Creato da Nekrophiliac il 21/02/2005

DARK REALMS V2

So, I've decided to take my work back underground. To stop it falling into the wrong hands.

 

 

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Post N° 61

Post n°61 pubblicato il 01 Settembre 2005 da Nekrophiliac
 
Foto di Nekrophiliac

SENTENCED: THE FUNERAL ALBUM (2005)

Innanzitutto, uno scorcio sul mio recente passato: quasi a giustificare la scelta di questa recensione. Passato: l’utilizzo di simil parole è abbastanza grottesco. Ad oggi potevo essere letteralmente “trapassato” da un mese e due giorni. Nella migliore delle ipotesi avrei lasciato parte del mio corpo, forse sarei rimasto invalido. Addirittura potrei essere ancora in coma. Un vero e proprio colpo in un istante. Lo scorso ventinove luglio sono stato protagonista di un incidente praticamente mortale, da cui sono uscito miracolosamente illeso, considerando il seguente bilancio: un punto sulla mano destra, piccola escoriazione sul gomito del braccio sinistro, la mano sinistra gonfia. Niente costole incrinate, niente gambe rotte, niente testa sfasciata, niente emorragie interne, niente di tutto ciò. Provvidenza divina? Fato? Il confine tra sacro e profano è labile. Un afoso pomeriggio mi recavo a mare, asciugamano, occhiali da sole, costume e una buona dose di sensazioni positive: nello stereo, a seguito proprio di The Funeral Album dei Sentenced era il turno dei Blind Guardian con Nightfall in Middle-Earth e la tredicesima traccia, cioè la potentissima Time Stands Still (At The Iron Hill). In una curva ad “s”, stretta già di suo, un’altra vettura a velocità “indecente” mi costringe a spostarmi ancor più a destra, finendo contro il costone della montagna. Frontale evitato, ma la mia Opel Astra si ribalta per ben due volte, arenandosi in obliquo nel bel mezzo della strada. I vetri esplodono e mi ritrovo ad osservare il mondo a testa in giù. A pochi metri da un burrone di cinquanta e più metri. Intorno a me il silenzio. Slacciatomi la cintura di sicurezza (benedetta), riesco ad uscire dal tettuccio. Con una lucidità immane prendo il telefono e chiamo mia madre. Poi svengo per il caldo e lo shock. Qualcuno o qualcosa mi ha rispedito indietro. A completare il mio compito in questo infame mondo. Nekrophiliac il Bianco. Perciò, a conclusione della mia disavventura estiva che mi è costato comunque un bel po’ di forzato riposo, non posso che ricominciare da dove ero rimasto quel dannato giorno. Il funerale dei Sentenced è ancora in corso, il mio poteva essere già avvenuto.

