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questo continuare a cercarsi

 dove l’altro smette.

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Senza alcuna richiesta

 

 

 

Sensibilità tenerezza ardore

sono collegate al cuore

Talvolta arrecano lacrime e dolore.

Ma si è vivi nella sofferenza

e morti nell’indifferenza.

Sunny_Poems

 

 
Creato da: fabiana.giallosole il 18/02/2012
COPDUS - Coordinamento Provinciale Docenti Utilizzati di Sassari

Messaggi del 18/04/2014

 

Dispersione

Post n°2807 pubblicato il 18 Aprile 2014 da fabiana.giallosole
 

 

Da “OrizzonteScuola”


Dispersione scolastica. VII Commissione: "Italia investe poco", estendere misure ai BES e potenziare "anagrafe studenti"


red - Il 16 aprile la 7a Commissione della Camera ha deliberato lo svolgimento di un’Indagine conoscitiva sulle strategie per contrastare la dispersione scolastica. Vi riportiamo la parte relativa alle azioni di contrasto attualmente in atto e le prospettive di intervento.

Azioni di contrasto

Per contrastare la dispersione, il modello adottato dalla scuola italiana ruota intorno all’obiettivo dell’inclusione, così come dichiarato nella 53 del 2003, a partire dall’innalzamento legge n. dell’obbligo di 296 del istruzione/formazione a 16 anni (legge n. 2006) e dal diritto-dovere di istruzione e formazione. Si ricorda, infatti, che nell’attuale ordinamento italiano l’obbligo di istruzione riguarda la fascia di età compresa tra i 6 ed i 16 anni e viene assolto con la frequenza del primo ciclo di istruzione e dei primi due anni di scuola secondaria di secondo grado o, in alternativa, con percorsi di formazione professionale sviluppati dalle Regioni o dagli Istituti professionali.

Dopo i 16 anni sussiste l’obbligo formativo, come definito dal decreto 76, all’ legislativo 15 aprile 2005, n.articolo 1, concepito come «diritto-dovere all’istruzione e alla formazione sino al conseguimento di una qualifica di durata almeno triennale entro il diciottesimo anno di età». L’obbligo formativo può essere assolto terminando la scuola superiore fino al conseguimento del diploma, frequentando, dopo il primo biennio di scuola superiore, un corso professionale per il raggiungimento della qualifica e, infine, lavorando con un contratto di apprendistato o altro tipo di contratto che preveda comunque la frequenza di attività formative esterne 167 all’azienda, come indicato dal decreto legislativo n. del 14 settembre 2011 (Testo unico dell’apprendistato).

76 del 2005, in merito al Il citato decreto legislativo n. diritto-dovere all’istruzione e formazione, recava – all’articolo 4 – norme «per la realizzazione di piani di intervento per l’orientamento, la prevenzione ed il recupero degli abbandoni, al fine di assicurare la piena realizzazione del diritto-dovere all’istruzione ed alla formazione, nel rispetto delle competenze attribuite alla regione e agli enti locali per tali attività e per la programmazione dei servizi scolastici e formativi».

Perr quanto riguarda l’integrazione degli immigrati, le linee di indirizzo sono contenute sia nelle «Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione 24 del 2006) sia nel degli alunni stranieri» (Circolare ministeriale n. Documento del MIUR «La via italiana per la scuola interculturale e integrazione degli alunni stranieri» del 2007 in cui sono stati individuati i principi e le strategie per l’inclusione.

Sono stati messi in atto, inoltre, interventi specifici diretti alla scolarizzazione di alunni e studenti immigrati, rom e sinti (fondi per le aree a forte processo migratorio), nonché scuole in carcere o in ospedale.

Tuttavia, la scuola italiana investe poco e in modo residuale contro la dispersione. Il 90 per cento del bilancio è speso in risorse correnti (in particolare retribuzione del personale) e non in innovazione. Il problema centrale non è stato affrontato dalle azioni di contrasto, spesso episodiche e settoriali, oltre che intraprese con scarse risorse.

I principali interventi di carattere generale – di carattere sistemico – svolti contro l’abbandono scolastico negli ultimi anni sono stati realizzati con i Piani Operativi Nazionali (PON). Dal 2002 al 2006 il PON «La scuola per lo sviluppo» ha svolto diverse Azioni contro la dispersione. Nel 2007-2013, nell’ambito dei PON – Obiettivo specifico F – Promuovere il successo scolastico, le pari opportunità e l’inclusione sociale – sono stati investiti 270 milioni di euro (5700 progetti, 450.000 partecipazioni) per le 4 Regioni dell’Area Convergenza (Calabria, Campania, Puglia, Sicilia). Nell’ambito del PAC – Piano di Azione Coesione – Priorità Istruzione dal 2012 è in svolgimento l’AZIONE 3 (circolare 11666 del 31.7.2012) recante «Realizzazione di prototipi di azione educativa in aree di grave esclusione sociale e culturale», dedicata al recupero dei soggetti in difficoltà (42,9 MEuro). La prima tranche del programma ha interessato 30 province e quasi 400 istituti di scuola secondaria di primo e secondo grado. Gli interventi sono finalizzati alla promozione di «esperienze positive di prevenzione e contrasto della dispersione scolastica e formativa, che potranno essere diffusi come modello di intervento, prototipi, per tutte le istituzioni scolastiche.» Oltre al metodo per prototipi, la misura si caratterizza per l’approccio «multi-attore», cioè reti di scuole e privato sociale.

Elemento distintivo dell’azione dei PON è la costituzione di reti, nelle quali operano, in una logica sinergica e di integrazione, «i diversi attori presenti nei singoli territori, rappresentati non solo dalle scuole, ma anche da altre agenzie educative e sociali che partecipano attivamente alla realizzazione del progetto come «comunità educante».

È evidente come sia necessario seguire e valutare tali ingenti misure di sostegno. A questo scopo, sono stati istituiti presso il MIUR il Comitato di coordinamento e supporto delle reti scolastiche, ed è stato avviata la procedura per la valutazione indipendente delle attività realizzate.

Una valutazione sui rendimenti dei partecipanti ai PON, svolta nel 2007 (MIUR, La ricerca continua. La dispersione scolastica nelle regioni del Mezzogiorno d’Italia: l’esperienza dei PON, 2007) ha, però, dato risultati non all’altezza delle aspettative sia per i dati sulle promozioni, che sulle votazioni e sulle assenze, dimostrando che sono necessari tempi lunghi e cambiamenti profondi per vedere effetti delle azioni intraprese, spesso estemporanee e frammentarie. Appare prioritario, quindi, acquisire una puntuale e specifica valutazione degli interventi già svolti per verificarne l’impatto, individuare le migliori pratiche e i punti di forza delle azioni messe in atto.

Nell’ambito dell’autonomia delle scuole, inoltre, gli istituti possono organizzare, all’interno della quota «libera» del curricolo, iniziative di sostegno, recupero e orientamento, oltre che programmi e interventi da finanziare con il Fondo permanente per il Miglioramento dell’Offerta Formativa. Nel corso degli ultimi anni, tuttavia, il predetto MOF e il FIS – Fondo di istituto sono diminuiti (si veda, ad esempio, il problema del pagamento degli scatti stipendiali degli insegnanti attraverso il MOF).

Nella XVII legislatura, nell’ambito di attuazione di politiche in linea con le predette raccomandazioni europee, il Parlamento ha approvato la conversione del decreto-legge 12 settembre 2013, n.104 (convertito, con 128 del 2013), modificazioni, dalla legge n. contenente misure di spesa per 15 milioni di euro (3,6 milioni per il 2013 e 11,4 milioni per il 2014), volte a prevenire la dispersione scolastica. L’articolo 7 del predetto decreto-legge prevede un programma di didattica integrativa che contempla, tra l’altro, ove possibile, il prolungamento dell’orario scolastico per gruppi di studenti, il rafforzamento delle competenze di base e l’individualizzazione dei percorsi. Il programma è rivolto a scuole di ogni ordine e grado, nella prospettiva Pag. 161della prevenzione degli abbandoni, concentrati soprattutto nella scuola secondaria di secondo grado.

