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Franco Fedeli da sbirro a tutore della legge 1

Post n°14 pubblicato il 24 Luglio 2012 da cleo111
 

http://www.lavoroculturale.org/spip.php?article272

La Diaz, Franco Fedeli e la polizia democratica. Storia di un fallimento (1)

“passare ad una linea più incisiva, con arresti, per cancellare l’immagine di una polizia rimasta inerte di fronte agli episodi di saccheggi e devastazione”. Dalla sentenza di condanna emessa dalla Corte d’Assise d’Appello di Genova, deposizione di Ansoino Andreassi vice capo della polizia e responsabile dell’ordine pubblico durante il G8, p.67.

Certamente Colucci era piuttosto condizionato dalla presenza dei vertici della polizia; capì che l’intervento era ben gradito, ma ritenendosi da parte di tutti che in effetti sussistessero i presupposti per disporlo, così venne deciso. Dalla sentenza di condanna emessa dalla Corte d’Assise d’Appello di Genova, p.91.

Gli ufficiali e gli agenti della polizia giudiziaria, che abbiano notizia, anche se per indizio, della esistenza, in qualsiasi locale pubblico o privato o in qualsiasi abitazione, di armi, munizioni o materie esplodenti, non denunciate o non consegnate o comunque abusivamente detenute, procedono immediatamente a perquisizione e sequestro. art. 41 R.D. 18 giugno 1931 n. 773 (TULPS): perquisizione ad iniziativa autonoma.

 

0- poliziotti e operai

Franco Fedeli era un giornalista che si occupava di polizia. Intorno alla metà degli anni settanta riuscì (cercherò in seguito di raccontare come) nella strana impresa di mettere insieme gruppi di poliziotti e operai metalmeccanici della FIOM, all’epoca protagonisti di scontri quasi quotidiani, che si riunivano di nascosto, come carbonari, nelle sezioni, nelle chiese, nelle case private. Parlavano del loro lavoro, del loro essere lavoratori, discutevano e si interrogavano sul ruolo della polizia in una democrazia costituzionale fondata sulla resistenza. Sulle strategie della repressione, sugli scontri, sui picchetti, sugli orari di lavoro. Spesso poliziotti e metalmeccanici si ritrovavano a parlare la stessa lingua, i dialetti del sud, e confrontavano e riconoscevano la biografia contadina delle rispettive famiglie. Alla fine degli anni settanta sui circa settantamila poliziotti presenti in Italia più della metà si sollevarono contro propri superiori perché volevano un sindacato. Un sindacato costituente che non fosse corporativo, che fosse legato strutturalmente alle organizzazioni dei lavoratori (l’allora federazione unitaria CGIL-CISL-UIL) e che avesse tre obiettivi principali: la smilitarizzazione del corpo e la sua defascistizzazione, la parificazione dei diritti degli altri lavoratori, escluso quello di sciopero, il riallacciamento alla società democratica contro le pratiche di governo che li aveva intesi e strutturati come corpi separati dello stato.

Quel progetto riuscito parzialmente con la legge 181 del 26 aprile 1981 che era iniziato con le riunioni carbonare prima solo fra poliziotti e poi anche fra poliziotti e operai,subì attacchi reazionari e fu succube di strategie del silenzio – dall’interno e dall’esterno della polizia – fin da subito. Ma la mobilitazione che produsse quella legge fu ancora più importante della legge stessa: produsse esperienze di resistenza in alcuni luoghi – commissariati, caserme, scuole di polizia, carceri – fino a quel momento presidi inattingibili del segreto, della gerarchia, dell’opacità pubblica.

Ciò che accadde alla scuola Diaz, esattamente vent’anni dopo non fu certo la prima ma forse la più esplicita prova di un fallimento. Eppure, forse, nella polizia ancora qualcosa, anche se debolmente, si muove.

Gli interventi che seguiranno a partire da oggi hanno come obiettivo quello di tentare uno sguardo storico su alcuni aspetti problematici relativi al rapporto fra polizia e società in Italia, alla luce del film di Vicari e di una frase riportata da Marcello Zinola in un suo libro importantissimo e pronunciata in senso autocritco da una poliziotta genovese riferendosi ai fatti del g8 2001:“ci siamo scoperti diversi da quello che credevamo”. [1]

1- il film, ovvero il suo contesto

Dopo undici anni dal G8 di Genova il cinema italiano prova ad interrogarsi su quello che le centinaia di telecamere delle televisioni locali, nazionali, internazionali, amatoriali e della controinformazione militante non hanno potuto documentare. I fatti accaduti all’interno delle scuole Diaz-Pertini e Pascoli e nella caserma genovese Bolzaneto fra la sera del 21 Luglio 2001 e la mattina del 22. Due interni fisicamente chiusi ma molto diversi tra loro. Una scuola, utilizzata come dormitorio dall’organizzazione del Genoa Social Forum (insieme alla Pascoli, centro logistico e di documentazione) e una caserma, la Genova-Bolzaneto a pochi chilometri dalla città, che era stata adibita a centro di identificazione dei fermati nel periodo del G8.

Il film di Vicari “Diaz. Don’t clean up this blood” prodotto da Fandango e uscito più di un messe fa nelle sale, prova ad entrare in quei luoghi chiusi servendosi delle testimonianze dirette dei presenti quella notte nella scuola genovese, ma soprattutto degli atti processuali e dei risultati dei lunghi interrogatori della magistratura e, infine, delle sentenze di primo e secondo grado che attendono di essere confermate o smentite dalla Cassazione a metà del giugno di quest’anno. Attraverso queste fonti il regista mette in scena l’essenziale raccordo fra le immagini di repertorio (l’entrata a “testuggine” dei poliziotti nella scuola e l’uscita in barella dei feriti) e quelle di ricostruzione finzionale (gli accadimenti interni alla scuola). Questo dialogo fra archivio e ricostruzione oltre a produrre un effetto di veridicità, di conferma reciproca delle immagini è, a mio parere, anche un indizio del posizionamento che intende assumere Vicari. La ricostruzione del passato infatti è per definizione incompleta, lacunosa e opaca, per questo la narrazione assume un’importante significato di integrazione e di possibilità. Ciò, sia chiaro, non perché il regno della possibilità e della narrazione (in questo caso filmica) siano agli antipodi da quello della prova, [2] del documento video inoppugnabile. Non deve ingannare l’uso che facciamo del termine finzione. La compresenza del ricostruito e del certo non hanno nel film di Vicari un intento conciliatorio (potrebbe essere accaduto come no), semmai un invito alla ricerca dubbiosa ma incessante della verità: un tentativo di decostruzione delle opacità e delle lacune presentate dall’archivio, dalle fonti a disposizione. Aggiungo che parte essenziale della ricostruzione non è solo affermare l’esistenza di opacità strutturali, date dalla natura limitata di ogni fonte ma anche smascherare i responsabili delle opacità volontarie.

 
 
 
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