signora Nina, figlia di tanti padri, ingannatrice di tanti secoli, seduttrice di tanti storici, frodatrice della gloria di tanti poeti, acconciatevi dell' anima e fate testamento; dachè voi dovete morire. 

Imagino che tutti i vostri beni mobili ed immobili li lascerete alla Crusca: ed ella se li goda pure in proprietà come se li è goduti sin qui in usufrutto; nessuno l' invidierà. 

Ma voi, dovete morire . . . 

Se non che nella piena respirazione di questa atmosfera abolizionista che ne circonda, ministrante la giustizia e la grazia il Mancini, nell' odierna mitezza del pubblico costume abborrente dal truce spettacolo del patibolo, un' esecuzione capitale massime d'una donna, sarebbe, per lo eccesso medesimo della inopportunità, ingiusta. 

Andate, o monna Nina: e' vi si perdona: andate; qualche buon cristiano che vi raccolga e vi creda ancora, non vi può mancare, statene certa. Andate; ma sappiate che al vostro perdono ha conferito una massima "circostanza attenuante", quella che voi non foste mai viva". 

 
 
 
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