Il relativo decreto ministeriale attuativo prot. 87 del 7 febbraio 2014, in attuazione del citato articolo 7, recante misure in materia di apertura delle scuole e prevenzione della dispersione scolastica, ha avviato i bandi per le reti di scuole che intendono partecipare al progetto. I moduli base prevedono due modalità di intervento: azioni per piccoli gruppi di studenti cui dedicare percorsi di recupero, individuati in base a indicatori di rischio di evasione, e laboratori/attività per tutto l’istituto, di tipo artistico, culturale e ricreativo.

Per quanto riguarda l’inclusione e l’integrazione dei figli degli immigrati, si sono messi in atto – in questi anni – numerosi interventi e soluzioni adottate per ridurre il gap linguistico e culturale. Anche di queste misure andrebbero valutati gli esiti e gli effetti, che consistono nell’utilizzo di personale specializzato nell’insegnamento della cosiddetta L2, uso di mediatori, didattiche integrative, progetti interculturali e laboratori linguistici di transizione. Occorre, però, distinguere tra interventi volti a prevenire lo svantaggio tra i minori arrivati dall’estero e quelli di seconda generazione, che non sono interamente sovrapponibili. In ogni caso, la scuola italiana necessita di misure strutturali e continue, al di là dell’emergenza e del «fai-da-te» operato dalle singole scuole.

Prospettive di intervento

In sintesi, nonostante le numerose iniziative avviate, il problema della mancata valorizzazione di quell’immenso capitale umano, che è la formazione dei giovani, risente di una carenza di decisione e progettualità da parte delle forze politiche e dell’istituzione, oltre che una forte resistenza a mettere in questione il modello curricolare tradizionale e gli stili professionali consolidati. Si pone la necessità, quindi, di sviluppare strategie che consentano di intercettare il disagio, e che riescano a ri-orientare lo studente verso percorsi di istruzione e formazione idonei alle proprie attitudini, prevenendo, così, sia la dispersione scolastica che l’insuccesso nell’età universitaria e migliorando sensibilmente la capacità di ingresso nel mondo del lavoro.

Gli indirizzi forniti dall’Amministrazione del MIUR per abbattere la dispersione scolastica (audizione del sottosegretario Marco Rossi Doria del 22 gennaio 2014), in diminuzione nel tempo, ma non in misura sufficiente, consistono in tre linee di azione:

  1. costanza nel tempo delle azioni e coordinamento tra i promotori delle politiche, nonché valutazione dei risultati;
  2. approccio basato sulle competenze di base e personalizzazione degli apprendimenti;
  3. alleanze tra scuola, territorio, famiglia, agenzie educative.

L’indagine conoscitiva che si intende avviare ha lo scopo di verificare se i processi avviati dalle istituzioni e le stesse azioni previste dal citato 104 del 2013 (nonché dal decreto-legge n. 87 del decreto ministeriale n. 2014), corrispondano a tali indirizzi e indicatori di qualità, assumendo, in particolare, la prevenzione e il recupero della dispersione come obiettivo specifico; è infatti evidente il rischio che i finanziamenti per azioni mirate alla dispersione vengano, invece, utilizzati per azioni di carattere generale, di finanziamento alle attività ordinarie, nonché estemporanee.

In questo quadro, due sono i princìpi ispiratori delle azioni di contrasto alla dispersione scolastica da considerare con attenzione. Il primo è la prevenzione precoce degli abbandoni; il secondo è un approccio integrato che considera la scuola all’interno di un insieme di reti, quali la famiglia, l’associazionismo, il mondo del lavoro.

Per quanto riguarda il primo, occorre migliorare i dati e le informazioni utili per intervenire tempestivamente sul capitale umano del nostro Paese; in questo senso, un elemento importante di contrasto riguarda l’integrazione dell’anagrafe nazionale degli studenti (istituita con il decreto legislativo 76 del 2005) con n. le anagrafi regionali nel sistema nazionale delle anagrafi studentesche (già prevista dalla normativa vigente, in base alla 179 del 2012, 221 del 2012, di conversione del decreto-legge n. legge n. ma non ancora attuata) prevista dall’articolo 13 del decreto-legge 104 del n. 2013.

Emerge come particolarmente utile la costituzione presso gli USR (uffici scolastici regionali) di gruppi di controllo e monitoraggio del fenomeno delle assenze saltuarie. Si tratta di rendere obbligatoria la rilevazione delle assenze, con conseguente comunicazione periodica al gruppo di ricerca come strumento fondamentale per la prevenzione.

Al fine di avere una conoscenza tempestiva della situazione sulla dispersione scolastica ed il rischio di abbandono degli studi, è necessario proseguire in tale lavoro di miglioramento del sistema Anagrafe nazionale degli studenti, che non fornisce una mera elencazione degli alunni frequentanti, ma – per ogni singola istituzione scolastica – presenta l’esatta composizione delle classi, con l’indicazione nominativa degli alunni frequentanti; indicando inoltre il tempo scuola presente e l’indirizzo di studio, con il relativo carico orario settimanale per ciascun percorso di scuola secondaria di secondo grado.

La suddetta Anagrafe nazionale degli studenti costituisce un efficace strumento di contrasto alla dispersione scolastica fino al compimento dei 14 anni, età nella quale è possibile per lo studente iniziare un percorso formativo professionale. Si tratta di una vera e propria banca dati, che permette di intervenire tempestivamente sul fenomeno dell’abbandono degli studi, in quanto le scuole sono chiamate ad intervenire in tempo reale sull’anagrafe, segnalando la reale frequenza o l’abbandono dei ragazzi iscritti nel proprio istituto. In questo quadro assume una particolare importanza la scuola dell’infanzia, come luogo di formazione precoce che permette di acquisire le competenze di base necessarie per il successivo successo formativo. La frequenza regolare, la diffusione (e l’eventuale considerazione dell’obbligo di tale opportunità formativa) vanno inquadrati nell’ambito della prevenzione dello svantaggio scolastico.

Va inoltre analizzato e approfondito il coordinameno tra tali tipi di misure e quelle previste dalla recente normativa sui cosiddetti BES – Bisogni educativi speciali (Direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012 »Strumenti di intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica»). Accanto ai disturbi di apprendimento specifici e alla disabilità, i BES comprendono anche «lo svantaggio sociale e culturale e le difficoltà derivanti dalla non conoscenza della cultura e della lingua italiana perché appartenenti a culture diverse». Si indica, così, una vasta area di alunni per i quali va applicato in modo particolare il principio della personalizzazione 53 del 2003, e che rientrano dell’insegnamento, sancito dalla legge n. tra gli alunni/studenti a rischio di dispersione. È evidente che i due campi di azione dovrebbero essere coordinati anziché procedere in modo parallelo.

Un approccio integrato alla dispersione deve permettere di potenziare tutte le forme di prevenzione del disagio e di sperimentazioni di innovazioni didattiche che riavvicinino i giovani alla scuola. In questo senso sono da valorizzare i partenariati e le collaborazioni tra gli enti locali e le istituzioni scolastiche a tutti i livelli, in una cooperazione anche con il mondo del terzo settore e del volontariato, che possano rendere efficace un comune sforzo nell’aiutare le giovani generazioni a portare a termine – con successo – il loro percorso formativo.

Le sperimentazioni più efficaci nascono dalla consapevolezza che la scuola, da sola, non basta ad affrontare il fenomeno, sia per la scarsità di risorse in continuo calo, sia per le cause esterne alla scuola stessa. Un nuovo modello di governo riguarda il livello territoriale, come avviene in varie regioni come la Lombardia, dove cooperano le province, i Centri di formazione professionale, i Centri per l’impiego e così via.

 

 
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Bibloteche Scolastiche

Post n°2806 pubblicato il 18 Aprile 2014 da fabiana.giallosole
 

Da "Docenti Inidonei e +"


 Utilità delle Biblioteche Scolastiche nella lotta contro la dispersione scolastica.


 

Finalmente ci siamo!!! Il 16 aprile la 7a Commissione della Camera ha deliberato lo svolgimento di un’Indagine conoscitiva sulle strategie per contrastare la dispersione scolastica.

In merito a quest’ultima,la Commissione Cultura afferma che:  “l’Italia investe poco” e che sarebbe opportuno estendere misure ai BES e potenziare "anagrafe studenti".

