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« Donne in ArcadiaLe poesie di Isabella di Morra »

Sonetti di Isabella di Morra

Post n°84 pubblicato il 11 Agosto 2013 da livieroamispera
 

Delle 13 poesie della di Morra, ben 10 sono i sonetti che riporto qui di seguito.

1

I fieri assalti di crudel fortuna
Scrivo piangendo, e la mia fresca etate;
Me, che in sì vili, ed orride contrate
Spendo il mio tempo senza loda alcuna.

Degno il sepolcro, se fu vil la cuna
Vò procacciando con le Muse amate;
E spero ritrovar qualche pietate,
Malgrado della cieca, aspra, importuna.

E col favor delle sagrate dive,
Se non col corpo, almen coll' alma sciolta,
Esser in pregio a più felici rive.

Questa spoglia dov' or mi trovo involta,
Forse tale alto Rè nel Mondo vive,
Che in saldi marmi la terrà sepolta.


2

Sacra Giunone, se i volgari amori
Son dell' alto tuo cor tanto nemici,
I giorni, e gl' anni miei, chiari, e felici
Fa con tuoi casti, e ben concetti ardori.

A te consacro i miei verginei fiori,
A te, o Dea, ed ai tuoi pensieri amici,
O delle cose sola alme beatrici,
Che colmi il Ciel de' tuoi soavi odori.

Cingimi al collo un bel dorato laccio
De' tuoi più cari, ed umili soggetti;
Che di servir a te solo procaccio.

Guida Imeneo con sì cortesi affetti;
E fà sì caro il nodo, ond' io m' allaccio,
Che una sol alma regga i nostri petti.


3

D'un alto monte onde si scorge il mare
miro sovente io, tua figlia Isabella,
s'alcun legno spalmato in quello appare,
che di te, padre, a me doni novella.

Ma la mia adversa e dispietata stella
non vuol ch'alcun conforto possa entrare
nel tristo cor, ma, di pietà rubella,
la calda speme in pianto fa mutare.

Ch'io non veggo nel mar remo né vela
(così deserto è lo infelice lito)
che l'onde fenda o che la gonfi il vento.

Contra Fortuna alor spargo querela
ed ho in odio il denigrato sito,
come sola cagion del mio tormento.


4

Quanto pregiar ti puoi, Siri mio amato,
Della tua ricca, e fortunata riva,
E della terra, cui da te deriva
Il nome, che al mio core oggi è sì grato;

S' ivi alberga colei, che il Cielo irato
Può far tranquillo, e la mia speme viva,
Malgrado dell' acerba, e cruda Diva,
Ch' ognor s' esalta del mio basso stato.

Non men l' odor della vermiglia rosa
Di dolce aura vital nodrisce l' alma,
Che soglion farsi i sacri Gigli d' oro.

Sarà per lei la vita mia giojosa,
De' gravi affanni deporrò la salma,
E queste chiome cingerò d' alloro.


5

Non sol il ciel vi fu largo e cortese,
caro Luigi, onor del secol nostro,
del raro stil, del ben purgato inchiostro,
ma del nobil soggetto onde v'accese.

Alto Signor e non umane imprese
ornan d'eterna fronde il capo vostro,
cose più da pregiar che gemme od ostro,
che dai tarli e dal tempo son offese.

Il sacro volto aura soave inspira
al dotto petto, che lo tien fecondo
di glorïosi, anzi divini carmi.

Francesco è l'arco de la vostra lira,
per lui sète oggi a null'altro secondo,
e potete col son rompere i marmi.


6

Fortuna che sollevi in alto stato
ogni depresso ingegno, ogni vil core,
or fai che 'l mio in lagrime e 'n dolore
viva più che altro afflitto e sconsolato.

Veggio il mio Re da te vinto e prostrato
sotto la rota tua, pieno d'orrore,
lo qual, fra gli altri eroi, era il maggiore
che da Cesare in qua fusse mai stato.

Son donna, e contra de le donne dico
che tu, Fortuna, avendo il nome nostro,
ogni ben nato cor hai per nemico.

E spesso grido col mio rozo inchiostro
che chi vuole esser tuo più caro amico
sia degli uomini orrendo e raro mostro.


7

Ecco, che un altra volta, o valle inferma,
O fiume alpestre, o rovinati sassi,
O ignudi spirti di virtute cassi,
Udrete il pianto, e la mia doglia eterna.

Ogni monte udirammi, ogni caverna
Ovunque arresti, ovunque io mova i passi;
Che fortuna, che mai salda non stassi
Cresce ognora il mio male, ognor l' eterna.

Deh mentre, ch' io mi lagno, e giorno, e notte,
O fere, o sassi, o orride rovine,
O selve incolte, o solitarie grotte;

Ulule, e voi del mal nostro indovine,
Piangete meco, a voci alte interrotte
Il mio più d' altro miserando fine.


8

Torbido Siri, del mio mal superbo,
Or, ch' io sento da presso il fine amaro;
Fa tu noto il mio duolo, al Padre caro,
Se mai quì il torna il suo destino acerbo.

Digli, come morendo disacerbo
L' aspra fortuna, e lo mio Fato avaro,
E con esempio miserando, e raro
Nome infelice, alle tue Onde serbo.

Tosto, ch' ei giunga alla sassosa riva,
(A' che pensar m' adduci, o fiera stella)
Come d' ogni mio ben, son cassa, e priva;

Inqueta l' onde, con crudel procella,
E dì: me accrebber sì, mentre fu viva
Non gl' occhi nò, ma i fiumi d' Isabella.


9

Se a la propinqua speme nuovo impaccio
o Fortuna crudele o l'empia Morte,
com'han soluto, ahi lassa, non m'apporte,
rotta avrò la prigione e sciolto il laccio.

Ma, pensando a quel dì, ardo ed agghiaccio,
ché 'l timore e 'l desio son le mie scorte:
a questo or chiudo, or apro a quel le porte
e, in forse, di dolor mi struggo e sfaccio.

Con ragione il desio dispiega i vanni
ed al suo porto appresso il bel pensiero
per trar quest'alma da perpetui affanni.

Ma Fortuna al timor mostra il sentiero
erto ed angusto e pien di tanti inganni,
che nel più bel sperar poi mi dispero.


10

Scrissi con stile amaro, aspro e dolente
un tempo, come sai, contra Fortuna,
sì che null'altra mai sotto la luna
di lei si dolse con voler più ardente.

Or del suo cieco error l'alma si pente,
che in tai doti non scorge gloria alcuna.
e se de' beni suoi vive digiuna.
spera arricchirsi in Dio chiara e lucente.

Né tempo o morte il bel tesoro eterno,
né predatrice e vïolenta mano
ce lo torrà davanti al Re del cielo.

Ivi non nuoce già state né verno,
ché non si sente mai caldo né gielo.
Dunque ogni altro sperar, fratello, è vano.

 
 
 
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