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Lucia Albani 8 sonetti

Post n°180 pubblicato il 19 Ottobre 2013 da livieroamispera
 

Riporto i sonetti 17-24 di Lucia Albani.

17. (Pag. 51, sonetto V)
A messer Alessandro Allegri.

Poscia che voi le Muse sì seconde
Havete Allegri, che vi prestan l'ale
Di gir al ciel, el di far immortale
Chiunque alzate in rime alte, et faconde,

Rallegrar mi darei de l'alma fronde,
Contra di cui folgor del Ciel non vale,
Esser da voi degnata, a cui eguale
Nullo sale in Parnaso a le sacre onde.

Ma certo io temo, et penso che per strade
Finte vi guidi Apollo, a far ch'in carte
Mi date fama mille, et mille lustri:

Pur spero in quel ch'ogni virtù, e bontade
In sé raccolta tien, ch'almeno in parte
Mi degnarà de' vostri honor illustri.



18. (Pag. 59, sonetto XIII)
In nome ni Phillida

Poscia ch'io son d'ogni speratici fuore
Di poter mai col mio bel Daphni un giorno
Sederimi a l'ombra sotto un lauro adorno
Di verdi frondi, senza alcun timore,

Et spogliando a bei prati il lor honore,
Tessergli un vago cerchio al crin intorno
De' fiori, ch' appo lui ricevon scorno.
Si grand' è la beltà che m'arde 'l cuore,

Lasciar vi voglio, o colli, a me già tanto
Grati, et voi, selve, che con sòn pietoso
Già rispondeste sovente al mio canto;

E a guisa d'Eccho in qualche speco ombroso
Mia vita vuo' finir con doglia, et pianto.
Ch'a miseri la morte è gran riposo.



19. (Pag. 57, sonetto XI)

Qual pena mai fu si spietata, et ria
Ch'agguagliar si potesse al gran dolore,
Ch'io provo ogn'hor? tal che 'n sul più bel fiore
De' miei vent'anni a morte l'alma invia?

Qual più giusta cagion fu de la mia
in qualunque altra mai di mandar fuore
Sospir, gemiti, pianti, a tutte l' hore,
Sendomi chiusa d'ogni ben la via?

Perché non ho io almen si dolce stile,
Che tali i miei martir spiegar in carte
Io possa, quai nell'alma stanno occulti?

Che se ciò fusse ogni cuor crudo, et vile
A compassion movrei de i gravi, et molti
Affanni miei, et sfogareili in parte.



20. (Pag. 77, sonetto XXXI)

Quella che contemplando al ciel solea
Poggiar sì spesso con la mente altera,
Ond' a noi col pernnel mostrò quant'era
Di perfetta beltà ne la sua idea;

Et col cantar, pura celeste dea
Sembrando, facea fede de la vera
Angelica armonia che n l'alta spera
Si cria, membrando il bel, che l'alme bea;

Poscia che le dolcezze hebbe gustato
Ben mille volte de l'eterno amante,
Quanto più gustar puote alma ben nata,

Disse sdegnando: A che più la beata
Sede lascio, per gir nel mondo errante?
Cosi fermossi 'n quel felice stato.

Anche in:
Rime di diversi nobilissimi et eccellentissimi autori in morte della Signora Irene delle Signore di Spilimbergo, In Venetia, appresso D. et G. Li. Guerra, 1561, p. 132
Bergalli, pag. 209



21. (Pag. 61, sonetto XV)

Questa mia frale vita, anci mia morte,
Sembra proprio in gran mar senza governo
Nave, ch'errando vada a mezzo il verno,
Spinta dal vento, et da contraria sorte:

Non può cosa trovar che la conforte,
Anci par ch'ogni gioia prenda a scherno,
Et non è pena giù nel cieco inferno,
Che non sia de la sua men dura, et forte.

Null'è che scemar possa una sol dramma
Del grave aspro dolor, che la disface,
Et ch'al suo fin anci tempo l'invia,

Fuor che colui che di sua immensa fiamma
Cagion fu, ma non vuol mia ingrata, et ria
Fortuna, a si gran guerra tanta pace.



22. (Pag. 75, sonetto XXIX)

Questi sospiri mici ch'escon del cuore
Formati dal dolor, che mi disface,
Sono sì ardenti che qual viva face
Iucendon l'herbe e i fior coi lor ardore:

Né si l'aria infiamò 'l solar splendore,
Quei di che 'l carro mal guidò l'audace
Phetonte, com'io, priva d'ogni pace,
De' miei sospir l'infiammo a tutte l'hore;

Né tanta pioggia mai cadeo dai cielo,
Quando verso da gli occhi amaro pianto
Pensando alla mia pena aspra, e spietata;

E ben sarei qual Biblide cangiata
In fonte già, se non temprasse il gielo
Del pianto mio, di sospir l'ardor tanto.



23. (Pag. 67, sonetto XXI)

Re de gli dei, superno, et sacro Giove,
Se chi già col suo stral fiero, et pungente
T'impiagò il cuor, et t'indusse sovente
A prender forme monslniose, et nove,

Non più l'antighe piaghe in te rinove,
Ma sempre goder possi lietamente
Ne l'alto seggio Ino vago, et lucente,
Né mai ti volga empia vaghezza altrove;

Trafiggi, prego, di chiunque è ingrato
Alla sua donna il petto con quel strale,
Ch' estinse i fieri et superbi giganti;

Et sgombra il mondo homai di peste tale,
S'udirai poi con liete voci, et canti
Il nome tuo da mille esser lodato.



24. (Pag. 64, madrigale XVIII)

S' a un qualche fin ciascuna attion mortale
Dev'esser indirizata,
Perch'altrimente fora ogn'opra vana,
Io poi che la beata
Luce vie più ch' ogn' altra dolce e humana,
Che fu de' miei pensier segno fatale,
Sparita è via da me com' havess' ale,
Lassa, in cui porrò più pensier o spene ?
Ahi Ciel, che di mie pene
Sì ingordo sei, o rendimi il ben mio,
O morte tronchi in me il duol aspro, et rio.

 
 
 
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