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La Fotografia di una deriva

immagineFamiglie che stentano ad arrivare alla fine del mese. Lavoratori precari, con un contratto interinale che fino alll'ultimo minuto non sanno se verranno riconfermati dall'azienda presso cui sono mandati in missione, se firmeranno un'ulteriore (l'ennesimo) contratto interinale, presso un'altra azienda, oppure se dovranno starsene a casa, in attesa di una chiamata che chissà se e quando ci sarà. Drammatica è l'incertezza.

Lavoratori di call center che con una operazione di esternalizzazione (termine altisonante che suona però come un allarme al solo pronunciarlo, per i lavoratori) o di outsourcing, che detto così fa più figo, vengono sballonzolati da un'azienda all'altra, senza certezza alcuna sul proprio futuro.

Giovani lavoratori con contratti di lavoro precario, che a trent'anni sono costretti a vivere in famiglia, con un misero stipendio e nessuna certezza per il futuro. O famiglie che destinano gran parte dello stipendio all'affitto, condannate ad una non-vita.

Lavoratori che a 40 anni perdono il posto di lavoro, costretti ad un lungo peregrinaggio per aziende a mostrar il loro curriculum, dove si sentono rispondere, "lei è troppo vecchio". Magari alla fine riescono a trovare un buco in cui inserirsi, per lavorare come interinali però e condannati anch'essi ad una drammatica incertezza.

Per non parlare delle morti sul lavoro.

Un sindacato che, hai l'impressione, non stia facendo tutto quello che dovrebbe per tutelare la classe lavoratrice e quelli che, espulsi dall'organizzazione sindacale per le simpatie dimostrate verso la lotta armata e per chi, questa lotta ha incarnato (Nadia Lioce), dichiarano apertamente la propria solidarietà a quei compagni finiti in carcere perchè membri di un'organizzazione che ha fatto della violenza il proprio strumento di lotta. Sicuri che quella sia l'unica via per restituire dignità alle classi lavoratrici più disagiate.

Una classe di lavoratori precari, sotto pagati e senza sicurezza alcuna sul lavoro stretti fra forze politiche e sindacali troppo distratte e gruppuscoli terroristi che invece vorrebbero occuparsi di loro, ricorrendo alla violenza.

Una deriva, una vera e propria deriva. Questo è il quadro che ci ha descritto Santoro ieri ad Anno Zero.

Il quadro di una drammatica precarietà, rappresentata da quei famigerati contratti interinali o comunque precari, introdotti per agevolare l'ingresso dei giovani nel mondo del lavoro e finiti per diventare strumenti, nelle mani dei datori di lavoro, di ricatto per i lavoratori, quelli più anziani, così come i più giovani.

Ma le affermazioni che più di tutte mi hanno ferito dentro sono state quelle in cui si faceva un'amara constatazione. Erano in molti a farla e non è la prima volta che la sento. Quella cioè di una sinistra che, anche quando è stata forza di Governo, non ha avuto la capacità di difendere l'interesse delle classi lavoratrici. La sensazione di forze di sinistra troppo distratte da altre faccende per occuparsi della precarietà del lavoro è forte. E nemmeno tanto infondata dopotutto.

Ieri sentivo alcune interviste a margine della prima giornata del Congresso DS. Qualcuno che lamentava il fatto che dal simbolo del nuovo soggetto politico, ancora in gestazione, il PD, spariranno le parole sinistra e socialismo. Quel tipo ha sollevato una non questione. Forse più che di simboli e di parole, occorrerebbe davvero occuparsi della sostanza delle cose. E allora forse un partito è di sinistra, non tanto perchè nel suo simbolo ha determinati disegni o parole, ma perchè dice e, sopratutto fa cose di sinistra. Ed io credo che la società in cui ci ritroviamo a vivere oggi, sia una società che non porta affatto l'impronta di un governo di sinistra.

Mi auguro di tutto cuore che il nascente Partito Democratico, voglia mettere al centro della sua attenzione, non tanto i problemi legati alla situazione delle coppie, di fatto o ufficiali che siano, ad esempio, ma che invece voglia partire dalla questione del lavoro. Per riestituire una dignità a coloro ai quali essa è stata tolta dalla precarietà e per togliere il "pane di bocca" a chi pensa che i problemi si possano risolvere con lo scontro radicale, magari giungendo alle estreme conseguenze, rappresentate dalla lotta armata.