E’ risaputo che il decreto ministeriale attuativo prot. 87 del 7 febbraio 2014, “in attuazione dell’art.7, recante misure in materia di apertura delle scuole e prevenzione della dispersione scolastica” , ha avviato i bandi per le reti di scuole che intendono partecipare al progetto".

Contempla l’esistenza di moduli base che prevedono due modalità di intervento: azioni indirizzate a piccoli gruppi di studenti ai quali dedicare percorsi di recupero, e laboratori/attività per tutto l’istituto, di tipo artistico, culturale e ricreativo.

Allora, dopo tanto penare, FINALMENTE, nell’ambito dell’attuazione dei laboratori/attività,si deciderà di tenere nella giusta considerazione l’UTILITA’ delle Biblioteche Scolastiche e le stesse saranno riconosciute come il primo mezzo adatto a contrastare, A COSTO ZERO, la dispersione scolastica?

Le biblioteche scolastiche sono e possono essere utilizzate ulteriormente nei progetti contro la dispersione scolastica e nelle iniziative culturali. Ciò è possibile grazie alla professionalità di chi vi opera, alle competenze acquisite dal personalei , (ottenute grazie ai corsi di formazione organizzati dal MIUR e frequentati dai Docenti idonei ad altri compiti) ,al buon rapporto con gli utenti  nonché alla buona dotazione di volumi posseduta.

Attualmente le biblioteche scolastiche sono gestite da docenti che per problemi di salute hanno chiesto di essere utilizzati in questa attività, garantendo un servizio di trentasei ore settimanali cioè  un apertura quotidiana per 6 giorni alla settimana. .

Purtroppo negli  ultimi quattro anni  c’è stato il tentativo di trasferimento coatto dei docenti bibliotecari in altre amministrazioni o in settori amministrativi delle istituzioni scolastiche .

Tale tentativo  ha creato un grave clima di incertezza tra i docenti utilizzati che ha impedito loro di svolgere il proprio lavoro con la necessaria serenità e rendendo precaria la loro condizione professionale.

Dopo una dura lotta sindacale,sostenuti eslusivamente dai COBAS, i docenti bibliotecari sono stati confermati nel loro utilizzo sino al 2016 ,ma, tra tre anni ,è  prevista la loro messa in  mobilità verso altre amministrazioni con la conseguenza di disperdere la professionalità acquisita.

A questo punto è indispensabile che i politici, la Commissione Cultura ed il MIUR rivalutino l’operato dei Docenti Utilizzati in altri compiti.
Ricordiamo a tutti loro che gli alunni frequentano regolarmente le biblioteche scolastiche ed accedono ai servizi offerti ossia:
1 - prestiti brevi Dizionari
2-  prestiti testi di narrativa e di approfondimento delle varie discipline facenti parte del corso di studio
3- ricerche online attinenti alle materie di studio
 4- consultazione libri e riviste , consigli sulle tesine oggetto di discussione nell'ambito dell'esame di stato,
5-laboratori di lettura, scrittura; studio
6- fruizione del prestito dei testi scolastici in comodato d'uso

7- lettura e prestito delle riviste facenti parte delle emeroteche delle scuole

.8- incontri con scrittori

Le biblioteche sono un punto di riferimento costante per gli alunni.

I Docenti Idonei ad altri compiti utilizzati nella loro gestione  propongono nel corso dell’anno vari progetti finalizzati al conseguimento di vari obiettivi tutti mirati a contrastare la dispersione scolastica ;

-Incrementare l'interesse e l'attenzione degli alunni nei confronti della lettura e della scrittura

- favorire la socializzazione tra gli studenti

- Far conoscere agli studenti i vari reparti delle Biblioteche

- Fornire informazioni sul sistema di classificazione usato"

- Apprendere le modalità di consultazione dell'OPAC  (catalogo online)

Tali progetti sono a costo zero, contrastano nel modo migliore la dispersione scolastica e consentono agli alunni di approfondire la loro cultura rendendoli protagonisti di un programma nel quale possono esprimersi e mettere in luce le loro capacità.

 

Coordinamento Provinciale Docenti Utilizzati Sassari

 
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GIANNINI

Post n°2805 pubblicato il 18 Aprile 2014 da fabiana.giallosole
 

Da “Tuttoscuola”


Giannini, bene se alcuni insegnanti guadagnano di più


“Se si da più autonomia alle scuole, se si fa più valutazione, c’è la possibilità - ha spiegato - di distribuire le risorse in maniera differenziata, valorizzando chi si impegna di più, chi assume funzioni di coordinamento.

"Mi augurerei che alcuni insegnanti guadagnino di più. Se si guarda al merito e all'impegno e lo si traduce in riconoscimento sociale ed economico questo significa ridare dignità e attrattività a un mestiere che le ha perse". In una video-chat su la Stampa.it il ministro dell'Istruzione, Stefania Giannini, torna a insistere sulla necessità di ridare centralità alla figura dell'insegnante.

Se si da più autonomia alle scuole, se si fa più valutazione, c’è la possibilità - ha spiegato - di distribuire le risorse in maniera differenziata, valorizzando chi si impegna di più, chi assume funzioni di coordinamento. Perchè insegnare non è solo questione di talento, ma di impegno e di lavoro costante”.

Insomma anche Stefania Giannini ci prova, dopo Berlinguer (centro-sinistra, che ci rimise la poltrona di ministro), Moratti (centro-destra, il cui insegnante-tutor fu stoppato dai sindacati) e Aprea (che esplorò senza successo, in Parlamento, la via bipartisan). Vedremo se in una situazione di sostanziale blocco della spesa pubblica, di cui quella per l’istruzione è parte preponderante, ci sarà spazio – politico, economico e sindacale – per riaprire il discorso, come Giannini promette.

 
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Una squadra

Post n°2804 pubblicato il 18 Aprile 2014 da fabiana.giallosole
 

Da "La ricerca"


Una squadra fortissimi


Sperereste di essere reclutati da un coach catenacciaro, gioco a zona o calcio-champagne? Da un allenatore ruvido ed intransigente o da un fine psicologo, che saprà come farvi dare il meglio di voi stessi? Conte o Guardiola?

Marina Boscaino 

Qualche giorno fa il ministro dell’Istruzione Giannini è ritornata sul tema del reclutamento dei docenti, auspicando la chiamata diretta da parte dei dirigenti. Lo ha fatto nel consueto linguaggio informale – per molti inopportuno – che caratterizza lo stile comunicativo della nuova compagine governativa: il dirigente scolastico deve “potersi scegliere la propria squadra”. Si tratta di un tema delicato, sul quale sarebbe il caso di riflettere con minore velocità e maggiore ponderatezza.

All’ipotesi si oppone, innanzitutto, l’art. 97 della Costituzione, che al comma 3 recita: “Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”. La ventata di tendenza privatistica, allargata anche alla scuola pubblica; la perdita progressiva del principio di scuola come istituzione dello Stato, a vantaggio di quello di scuola come agenzia di servizi, non devono far dimenticare che il concorso pubblico – senza dubbio perfettibile, in alcuni casi inficiato dall’italica propensione al malcostume o da errori – è non solo garanzia del principio di pari opportunità nel reclutamento; ma anche di pari opportunità per il diritto all’apprendimento degli studenti. Nonché del fatto che, tra i principali strumenti che lo Stato ha a disposizione per configurare il principio di uguaglianza (comma 2 dell’art. 3 della Carta: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”), c’è anche e soprattutto la scuola pubblica. La scuola, cioè, come strumento di emancipazione da destini socio economici determinati dalla nascita, come “ascensore sociale” che permette di migliorare se stessi e se stessi all’interno della società attraverso la cultura, poggia la propria ragione di essere e interpreta la propria funzione nell’ambito di un sistema nazionale di istruzione che, nelle sue componenti fondamentali,  deve contemplare ordinamenti generali e procedure  condivise da Sondrio a Lampedusa.

