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Lucia Albani 10 sonetti

Post n°179 pubblicato il 19 Ottobre 2013 da livieroamispera
 

Riporto altri 10 sonetti di Lucia Albani Avogadro, tratti da "Alcuni sonetti di la Signora Lucia Albana quando era doncella in etade", in Bergamo per Giovanni Fortuni (la data di pubblicazione è illegibile, ma dovrebbe essere il 1553).

07. (Pag. 62, sonetto XVI)

Da questo pien d'errori secol rio,
Secol di ferro, anzi di fango vile,
E' si sbandita ogni opera gentile,
E ogni antica virtù posta in oblio,

Che chi più il suo perverso empio desio
Cerca adempir, e 'n ciò segue suo stile,
Non riguardando a cosa alta, od humile,
Colui più saggio è riputato, et pio.

Non più trovar si puon fedeli amanti,
Ch'amor si sdegna d'habitar ne' cuori,
Che d'ogni vitio, et duol sono ricetto:

Vivon Giasoni, et Thesei, che diletto
Prendon de' falsi inganni, et d'altrui pianti:
Ahi Ciel come sofrir puoi tanti errori ?



08. (Pag. 63, sonetto XVII)
In nome di selvaggio.

Donna, quei lumi, onde, primieramente
Uscio lo strai, che m'impiagò si 'l cuore,
Et quei bei crin, che con l'alto splendore
De i raggi suoi m'abbaglian dolcemente,

Son tai, ch'io non mi pento novamente
Esser fatto di voi servo, et d'amore ;
Né m' incresce lo stratio, e 'l gran dolore
Ch'io provo ogn'hor, poi che si prestamente

Fui constretto a lasciarvi, et gir altrove,
Pur che voi, Donna, non prendiate a sdegno,
Esser de' miei pensier ultim' oggetto.
 
Piacciavi dunque di non farmi indegno
Del vostro amor, si che 'l mio cuor ritrove
Appo di voi dolce, et grato ricetto.



09. (Pag. 72, sonetto XXVI)

Hor hai fatto l'estremo di tua possa,
Crudel fortuna, hor hai d'ogni contento
Privata in tutto la mia vita et scossa,
Colmandola d'affanni, doglia, et stento.

Che pòi più farmi, fuor ch'in poca fossa
Chiuder il corpo mio di vita spento?
Per qual cagion ancor non ti sei mossa
A terminar con morte il mio tormento?

O s'a me fusti sì benigna, o Diva,
Che ciò da te impetrassi, tanto amata
Da me saresti, quanto odiata hor sei:

Ma io so ben che sempre a i desir miei
Contraria fusti, et sempre ver me irata,
Però ti piace che languendo io viva.



10. (Pag. 73, sonetto XXVII)

Lassa, qualhor' al mio infelice stato
Volgo la mente, fra me stessa i' dico :
Ahi quanto è il Ciel d'ogni mio ben nemico,
Quanto fu il di ch'io nacqui sfortunato;

Poi ch'altro, che languir mai non m'è dato
In questa vita, in cui sol mi nudrico
Di doglia, e in pregar morte m'afatico,
Che aventi in me 'l suo telo empio, e spietato!

Et in questo pensier di largo pianto
Un nembo verso da gli occhi, ch'homai
Occhi non son, ma fonti, ch' a pietade

Movrian le fiere, benché tanto o quanto
giamai non mosse (ahi fiera crudeltade)
A compassion il Ciel de' miei gran guai.



11. (Pag. 58, sonetto XII)

Le stelle, e 'l Cielo, et la mia cruda sorte
Sonnosi congiurati a li miei danni,
Né respirar mi lascian ne gli affanni,
Tanto ch'io sfoghi il mio duol grave, et forte;

Et nulla valmi il sempre pregar morte,
Che mi sottragga, bench'in sì verd'anni,
Col suo fier colpo alli mondani inganni,
E fra tanti miei guai pace m' aporte:

Perché l'iniqua ingorda del mio male
Veggio acordata col mio destin rio,
Tal che de prieghi miei nulla gli cale;

Ond'io pensando a ciò di pianto un rio
Verso da gli occhi, et maledico il strale,
Che fu cagion del tanto penar mio.



