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Quella mattina a Jenin

Post n°296 pubblicato il 14 Marzo 2013 da giulia.galli97
 

 

Amal si ritrovò con la faccia a terra per l'ennesima volta, con uno straziante dolore al fianco e una poltiglia rossa fra le dita che scivolavano lentamente sotto il seno fino a raggiungere il punto che faceva più male. Lo squarcio si era riaperto di nuovo, da quello squarcio che l'aveva sempre fatta sentire a disagio, diversa, ora usciva di nuovo sangue. Ma Amal sapeva, e in cuor suo se ne stava facendo una ragione, che quella volta no, non sarebbe andata come l'altra. Allora la sua mente ancora lucida la riportò indietro nel tempo, per trascorrere gli ultimi attimi della sua vita in pace. I secondi passavano inesorabili, ma la mente di Amal era più veloce. Si, questo gli Ebrei non gliel'avrebbero mai tolto, non potevano impedirle di ricordare i momenti belli della sua vita, così cominciò una pioggia di pensieri mentre tutto intorno diveniva sfocato. Si ricordò di quando suo padre le aveva insegnato ad andare in bicicletta ed era stato per la prima volta orgoglioso di lei, le aveva dato una pacca affettuosa sulla testolina e l'aveva baciata sulla fronte, di quando sua madre le aveva confidato per la prima volta i segreti femminili, di quando per la prima volta un ragazzo le aveva sorriso maliziosamente e di quando sua sorella l'aveva baciata e l'aveva supplicata di tacere perché i cecchini  erano nella zona e l'aveva stretta a sé così forte da farle mancare il respiro, ma con una tenerezza che ancora oggi ricordava. Tante emozioni scorrevano ora nelle vene di Amal, ma la tristezza prevalse. Non perché doveva morire, no, quello non le faceva affatto paura. Ne aveva passate troppe, ne aveva viste altrettante, nel campo profughi che aveva appena abbandonato, la morte era al suo fianco costantemente. Morivano ogni giorno fratelli, amici, parenti, si era assolutamente abituata al dolore, alla distruzione, alla morte. Era triste perché aveva solo quindici anni e le esperienze più importanti della sua vita non le aveva ancora vissute. Sognava fin dall'età più tenera un matrimonio bellissimo con un uomo che la amava davvero. Ed ora i suoi sogni stavano andando in frantumi. Proprio quando il Dio che pregava cinque volte al giorno dall'età di sei anni li aveva liberati dalle catene del campo profughi, un gruppo di Ebrei aveva distrutto le sue fragili speranze. Ma Amal era forte, anche in quel momento spazzò via i brutti pensieri per continuare a sognare in quel mondo che diventava così buio e così confuso ai suoi occhi. Ripensò a quando suo nonno le aveva regalato la prima thoba da vera donna perché ormai si stava facendo grande, era rosa e blu e l'adorava, la teneva nell'armadio al sicuro e ogni giorno, sul far della sera, si assicurava che non si fosse sgualcita, ricordò della volta che si era dovuta nascondere dentro la botola tra l'armadio e il letto per dieci giorni per non essere colpita dalle bombe che lanciavano più frequentemente del solito gli Ebrei in quel  periodo. Era nascosta assieme ai suoi due fratelli piccoli perché i due maggiori erano a combattere. Aveva così tanta paura che si era messa a piangere quasi da non farsi tornare il respiro, allora i due ragazzini l'avevano stretta in un abbraccio paterno, facendola sentire al sicuro, e Amal si era tranquillizzata. Avevano finto tutti e tre di non sentire le urla, le bombe, gli aerei nemici e tutto il caos che c'era fuori da quelle quattro mura aspettando l'ignoto. Era una bambina sveglia Amal, ed era soprattutto coraggiosa, stava affrontando la morte con il sorriso, ripensando ai pochi momenti belli della sua vita per morire con un'insolita serenità per chi ha sulla pelle anni di prigionia e dolore. Ed eccola lì, nel centro di Jenin con la faccia a terra insieme ad altri cento, colti di sorpresa da un gruppo di soldati israeliani appena dopo la loro liberazione. Che tradimento, che attesa inutile la loro, eppure Amal aveva il sorriso stampato sul volto anche quando il suo cuore cessò di battere.  

 

 

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