Ciò detto, è noto che i fan della “chiamata diretta” sono stati molteplici. Tra questi una delle massime sostenitrici è stata Valentina Aprea, un tempo presidente della Commissione Cultura della Camera dei Deputati in quota Forza Italia-Popolo della Libertà, ora assessore della Regione Lombardia. Aprea aveva già dichiarato tale sua preferenza  nel 2008, nell’ambito del suo indimenticabile omonimo disegno di legge, che ha avuto l’indubitabile pregio di raccogliere un tale livello di dissenso da creare una mobilitazione permanente, contraria anche ai ritocchi che, nel tempo, furono apportati al progetto originario (la cosiddetta Aprea-Ghizzoni). Divenuta assessore per l’istruzione alla Regione Lombardia, 2 anni fu tra gli ideatori della legge Regione Lombardia n. 7 del 18 aprile 2012 “Misure per la crescita, lo sviluppo e l’occupazione”. Ecco il testo dell’art. 8: “Al fine di realizzare l’incrocio diretto tra domanda delle istituzioni scolastiche autonome e l’offerta professionale dei docenti le istituzioni scolastiche statali possono organizzare concorsi differenziati a seconda del ciclo di studi per reclutare il personale docente con incarico annuale. E’ ammesso a partecipare alla selezione il personale docente del comparto scuola iscritto nelle graduatorie provinciali fino ad esaurimento’‘. Di cosa si trattava? Della possibilità per gli istituti scolastici di formare proprie graduatorie interne – indipendenti dai punteggi attribuiti ai singoli insegnanti in quelle provinciali – dalle quali attingere per i contratti ai supplenti. Una visione soft della chiamata diretta, pur sempre svincolata da criteri uguali e garantiti per tutti. La legge fu impugnata dal Consiglio dei Ministri presso la Corte Costituzionale per violazione dei principi fondamentali in materia d’istruzione, dal momento che un intervento sul reclutamento dei docenti "eccede dalle competenze regionali" (secondo l’art. 117 della Costituzione) e quindi sarebbe incostituzionale. La Corte accolse il ricorso e cassò la legge.

L’Aprea (“consentire alle scuole di scegliere gli insegnanti è un dovere che abbiamo nei confronti dei nostri cittadini”) sostenne che l’obiettivo della legge era “rafforzare le autonomie scolastiche anche sul piano della responsabilità della scelta dei docenti. Nello stesso tempo, punta a ridurre il rischio di mancanza di continuità didattica legato alla percentuale di supplenti annuali”. In realtà essa avrebbe consentito di ignorare graduatorie e diritti acquisiti, segnando un fatale passo avanti da una parte verso una visione privatistica della scuola della Repubblica, dall’altra dando il via ad un reclutamento basato su cordate, interpretazioni soggettive, conoscenze, segnalazioni, improprie intromissioni e selezioni opinabili (ipoteticamente: adesione sindacale, provenienza regionale, stile didattico, laicità o confessionalità e così via). Un’insidia, in linea più generale, a due principi costituzionali: quello di laicità e quello della libertà di insegnamento.

È tanto tempo che ho smesso di professare la religione “insegnanti, tutta brava gente”. Ho dismesso quella lettura un po’ romantica, un po’ utopica che, nei primi tempi della mia collaborazione su quotidiani (risalente ormai a quasi 15 anni fa), mi sembrava il modo più efficace per esigere quel rispetto che sentivo molti di noi meritano non solo per la passione e l’impegno con cui mettiamo a disposizione le nostre competenze, ma anche per la funzione – semplicemente – che abbiamo deciso di svolgere all’interno della società: la più politica, nel senso letterale del termine, se pensiamo al concetto di cittadinanza. Quella le cui prerogative sono scandite limpidamente e semplicemente dalla nostra Costituzione. A poco a poco ho cambiato parere. E mi sono accorta che l’abbassamento dei livelli di competenze, i salari con un potere d’acquisto sempre più avvilente, lo scarso investimento sul ruolo del docente e sulla scuola pubblica che ha – trasversalmente, purtroppo – scandito le politiche scolastiche degli ultimi lustri, hanno avuto effetti negativi sulla motivazione di molti. Il disagio cresce quotidianamente, e si concretizza persino nella scelta di alcuni di fare dell’insegnamento la sinecura che garantisca di portare a casa uno stipendio con uno sforzo a basso costo.

D’altro canto, di persone serie – è sotto gli occhi di tutti – ce ne sono molte in giro. Questo lo sanno benissimo anche gli sconsiderati cantori dell’epica del “fannullonismo”, che a più riprese sono intervenute su temi quali reclutamento, valutazione, premialità. La perdita di una funzione culturale e di uno statuto sociale dei docenti di una società che si alimenta di ben altri miti, sono sintetizzati da due estremi, altrettanto demagogici e occhieggianti a consensi opposti, che danno in maniera analoga il senso di una professione che non riesce più a trovare una collocazione significativa all’interno di questa società: da una parte la glorificazione – a salario fermo e contratto bloccato da tanti anni – di coloro che ci hanno chiamato e ci chiamano eroi; dall’altra la ventata di strategie diffamatorie dell’intera categoria degli insegnanti – inaugurata da alcuni interventi sui più importanti quotidiani di economisti editorialisti come Ichino, Panebianco, Giavazzi – che sono alla base di un’asfittica e punitiva visione della valutazione e di una premialità legata a criteri fluttuanti, lontani anni luce da ciò che si deve sapere e saper fare per interpretare dignitosamente ed efficacemente la nostra professione. Spesso inconsapevoli di ciò che la scuola è, nella sostanza. O ansiosi di giustapporre al “luogo scuola” – con le sue particolarità e specificità – i limiti angusti, e ad esso incoerenti, delle realtà aziendali.

Si tratta di due rappresentazioni che denunciano la perdita di contatto tra la società e chi continua a svolgere questo lavoro con passione e responsabilità: tantissimi, nonostante tutto. In questo smarrimento del senso, in questo patto infranto – quel patto che ha consentito cooperazione, idem sentire, condivisione tra il dentro e il fuori della scuola, negli anni che hanno reso solide le basi della nostra democrazia – gli insegnanti oscillano tra una sfiduciata dismissione culturale e relazionale, che accompagna quella sociale; e un ostinato esercizio della vocazione missionaria che molti di noi hanno; quella vocazione che ha consentito  alla scuola di andare avanti comunque, tentando di tamponare e di neutralizzare i danni che gli strateghi delle politiche dell’istruzione producevano impunemente.

Nessuno dei nostri politici ha pagato il conto di errori marchiani (l’abbassamento dell’obbligo scolastico, la diminuzione drammatica delle competenze di lettoscrittura nei quindicenni scolarizzati nel nostro Paese, ad esempio), di scoop ad uso della stampa che si sono tradotti in nulla o – peggio – in operazioni opinabili (la geostoria, il portfolio, il tempo pieno ridotto da diritto a fortunata opportunità, la politica della “semplificazione”). A nessuno è stato presentato il conto di cambiamenti continui – traumatici o a colpi di “cacciavite” – che la scuola ha subito protestando o no, ma troppo spesso sostituendo all’opposizione e alla condivisione della resistenza l’adattamento (responsabile o di comodo) alle novità. Le responsabilità sono fluttuanti: non sappiamo o preferiamo non assegnare a nomi e cognomi, per chiedere ragione delle continue bizzarrie (che di pedagogico – da qualsiasi parte politica siano provenute – non hanno nulla) alle quali, con camaleontico spirito da bricoleur, siamo stati addestrati ad adeguarci.

In questo contesto si inserisce l’insistenza sul tema della chiamata diretta. Inopportuno, dunque, sia dal punto di vista normativo che delle condizioni concrete. Quali sarebbero i criteri che garantiranno identiche condizioni di accesso? Quali le caratteristiche dei profili più richiesti? Per quali motivi gli istituti scolastici meno rinomati (e dunque meno ambiti), già caratterizzati da una popolazione studentesca svantaggiata, dalla localizzazione in zone marginali, dovrebbero – come è ovvio e fisiologico che sia – accontentarsi dei docenti meno titolati, meno referenziati dal punto di vista culturale – ampliando così i margini di svantaggio già esistenti?  Come si misura la capacità di relazione e di cura che un insegnante è in grado di sviluppare? Qual è il vantaggio di amplificare il gap che già esiste tra zone del Paese e – nell’ambito del Paese – tra scuola e scuola? Queste e tante altre le domande.

Le dichiarazioni di Giannini sono in linea con quanto il non ancora premier Renzi affermò circa un anno fa nel programma con cui si candidò alle primarie del centrosinistra, “Una scuola in cui si impara davvero”: al centro l’autonomia, ampia, “anche riguardo alla selezione del personale didattico e amministrativo, con una piena responsabilizzazione dei rispettivi vertici e il corrispondente pieno recupero da parte loro delle prerogative programmatorie e dirigenziali necessarie”.