Danny.

scritto da: DannyDT    su: Gli Appunti di Danny

 
 
 

Aspettando le buone maniere. Aspettando la neve...

Post n°38 pubblicato il 05 Gennaio 2007 da HO.PERSO.LA.DENTIERA
 

immagineQuando arriva si capisce subito. Non c’è bisogno di scostare le tende né di aprire le finestre.

Basta porgere l’orecchio e ascoltare gli strilli nel cortile al mattino presto per sapere se è scesa la neve: rimbalzano contro al ghiaccio e l’eco non è stridente come al solito, ma ovattato. Di colpo sparisce la tentazione di buttare giù dalla finestra un grosso secchio di acqua per far posto alla tenera sensazione di essere cullati dalle voci stridenti.

Basta ascoltare il rumore soffuso delle gomme delle macchine che ruotano affannate sul manto coperto. Quando cade la neve il mondo degli automobilisti si trasforma in una sorta di paradiso delle buone maniere: nessuno sorpassa, la velocità è rigidamente tenuta entro i limiti ( e anche di più ), le precedenze sembrano aver acquistato nuovamente significato. Finire contro a un palo sembra un rischio più reale se ci si rende conto che lo si può fare pattinando. Sarebbe un vero peccato rovinare la carrozzeria fiammante del nuovo suv a causa di un ramo o di un essere umano che decide di attraversare la strada. E così il pericolo di una frenata troppo lunga rende anche alle strisce pedonali il loro antico valore.

I ciclisti spariscono dal panorama urbano per lasciare il posto a un rado gruppo di pedoni, per la maggior parte donne anziane che eroiche sfidano le lastre di ghiaccio con i soliti stivaletti marroni di mezzo secolo prima da cui fa capolino un leggero tacco (utile per agganciare il ghiaccio e avanzare come gli scalatori sulle montagne). E guai a dimenticare l’abbigliamento tipicamente invernale adatto alle temperature rigide: la gonna che arriva tenacemente sotto alle ginocchia appena oscurate dalle calze velate e il cappotto felpato che va bene da settembre a maggio. L’andatura sui marciapiedi, qualunque sia l’età, è quella ispirata alla tecnica dello spazzaneve: gambe aperte, piedi che convergono all’interno, ginocchia leggermente flesse e, una volta trovato il baricentro, si parte strisciando. L’importante è non farsi prendere alla sprovvista da un' improvvisa mancanza di equilibrio, quindi anche l’espressione del viso concentrata contribuisce a scongiurare eventuali rischi di cadute. Mentre si “cammina” diminuisce il rischio di essere vittime di un buttafuori a causa della palla da bowling di turno che prende a spallate i birilli che si trova attorno.

I bambini, trovando le porte della scuola chiuse, rimangono a casa e, siccome i genitori lavorano, le baby sitter si arricchiscono (sempre se riescono ad arrivare a destinazione).

Eppure c’è ancora chi spera che non cada la neve dimenticando che questa è come il natale: rende tutti più buoni.

E tutti negli stessi casini.

scritto da: darxlady su: PAROLE DI CARTA


 
 
 

Oltre i muri della vergogna

GUERRA, PALESTINA, MURO, INFEDELI, RELIGIONI.


immagineBrandelli di carne esposti come quarti di bue macellati, l’aroma del sangue ancora caldo scende a rivoli dai tronchi mozzati. Sento quel profumo, quel nettare oscuro di carnume putrefatto penetrarmi le narici.

Prendo la palla di stracci cercando di non inciampare sulle membra piovute dal cielo durante l’ultimo attacco. Nulla cambia attorno a me, nulla varia dall’inizio della mia vita, da, quando gli occhi si sono aperti innanzi all’orrore.  Non c’è vita oltre questa vita, non c’è speranza per noi, imprigionati dietro quel muro infame che ci fa prigionieri in un ennesimo campo di concentramento a cielo aperto, chiamato da altri con nome diverso.