12. (Pag. 76, sonetto XXX)

Morte si lagna, che troncar pensando
Lo stame de la bella, e casta Irene,
Lei già, senz' aspettar sue dure pene,
Vede girsene al ciel lieta volando.

Si lagna 'l tempo, che dove girando
Sepolti in Lethe gli altri nomi tiene,
La mira ch'immortal fatta ne viene,
Più ad alto ogn' hor il bel volo spiegando.

Né meno il mondo si lamenta, e duole,
Ch' al Paradiso anchor farsi simile,
Sol per costei non poca speme havea.

Sola fra' Dei ti godi, alma gentile,
Teco spoglie portando altere e sole
Il mondo, e 'l tempo vinto, e morte rea.

"Rime di diversi nobilissimi et eccellentissimi autori in morìe della Signora Irene delle Signore di Spilimbergo", In Venetia, appresso D. et G. Li. Guerra, 1561, p. 131.



13. (Pag. 60, sonetto XIV)
In nome di Phillida.

Nimphe, che ne gli ameni herbosi calli,
Cui con il Brembo a gara il Serio infiora,
Fate soggiorno, et liete hora per hora
Vi state in dolci, et amorosi balli;

Et voi pastor, ch'intorno a' bei cristalli
Pascete i greggi; deh se in tal dimora

Il Ciel vi guardi, e a' vostri armenti ogn'hora
Conceda i chiari fonti, et fresche valli,

Hor risguardate coni' a tutte l' hore
Solinga, et mesta mi lamenti, et piagna,
Qual del suo amante priva tortorella,

Et vengavi pietà del mio dolore.
Cosi una sconsolata pastorella
Con bassa voce appo 'l Serio si lagna.



14. (Pag. 53, sonetto VII)

Non a Venere bella fu si grato
Il pomo, ch'hebbe da l'Ideo pastore,
Quanto è a me suto il bel candido fiore.
Caro vie più d'ogn' altro don pregiato:

Ond'io mi doglio, cbe con stil ornato
Lodar nol possa, e alzarlo a tant'honore,
Ch'aggiunga il suo soave, e grato odore
In sin al Ciel da Ciprigna habitato.

Ben ti fu amico il Ciel, o bel Narciso
Quando già terminò tuo furor vano,
Cangiandoti in si vago fior gentile;

Poi ch' esser colto dalla bella mano
Dovei di quel, che nel leggiadro viso,
Et ne' suoi bei sembianti, è a te simile.



15. (Pag. 66, sonetto XX)
Alla Ill. re Sig.ra Elisabetta Soarda Secca.

O de la patria nostra eterno honore,
Donna gentil, per cui le superbe onde
Il Brembo inalza, et cuopre ambe le sponde
Di vaghi fior, lieto d'un tal splendore;

Se in ragionar del vostro alto valore,
Et delle gratie a null' altre seconde,
Di cui v'adornò il Ciel, non corrisponde
Il basso stil a ciò, che chiude il cuore;

Perché esprimer non può lingua mortale
Quanto sia bella l'alma che dimora
In voi, e 'l velo che la veste e amanta;

Prendete in grado almen il cuor, che tanta
Virtute et pregio, il più che puote et vale,
Ammira, inchina, riverisce, e honora.



16. (Pag. 54, sonetto VIII)
In nome di Tirrena.

Poscia che 'l primo dì, ch'io vi mirai,
O di mia vita caro almo sostegno,
Senteimi con nov'arte, et novo ingegno
Rapir il cuor da' vostri chiari rai:

Né per mio richiamarlo ei volse mai
Tornarsi a me, ma senza alcun ritegno
Sen venne a voi, come a supremo, et degno
Ricetto, ond'io di lui priva restai.

Ben tener vi potete homai sicuro
Ch'altrui donarmi il mio destin mi vieta,
Né d'altri fuor che vostra unqua esser voglio.

Così in amar me voi constante, et puro
Siate, com'io in la trista sorte, et lieta
Sempre sarò, qua! in mar fermo scoglio.

 
 
 
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