La scuola, però, non è una squadra. La scuola è il luogo aperto a tutti dove tutti i giovani hanno l’identico diritto – ovunque e in qualsiasi situazione siano nati – di provare a diventare donne e uomini, cittadini consapevoli; di emanciparsi attraverso la cultura; di conquistare pensiero critico e migliorare se stessi; di gettare basi solide rispetto a ciò che saranno in futuro. Di imparare, per capire e per capirsi, e per esistere in maniera tanto più dignitosa quanto più quello – la scuola – sarà stato l’unico luogo in cui saranno entrati in contatto con cultura e pensiero emancipante.

Per questo l’unitarietà del sistema scolastico nazionale è un principio da difendere senza se e senza ma.

 
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TASSE UNIVERSITARIE

Post n°2803 pubblicato il 18 Aprile 2014 da fabiana.giallosole
 

Da “Roars”


Tasse universitarie ed austerità


Di Armanda Cetrulo

 

L’Italia è ultima in Europa per laureati, questo il verdetto di Eurostat. Un dato incontrovertibile, ma divergono le spiegazioni. Le quali non possono prescindere dalla valutazione comparativa dei costi che ricadono sugli studenti

L’Italia è ultima in Europa per laureati, questo il verdetto di Eurostat. Un dato incontrovertibile, ma divergono le spiegazioni. Le quali non possono prescindere dalla valutazione comparativa dei costi che ricadono sugli studenti e le famiglie. Questo articolo di Armanda Cetrulo, pubblicato originariamente su Young Voices of Europe, evidenzia le disparità delle politiche per l’istruzione messe in atto dai paesi del Sud-Est Europa rispetto a quelli del Nord Europa. L’Italia, che staziona a fondo classifica per le borse di studio, presenta un aumento del 63% delle tasse universitarie negli ultimi 10 anni. Con queste premesse, diventa più facile spiegarsi la la maglia nera per numero di laureati.

L’ultimo report della Commissione Europea sui sistemi nazionali di contribuzione e sostegno per gli studenti universitari mostra chiaramente profonde disparità tra i Paesi Europei, confermando anche in questo caso, una sorta di “divisione” tra i Paesi del Nord Europa e quelli del Sud-Est. Non ci sono infatti tasse universitarie (escluse le spese amministrative) in Danimarca, Germania, Austria, Finlandia e Svezia mentre invece in tutti gli altri Paesi sono previste tasse più (Estonia, Lituania) o meno (Francia) alte.

È interessante notare che non solo le tasse differiscono ma anche il tipo di sostegno finanziario per gli studenti varia senza però riuscire minimamente a colmare le differenze in termini di costi sostenuti dagli studenti. Infatti, gli stessi Paesi che non prevedono tasse universitarie sono anche quelli che forniscono un più ampio supporto, in termini di borse di studio per reddito (need-based grants) e premi per merito (merit grants), come riportato nella tabella qui:

Come risulta chiaro, i Paesi del Sud Europa non sono capaci di garantire borse di studio adeguate per la maggiore parte dei loro studenti e la crisi non ha fatto che peggiorare questo aspetto a causa degli elevati tagli al settore dell’istruzione. In Italia, per esempio, le tasse universitarie sono cresciute del 63% negli ultimi 10 anni e uno degli effetti immediati è rintracciabile nella significativa riduzione di numero di iscrizioni all’università (-17% negli ultimi 10 anni). In Grecia, alcune lezioni universitarie e corsi di laurea sono stati sospesi a causa delle difficoltà finanziarie e della mancanza di risorse necessarie per portare avanti molte attività didattiche. Allo stesso tempo, in Germania le tasse universitarie, che erano state recentemente introdotte, sono state poi velocemente abolite in 15 delle 16 regioni del Paese e anche la Sassonia ne ha previsto l’abolizione per il 2014-2015.

Dietro questo tipo di politiche, ci sono diverse e complesse ragioni che bisognerebbe prendere in considerazione: molti Paesi Nordici presentano un sistema economico completamente diverso con un maggiore livello di imposizione fiscale e un impegno più esplicitamente redistributivo da parte dello Stato, e stanno inoltre attraversando una situazione economica decisamente più favorevole. Resta comunque un aspetto, più teorico ed idealista se vogliamo, che andrebbe analizzato. Dietro queste politiche, c’è infatti una diversa visione della società e del ruolo che l’istruzione e la conoscenza giocano nel determinare e dare forma allo sviluppo di un Paese. Adottare un sistema contributivo che non impone eccessivi oneri e costi per gli studenti, fino a non prevedere tasse e fornire contemporaneamente gli aiuti necessari a chi ne ha bisogno, significa investire nel futuro di un paese, stimolando l’innovazione, il progresso e garantire un’emancipazione personale e collettiva, promuovendo l’uguaglianza. Non è allora una coincidenza che proprio i Paesi che hanno smantellato le università pubbliche registrino anche i più alti tassi di NEET (giovani che non sono impegnati in percorsi formativi o lavorativi).

Nel determinare il dato sui Neet, giocano senza dubbio un ruolo fondamentale l’inarrestabile peggioramento delle condizioni del mercato del lavoro e l’elevato tasso di disoccupazione, ma ciò non basta a catturare pienamente il fenomeno degli inattivi. Tra le giovani generazioni del Sud Europa si sta difondendo un profondo e crescente senso di disillusione e fragilità insieme all’idea pericolosa che alcuni diritti siano troppo “costosi” per essere rivendicati. Oggi, i giovani cittadini europei hanno diritti diversi in termini di educazione, condizioni di lavoro, servizi e possibilità di vita. Questo è un aspetto cruciale che dovrebbe essere richiamato in vista delle prossime elezioni europee se l’obiettivo è quello di risvegliare un senso di identità e cittadinanza europea che sembra oggi profondamente disperso.

Pubblicato originariamente su Young Voices of Europe.

 
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MEDICINA

Post n°2802 pubblicato il 18 Aprile 2014 da fabiana.giallosole
 

Da "Il Corriere della sera"


Medicina, pronto il decreto per le scuola di specializzazione


Il testo è stato trasmesso dal ministero dell’Istruzione al Consiglio di Stato

Concorso nazionale, prova scritta telematica, 110 quesiti a risposta multipla, un massimo di 4 Scuole per cui concorrere. È pronto il decreto per le Scuole di Specializzazione in Medicina che segna il passaggio dalle prove di accesso locali al concorso nazionale. Il testo è stato trasmesso dal Ministero dell’Istruzione al Consiglio di Stato. D’ora in poi per essere ammessi bisognerà dunque superare un concorso nazionale per esami e titoli. La prova scritta sarà telematica, i candidati dovranno rispondere a 110 quesiti a risposta multipla e ciascuni candidato, al momento della domanda di accesso, potrà scegliere complessivamente fino a quattro Scuole, anche appartenenti ad Aree diverse (Medica, Chirurgica, Servizi Clinici). Il bando di concorso per l’anno accademico 2013-2014 sarà emanato entro il mese di luglio. Le prove d’esame si svolgeranno a ottobre, come già annunciato dal Ministro Stefania Giannini. Il bando indicherà i posti disponibili per ciascuna Scuola, i temi che saranno oggetto dei quiz, gli esami fondamentali, caratterizzanti e specifici di cui si terrà conto nella valutazione dei titoli, i criteri di assegnazione del punteggio, il calendario, la durata, le modalità di svolgimento e correzione delle prove d’esame.