Tutto doveva essere dimenticato. Tutto doveva essere ricordato degli orrori del millennio passato, ma quei morti bruciati, carbonizzati, quei cadaveri ridotti in cenere oggi sono con noi e mi tengono la mano.  La sento, la tocco, è scheletrica e ossuta come la mia. Il suo stomaco grida per la fame come il mio. Il suono è il medesimo, come uguale l’atrocità che ha subito, e ora i miei occhi precocemente adulti vedono attorno e in me.

Mi parla all’orecchio, ma altri non possono udirlo, ascolto le sue preghiere rivolte a J.H.V.H, rivolte a Adonai. Sento la sua mano sfiorare la mia, e con un gesto m’invita a rivolgermi al mio Dio, ad Allah, lo stesso Dio assente ieri come oggi, dei nostri sacri testi.

Dov’era Adonai in quei campi passati, dov’è ora Allah? Forse nascosto oltre quel muro? Forse è nascosto e ascolta silenzioso le nostre comuni preghiere?

Tocco con la mente la sua Kippa, tocca con lo spirito la mia Keifa. Lo stesso tessuto lavorato dall’uomo, lo stesso Dio, la stessa Fede, lo stesso dolore, la stessa morte. La morte.

Vorrei poter vedere il suo sorriso, vorrei che potesse vedere il mio sorriso in cerca di una speranza rivolta al futuro assente.

Prendo la palla tra le mani, è sporca di terra e imbrattata di sangue. Ho le dita chiazzate, le dita nere e la mente intorpidita per le grida stridule che odo.

Si avvicina l’ennesima sera, l’ennesima notte infernale, dove il cielo sarà illuminato a giorno dai razzi traccianti, dove altri innocenti saranno sacrificati per un olocausto senza fine.

Oggi come allora nessuno vuole sentire il pianto degli innocenti. Oggi come nel millennio passato in troppi chiudono gli occhi, si tappano le orecchie innanzi al genocidio che si sta compiendo, innanzi allo sterminio indiscriminato che quotidianamente si compie.

Oggi come allora parlano i politici, parlano i proclami pubblici, e gridando si addossano le colpe l’uno all’altro, ma è sui nostri capi che cadono i missili, sono sui capi dei nostri fratelli di là del muro che cadono i nostri missili causando terrore distruzione e morte.

Valiamo meno dei granelli di sabbia sulla spiaggia, siamo povere pedine di una scacchiera impazzita, pedine senza re e regine, perché come vili vivono protetti, osannati e riveriti, mentre la nostra tavola è vuota, lo stomaco grida, e negli occhi non abbiamo più lacrime per piangere i genitori, fratelli sorelle e amici perduti.

Siamo colpevoli! Sì colpevoli come i nostri fratelli gasati  e cremati. Colpevoli d’avere un Dio diverso, d’avere una Fede nata dagli stessi padri, ma la discendenza degenere si è frantumata e divisa, leggendo, scrivendo, narrando e creando muri d’incomunicabilità e odio.

A chi rivolgo la mia preghiera? Alla Mecca?  Non posso prostrarmi a terra nella giusta direzione, perché attorno a me, nulla vedo se non desolazione, morte e mura che salgono al cielo? Al Dio degli Ebrei? Implorando pietà affinché metta fine alla nostra tribolazione e abbia clemenza di noi presunti infedeli al suo cospetto? Al Dio dei Cristiani, che secondo le loro usanze sarà ricordata la sua nascita tra pochi giorni? Lo stesso Dio che ci chiama infedeli, come noi chiamiamo loro crociati infedeli?

No, quest’anno non rivolgerò alcuna preghiera a nessun Dio umano. Non compirò alcun sacrificio a nessuna divinità musulmana ebrea o cristiana. Oggi mi riunirò in silenzio tenendo per mano il mondo, tenendo nel cuore quanti vorranno elevare una preghiera per quei morti sterminati dall’uomo in tutti i millenni passati, riflettendo sugli orrori che oggi vedo davanti a me.
Non guarderò le loro religioni, ma i loro cuori, sapendo d’avere accanto quell’amico che sorridendomi con la sua mano ossuta si sistema la Kippa, e con l’altra m’accarezza la Keifa, infondendomi con un sorriso la certezza di un futuro oltre quel muro, dove in passato aveva letto per migliaia di volte: “Il lavoro rende liberi”.


scritto da: Marco Bazzato poeta, scrittore, pubblicista, pittore.

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