Si farà tutto «on line»

Le domande di partecipazione alla selezione si potranno fare solo per via telematica. Il test si svolgerà interamente su Pc, in apposite sedi dotate della necessaria strumentazione e tecnologia. Questa procedura - spiega il ministero - garantisce velocità e massima sicurezza nella fase di svolgimento e correzione. La prova sarà suddivisa in due parti. La prima, comune a tutte le Scuole, prevede 70 domande su argomenti caratterizzanti il corso di laurea di Medicina e Chirurgia. La seconda parte prevede 40 quesiti che serviranno a valutare i candidati rispetto a scenari predefiniti di dati clinici, diagnostici e analitici: di questi 30 saranno comuni a tutte le Scuole inserite in una stessa Area e 10 specifici per ciascuna Scuola. I 10 quesiti specifici avranno un peso maggiore in fase di correzione: ogni risposta esatta varrà 2 punti anziché 1 e ogni risposta errata -0,60 anziché -0,30. Ai titoli saranno attribuiti fino a 15 punti di cui: fino a 2 punti per il voto di laurea, fino a 13 per il curriculum degli studi (di questi fino a 5 in base alla media aritmetica complessiva dei voti degli esami sostenuti, fino a 5 in base ai voti presi negli esami fondamentali del corso di laurea e caratterizzanti o specifici in base alla Scuola scelta, fino a 3 punti per altri titoli, ovvero 1 punto per tesi sperimentale e 2 per il titolo di dottore di ricerca in una disciplina affine alla tipologia della Scuola scelta). Dal 2015 il bando per l’ammissione alle Scuole sarà pubblicato entro il 28 febbraio di ogni anno e la prova d’esame si svolgerà non prima di sessanta giorni dopo la sua uscita. Intanto il Miur lavora al riassetto e alla revisione della durata delle Scuole di Specializzazione e metterà in campo a breve una fase di confronto con tutti i soggetti a diverso titolo interessati. 

 

 
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CONVEGNO UNICOBAS

Post n°2801 pubblicato il 18 Aprile 2014 da fabiana.giallosole
 

LA SCUOLA, L’ITALIA, L’EUROPA

di Anna Angelucci

Convegno L’altra scuola-Unicobas “Progetto scuola: costruire il presente”
L.C.S. “T. Mamiani”

Ricorderete tutti la lettera che il commissario europeo agli affari economici Olli Rehn scrisse al ministro dell’economia Giulio Tremonti nell’ottobre del 2012. L’Italia era sulla soglia del baratro economico-finanziario, lo spread era altissimo, il paese stava fallendo sotto la guida incapace dell’ultimo governo di un Silvio Berlusconi di lì a poco costretto ignominiosamente alla resa. Nella lettera, 39 domande precise incalzavano il ministro a formulare risposte dettagliatissime su come il governo italiano intendeva affrontare la crisi. Quattro di queste, inserite in una macrosequenza intitolata “Capitale umano”, riguardavano scuola e università. Rileggiamole insieme:

13. Quali caratteristiche avrà il programma di ristrutturazione delle singole scuole che hanno ottenuto risultati insoddisfacenti ai test INVALSI?
14. Come intende il governo valorizzare il ruolo degli insegnanti nelle singole scuole? Quale tipo di incentivo il governo intende varare?
15. Il governo potrebbe fornirci ulteriori dettagli su come intende migliorare ed espandere l’autonomia e la competitività tra le università? In pratica, che cosa implica la frase “maggior spazio di manovra nello stabilire le tasse di iscrizione”?
16. Per quanto riguarda la riforma dell’università, quali misure e quali provvedimenti devono essere ancora adottati?

Com’è evidente, si insiste su valutazione e ridimensionamento delle singole scuole attraverso l’Invalsi; su reclutamento, retribuzione e carriera degli insegnanti; su autonomia e competitività (da finanziare, all’università, con l’aumento delle tasse d’iscrizione, a scuola, con il progressivo incremento del contributo ‘volontario’ delle famiglie); infine, sulle riforme. Parole d’ordine che ormai da anni, nostro malgrado, abbiamo assimilato in un comune repertorio lessicale, quando parliamo di sistema d’istruzione. Parole d’ordine che i governi italiani di centrodestra e di centrosinistra, indifferentemente, hanno inverato già da tempo con norme e leggi che hanno depotenziato il valore culturale e la funzione istituzionale della scuola della Repubblica: dalla legge sull’autonomia (59/1999) alla riforma Gelmini (169/2008) e al Sistema Nazionale di Valutazione (marzo 2013), fino ai numerosi tentativi di privatizzazione e aziendalizzazione della scuola attraverso i progetti di riforma delle sue norme di autogoverno e degli OO. CC., la riduzione della rappresentanza sindacale, la progressiva dematerializzazione non solo delle procedure amministrative e dei rapporti umani - come titola la legge che ha imposto il registro elettronico (135/2012) - ma soprattutto dei finanziamenti a scuola, università e ricerca, ormai ridotti a cifre inconsistenti e asfittiche.

Ma ci siamo mai chiesti come mai in quella lettera - in cui le istituzioni comunitarie, con toni durissimi, da ultimatum, chiedevano al ministro risposte immediate sui conti pubblici, invocando urgentemente interventi strutturali e istituzionali - come mai in quella lettera si parlasse di scuola, si facesse esplicito riferimento all’Invalsi, si insistesse su autonomia, meritocrazia e riforme? In un’Europa in cui gli ordinamenti scolastici, gli obblighi formativi, le politiche educative e la percentuale di investimento del PIL sull’istruzione sono così diversi tra i vari paesi membri, perché richiamare proprio quelle improrogabili misure ‘palingenetiche’ d’intervento?

Mai come in questo caso, il reiterato mantra ‘ce lo chiede l’Europa’ è stato, purtroppo, tanto vero (1). Al netto delle suggestioni di certa dietrologia d’accatto e ben consapevoli della complessità delle coordinate economico-politiche dell’Europa contemporanea (2) , è tuttavia evidente che esistono spinte educative di matrice neoliberista e lobbistica comuni a larga parte del vecchio continente, almeno a partire dalla fine degli anni Ottanta, quando la potente lobby dei grandi capitani della finanza e dell’industria denominata ERT, acronimo per European Table Round, pubblica il primo di una serie di rapporti, intitolato “Educazione e competenza in Europa” (1989), a riprova del coinvolgimento del mondo industriale nelle questioni concernenti l’educazione, e finalizzato all’orientamento e alla pressione sui decisori politici europei.

Gli obiettivi strategici da perseguire - ben presto recepiti dalle istituzioni comunitarie che, nel Trattato di Maastricht (1992), accordano per la prima volta alla Commissione Europea competenze in materia d’insegnamento – sono incentrati su competitività e profitto: come viene ratificato a Lisbona nel 2000 e poi ribadito nel rapporto della Commissione della Comunità Europea del 2001 intitolato ‘Les objectifs concrets futurs des systems d’éducation’, occorre spingere l’Europa “a diventare l’economia della conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, capace di una crescita economica duratura”.

In modo puntuale, l’intellettuale belga Nico Hirtt nei suoi numerosi pamphlet (3) ci spiega che tra i nuclei fondanti del progetto educativo europeo – che, a mio avviso, si sono diffusi attraverso l’uso insistito e reiterato di un registro burocratico-giuridico spiccatamente performativo, acriticamente assimilato anche dai media (fondamentale a questo proposito l’analisi storico-linguistica della trasformazione semantica del termine meritocrazia(4)) – ne ricorrono alcuni particolarmente significativi: ‘competenze’, non più disciplinari ma trasversali o chiave; ‘apprendimento permanente’; ‘deregolamentazione’; ‘partnership con le imprese’; diffusione delle ‘nuove tecnologie informatiche’; ‘autonomia’; ‘diversificazione’. Sul termine ‘competenze’ non mi soffermo, limitandomi a ricordare, tra gli altri, il bellissimo articolo di Giorgio Israel sul Messaggero del 5 febbraio scorso, “Autocritica dell’Europa anche sull’istruzione e la cultura”, in cui si sottolineano con fermezza le scelte sbagliate, in Europa, in tema di cultura e d’istruzione, che appaiono finalizzate a forgiare un modello di cittadino europeo minus habens, attrezzato con competenze di base minimali, facilmente spendibili ovunque. Certo, alla luce di queste considerazioni, risulta perfettamente coerente la raccomandazione espressa nel rapporto della Commissione della Comunità Europea intitolata ‘Pour une Europe de la connaissance’ del 1997: “Si tratta di dare la priorità allo sviluppo delle competenze professionali e sociali, per un migliore adattamento dei lavoratori alle evoluzioni del mercato del lavoro”.

Tra la fine del XX e i primi anni del XXI secolo, anche la scuola è stata messa al servizio della competitività economica delle imprese. In un mercato del lavoro globalizzato, sottoposto alla costante pressione della speculazione finanziaria e della concorrenza mondiale, che si nutre di manodopera scarsamente qualificata, sempre più numerosa e a basso costo, per la quale il termine flessibilità significa povertà, precarietà e perdita di diritti, e in cui la velocità esponenziale dello sviluppo tecnologico fagocita conoscenze e esperienze professionali nel caos indistinto dell’imprevedibilità di processi economici oggi davvero spietatamente selettivi, si spinge verso un’accelerazione dell’evoluzione dei sistemi educativi europei e del sistema educativo italiano, sempre più deregolamentato attraverso formule di gestione e di autogoverno via via più flessibili, permeabili agli interventi dei privati e fortemente concorrenziali.

‘Autonomia’, ‘rapporti col territorio’, ‘relazione con le imprese’, ‘informatizzazione’ si traducono dunque in leggi e norme che declinano in Europa e in Italia un paradigma ideologico preciso, alimentato dal pensiero unico che alligna nel mondo industrializzato post-capitalista, centrato su un unico obiettivo: l’arretramento dello Stato da ogni forma di organizzazione, istituzioni e servizi, in nome delle necessità e dei bisogni dell’economia di mercato (su questi temi, si veda, ça va sans dire, la ricca bibliografia orientativa prodotta negli ultimi anni dalla Fondazione Agnelli e dall’associazione confindustriale TreeLLLe).

Per la Tavola Rotonda Europea degli Industriali, “la resistenza naturale dell’insegnamento pubblico tradizionale dovrà essere superata attraverso l’utilizzo di metodi che combinano l’incoraggiamento, l’affermazione di obiettivi, l’orientamento verso l’utente e la concorrenza, soprattutto quella del settore privato” (5). Da qui il suggerimento ai governi formulato nel Libro Bianco della Commissione Europea (1993) di promuovere vantaggi fiscali per favorire gli investimenti diretti del settore privato imprenditoriale nel campo dell’istruzione. Da qui l’ossessione per l’introduzione e la diffusione delle TIC nelle nostre aule, con il duplice obiettivo di alimentare il mercato mondiale delle TIC e di formare manodopera adatta ad evolvere in un ambiente dominato dalle tecnologie informatiche. Da qui il progressivo incremento dell’editoria digitale, del business dei servizi scolastici on line e delle università telematiche.

Citando Hirtt: “La fortissima volontà, espressa dalla Commissione Europea, di accelerare l’introduzione delle TIC nella scuola è stata spesso giustificata in nome delle potenzialità che tali tecnologie offrirebbero sul piano pedagogico. […] E’ stupefacente notare come il computer e Internet siano stati bruscamente elevati al rango di priorità in materia d’innovazione scolastica. Perché un tale slancio? La risposta, una volta ancora, stilla dalle fonti quando si capisce che l’insegnamento in Europa è pressoché esclusivamente pensato come vettore della crescita economica. A dar credito alla relazione sugli «obiettivi futuri concreti dell’insegnamento», tutti gli Stati membri dell’Unione pensano che sia necessario « rivedere le competenze di base che i giovani dovrebbero possedere al momento di lasciare la scuola o la formazione iniziale, in modo che queste includano pienamente le tecnologie dell’informazione e della comunicazione». Questa introduzione delle TIC sulla cattedra scolastica, persegue tre obiettivi principali: (1) preparare la mano d’opera ad evolvere in un ambiente dominato dalle tecnologie, (2) assicurare la flessibilità di tale mano d’opera utilizzando le TIC come mezzo per facilitare la formazione permanente e (3) sostenere il mercato europeo delle TIC. Quanto al primo punto, è sufficiente ricordare che più del 70% degli impieghi che si creano attualmente fa ricorso all’utilizzo di un’interfaccia informatico. La maggior parte dei giovani deve quindi imparare a trattare informazioni complesse, non ad utilizzare il computer come fosse un’estensione ed un catalizzatore della loro intelligenza, ma piuttosto a rispondere agli ordini di uno schermo e a manipolare un mouse. Ed è sfortunatamente, ma logicamente, a questo che si riduce troppo spesso l’utilizzo dei computer in classe. Ma la commissione ricorda che si tratta anche di «mettere il potenziale delle nuove tecnologie al servizio delle esigenze e della qualità della formazione permanente. Si tratterà di offrire le garanzie d’accesso alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione per tutti quelli che si formano, […] la formazione all’uso di queste tecnologie, in particolare "per imparare", e assicurare la disponibilità di servizi e di prodotti multimediali europei, […] di stimolare l’emergere di un’industria europea nei multimedia e nei servizi accessibili on line. […] La società dell’informazione deve utilizzare in Europa dei contenuti europei» martella la Commissaria dell’educazione, Viviane Reding. E precisa che «in questo campo, in modo particolare, un partenariato con l’industria è necessario». Nel suo piano d’azione 1996-1998, «Imparare nella società dell’informazione», la Commissione europea spiega che, se la scuola deve assolutamente rimettersi al multimediale, ai software e ad Internet, è perché «questo settore d’attività, con lo sviluppo dei nuovi prodotti e dei nuovi servizi, è promettente» ma che «un numero troppo piccolo di utenti e di ideatori penalizzerebbe durevolmente l’industria europea del multimediale». Eccoci dunque pronti per “la grande guerra commerciale dell’era informatica”(6).

Il progressivo abbandono dei saperi, delle conoscenze, della formazione del pensiero critico attraverso lo studio disciplinare e interdisciplinare, epistemologicamente fondato, delle materie scientifiche e soprattutto umanistiche in nome della malintesa modernità pedagogica evocata dal concetto di ‘competenza’ ha dunque precise radici economicistiche: come sottolinea chiaramente Hirtt, in un mercato sempre più duale e piramidale, “per quel 20-25% di manodopera che occuperà i posti a un livello molto alto di qualificazione, i saperi scolastici sono per lo più obsoleti. Per il 40-45% dei posti a livello di qualificazione molto basso, sono superflui” (7).

Anche oggi, basta scorrere le pagine del Documento di Economia e Finanza 2014 per leggere che “i sistemi dell’istruzione e dell’università si devono evolvere ulteriormente per dotare gli studenti delle competenze nuove che sono rese necessarie dalle innovazioni intercorse a livello civile, economico e sociale negli ultimi decenni. In particolare, è necessario assicurarsi, anche con innovazioni dell’offerta formativa, che le competenze linguistiche, quelle digitali e quelle relative all’imprenditorialità siano diffuse nel nostro sistema educativo” (8). Fatta eccezione per i due miliardi stanziati per la messa in sicurezza delle scuole, un atto dovuto demagogicamente spacciato per reinvestimento sulla scuola, la parte del documento relativa all’istruzione è tutto un florilegio di connettività wi-fi, un inno all’integrazione delle tecnologie informatiche nella didattica, un peana al sostegno all’apprendistato, ai tirocini formativi presso le aziende e all’alternanza scuola-lavoro.

La legge Gelmini, che ha cancellato materie e ha ridotto orari e curricoli dalle elementari alle superiori; la riforma Berlinguer, che ha costruito il ‘tre più due’ (9) sul principio del minimalismo culturale; le norme sull’obbligo formativo e non scolastico, che permettono lo svolgimento dell’ultimo anno nell’apprendistato; il numero chiuso all’università, che sbarra a monte l’accesso all’istruzione e nega a percentuali altissime di giovani il diritto allo studio; le agenzie di valutazione Invalsi e Anvur, che mortificano l’intelligenza di studenti e docenti, piegando insegnamento, apprendimento e ricerca a logiche opportunistiche; le leggi finanziarie, che dal 2006 hanno azzerato tutti gli investimenti su scuola e università, significano meno scuola, meno università, meno istruzione, meno ricerca, meno cultura per tutti: per i nostri giovani, condannati all’ignoranza prima e alla sottoccupazione e alla precarietà sociale ed esistenziale poi, e per il nostro paese, inesorabilmente avviato lungo il crinale di un inarrestabile declino in cui non solo non compare alcun segnale di ‘sviluppo’ ma sta definitivamente tramontando qualunque possibilità di ‘progresso’.

In questo quadro rientrano coerentemente i tentativi, da Berlinguer a Profumo e in perfetta sintonia con gli intendimenti della montiana Giannini, di riproporre a ogni piè sospinto la riduzione del percorso scolastico di un anno; strada già spianata, se i ministri non se ne fossero accorti, dalla scansione biennale della secondaria superiore proposta dalla Gelmini nelle Indicazioni Nazionali dei nuovi programmi: due bienni + un ultimo anno, pronto per essere cancellato in nome della competitività e dell’Europa. Peccato che in Europa la situazione sia estremamente variegata: terminano a 19 anni in Bulgaria, Danimarca, Estonia, Italia, Lettonia, Lituania, Polonia, Slovenia, Slovacchia, Finlandia e Svezia. Ci sono sistemi che terminano in tempi diversi a seconda dei tipi di scuola oppure se lo studente prosegue all’università o conclude i suoi studi con la secondaria superiore. Il caso più noto è quello della Germania dove il liceo e alcune scuole professionali durano fino a 19 anni mentre le scuole tecniche e alcune scuole professionali (anche a seconda dei diversi länder) durano fino a 18 anni (ma è dello scorso anno una legge dell’Assia che consente a chi ne fa richiesta di allungare di un anno il percorso del gymnasium). Al contrario in Scozia gli istituti professionali terminano a 19 anni. Se alcune scuole professionali ceche, lussemburghesi, romene arrivano fino a 18 o talvolta a 17 anni, la maggior parte delle scuole secondarie e soprattutto i licei di questi paesi arrivano fino ai 19 anni. In Ungheria e in Romania gli studenti che non continuano all’università fanno un anno in più nei licei, mentre in Grecia e a Cipro questo succede non solo nei licei ma anche nelle scuole serali e nei professionali. Questi ultimi in Austria e nei Paesi Bassi vanno uno o due anni oltre il limite dei 18. In Finlandia, infine, la data di conclusione del liceo varia: con un sistema di moduli simile ai corsi universitari, l’ultimo triennio può essere svolto in un periodo che va da un minimo di due anni (quindi si può finire a 18 anni) ad un massimo di quattro (quindi a 20 anni).

Ma la sortita dei nostri ultimi ministri non stupisce, se si pensa al fascino che il modello anglosassone delle high school e dei test esercita sui nostri decisori politici e sui sedicenti esperti (a dispetto di ogni considerazione critica (10)) e soprattutto che la riduzione del percorso scolastico comporterebbe un taglio di 40.000 cattedre, con un risparmio stimato di circa un miliardo e mezzo di euro l’anno. E del resto, l’anticipo ad aprile dei test d’accesso alle facoltà universitarie non si traduce di fatto nella totale perdita di senso delle attività didattiche in corso e della preparazione degli studenti all’Esame di Stato (11)? E non ammicca allo svuotamento del valore culturale e legale del titolo di studio (12), cui la stessa Giannini si è dichiarata favorevole, come, mette conto ricordarlo, proponeva nel Piano di Rinascita Democratica della Loggia P2 Licio Gelli?

‘Ce lo chiede l’Europa’, dunque, di rendere la scuola pubblica un grande bacino di manovalanza acritica. Ma guardiamo le nostre scuole, non le aule dei pochi licei storici delle grandi città, che pure soffrono in molti casi l’angustia dei luoghi, il buio dei seminterrati, l’assenza di palestre e di spazi collettivi per la musica e il teatro. Guardiamo le aule delle tante scuole della penisola, soprattutto al Sud, dove le serrande rotte non si aggiustano, dove le finestre non si aprono e le porte non si chiudono, dove la pioggia allaga i corridoi e dove d’inverno i termosifoni tiepidi non ci riscaldano. Guardiamo le classi pollaio dove stipiamo tutti i giorni i nostri studenti. Guardiamo i volti dei nostri disabili e pensiamo alle difficoltà di chi ha bisogno di un insegnante di sostegno ma può avvalersene solo per poche ore alla settimana.

La dismissione della scuola pubblica, la trasformazione di un’istituzione dello Stato in servizio residuale per i poveri, per gli stranieri, per chi non ha, come già accade in Inghilterra e in America, la possibilità di scegliere: queste non sono responsabilità dell’Europa, queste sono le responsabilità personali dei nostri ministri dell’Istruzione e dei nostri Governi degli ultimi vent’anni che, miopi, non hanno valorizzato la nostra scuola e la nostra università come asset strategico per la crescita umana prima che economica, che hanno immiserito lo studio della materie storiche, umanistiche, artistiche e musicali senza pensare che queste sono il vero tesoro del nostro paese, il nostro vero, unico e solo ‘valore aggiunto’, che hanno cancellato le migliori esperienze didattiche in nome della falsa equazione ‘meno ore = più qualità’, che hanno mortificato e mortificano tutti i giorni la dignità e la professionalità di ricercatori e docenti, che hanno fatto cassa togliendo soldi al sistema dell’istruzione, dove ancora oggi, non paghi, vedono “incrostazioni”! (13)

Non è questa la scuola che vogliamo: noi oggi siamo qui a chiedere l’estensione dell’obbligo scolastico a partire dall’ultimo anno della scuola dell’infanzia fino al raggiungimento del diploma o della qualifica professionale; il ripristino del tempo pieno e dell’insegnamento modulare nella scuola primaria, basato sulla divisione nelle due aree prevalenti, linguistico-espressiva e logico-matematica; l’introduzione dello studio del latino fin dal secondo anno della scuola media e per tutto il quinquennio dei licei, dello studio del diritto come disciplina formativa autonoma, della storia della musica e dell’educazione all’ascolto; chiediamo l’eliminazione dell’insegnamento della religione cattolica in tutti gli ordini di scuola; il potenziamento disciplinare delle ore di italiano e, ove necessario, dell’italiano L2; chiediamo il ripristino delle attività laboratoriali artigianali e artistiche nei professionali e negli istituti tecnici ma anche l’introduzione generalizzata di un’area laboratoriale curricolare che avvicini i ragazzi alla comprensione dei nuovi linguaggi audiovisivi; chiediamo che si ripensi tutto il sistema in termini di continuità del curriculum, di interscambio tra le diverse esperienze didattiche, di valorizzazione della cultura, della formazione e della professionalità dei docenti.

Non accetteremo che le parole di Calamandrei (14) diventino una profezia: vogliamo che la scuola pubblica torni ad essere emancipante e altamente formativa, quale è stata per noi, e non vogliamo che su questa scuola, oggi screditata, impoverita, marginalizzata, totalmente dequalificata, un’Europa che non è certo quella immaginata dai suoi padri fondatori, l’Europa delle banche e della speculazione finanziaria, l’Europa asservita all’individualismo e fagocitata dalla competizione globale, l’Europa del profitto e del denaro come generatore simbolico di tutti i valori, l’Europa che prefigura tanti servi e pochi padroni, possa presto scrivere la parola ‘fine’.

 
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Il Coordinamento provinciale dei Docenti Utilizzati di Sassari (COPDUS), si è costituito ufficialmente nel mese di settembre 2011, in seguito alla necessità di fronteggiare il nefasto articolo 19 della Legge 111 del 15 luglio 2011 col quale si dispone la messa in mobilità intercompartimentale dei docenti inidonei o il declassamento a personale ATA con conseguente riduzione stipendiale.

Esserci costituiti in gruppo è stato per tutti noi fondamentale in quanto ci ha dato da subito la forza e la determinazione, entrambe importanti, per intraprendere tutte quelle azioni di lotta civile allo scopo di trovare soluzioni al problema che ci ha visti coinvolti, assieme ad altri quasi 4000, a livello nazionale.

Ritrovarci con cadenza settimanale ci fa sentire, non solo più uniti e aggiornati sull'evolversi della nostra situazione, ma soprattutto più sicuri e positivi nell'affrontarla.

Per questo motivo, e non solo, abbiamo col tempo sentito il bisogno di creare questo BLOG ossia uno spazio per informarci ed informare anche coloro che trovandosi nella nostra situazione pur non facenti parte del coordinamento di Sassari, avranno piacere di visitarci e saranno i benvenuti.

Al tempo stesso vogliamo che questo sia uno spazio oltre che di informazione anche di incoraggiamento al "ce la faremo" e al "non smettere" e quindi non vuole avere e non avrà aspetti e contenuti sterili o "istituzionalizzati".


e-mail: copdus@gmail.com oppure fabianagiallosole@libero.it

 

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