Sedici anni di attiva e concitata militanza metal - l’ultimo album accolto con grande partecipazione - per un successo cresciuto costantemente e ormai in fase di consolidamento e, ciò nonostante, i Sentenced hanno deciso mesi fa di sciogliersi, ne parlavano ormai da due anni e non avevano alcuna intenzione di ricredersi. Pensare alle cause di quest’abbandono, tutto sommato, è un’attività controproducente. La grande celebrità ottenuta finora lo rende un gesto totalmente inconsulto o quantomeno ingiustificabile. Tuttavia, la musica di qualità non è (o non dovrebbe essere) un esercizio meccanico, perciò è lecito pensare che, dopo nove (capo)lavori, la vena creativa dei Sentenced possa essersi realmente esaurita. E, a tali condizioni, ci vuole del coraggio per prenderne coscienza e agire di conseguenza, cioè nel modo più onesto possibile, nei confronti degli accaniti fan. Fedeli all’immagine che li accompagna fin dagli esordi, con un colpo di teatro nel loro tipico umorismo nero, si condannano a morte e scrivono il loro epitaffio nelle note di The Funeral Album. Un bel, simbolico suicidio collettivo per i cinque “suicider” per eccellenza. Niente nodi scorsoi e corpi appesi a penzolare dal loro cappio, niente cervella a imbrattare le pareti, soprattutto niente scuse, solo note musicali. E per l’ultima volta. The Funeral Album appare come una raccolta degli spunti peculiari che hanno caratterizzato gli album del secondo periodo, quello che ha coinciso con una progressiva virata melodica e con l’avvicendamento dietro al microfono di Ville Laihiala, in luogo di Taneli Jarva. I tredici brani proposti non si discostano stilisticamente dal precedente The Cold White Light (2002), quindi, essenzialmente privo di innovazioni di sorta, specie per quanto riguarda le linee vocali e la struttura delle canzoni, anche perché una tale politica risulterebbe fuori luogo per un album di addio: suono pulito e potente dei Finnvox, curato dal fido Mika Jussila; il lavoro delle chitarre di Mika Tenkula e di Sami Lopakka, sempre tese tra melodia e mood più rabbiosi, tra il gelo dell’inverno e la disperazione sommessa dell’autunno; il mix riuscito tra tensioni decisamente taglienti e momenti di dolore più low-profile; le atmosfere usuali evocate al meglio, grazie alla padronanza compositiva raggiunta negli anni; la grande sintonia dei membri della band, cresciuta col passare del tempo; la facilità con cui, nuovamente, la musica è in grado di conquistare l’ascoltatore; la voce di Ville Laihiala a troneggiare su tutto, ora bassa e dolente, ora irruvidita dall’ira, e comunque rassegnata a percorrere con noi la lunga strada verso il nulla. I Sentenced per congedarsi dal loro pubblico hanno veramente gonfiato il petto, dimostrando a tutti (per l’ultima volta) il loro immenso valore: tredici tracce dall’alta resa emozionale. Le canzoni sono orientate sicuramente verso una maggiore centralità della chitarre, negli assoli così come nel corpo del brano; leggere o potenti a seconda del contesto, sono spesso in funzione di riffs limpidi e mai stucchevoli. In ogni modo, non lesinano sull’uso del distorto quando è necessario un maggior impatto sonoro. La voce sporca e scura, da basso, di Ville Laihiala, spazia senza difficoltà tra l’aggressività e la malinconia, pur non avendo un registro molto ampio che permetta una ancor maggiore elasticità. Il cantato vagamente alla James Hetfield è percepibile nei momenti in cui è richiesta una certa potenza vocale, che si contrappongono ad altri, alquanto rari, di maggiore delicatezza. La batteria non è mai invadente, anche se regala istanti di grande energia, oltre ad essere fondamentale nel sottolineare le diverse sezioni dei brani, dove strofe composte e pacate si alternano a ritornelli maggiormente esplosivi. Indipendentemente dal lato che voi preferiate della medaglia, sia da una parte che dall'altra, il lavoro svolto dal gruppo finlandese è sempre valido e di ottima qualità, seppure in molti non abbiano digerito il cambio di stile avvenuto a cavallo tra i due millenni. The Funeral Album, la degna chiusura di una carriera che li ha visti protagonisti di un'esplosione furente con i primi lavori, per poi correggere il tiro, e farlo definitivamente, con Crimson (2000), il disco più melodico di tutta la storia della band, che da Amok (1995) e Down (1996) di strada ne ha fatta parecchia. Lo scarno ed essenziale artwork, ancora una volta ad opera del batterista Vesa Ranta, ricalca alla perfezione quello che è lo spirito dell'opera in oggetto. Un disco semplice, quieto che, nonostante i temi sempre foschi e rilassati, riesce a risultare in ogni istante genuino e piacevolmente naturale. I cinque musicisti finnici se ne vanno senza mai spingere il piede sull'acceleratore consci di non potere, con un solo ultimo disco, né conquistare nuovi seguaci né guadagnare punti da chi li ha da sempre, ingiustificatamente, gratuitamente criticati. Pur infierendo sulla varietà e sul tasso di attenzione del disco, a giudizio di chi scrive “inferiore” rispetto i suoi due predecessori, i mid-tempo e le ballate in stile No one there, che occupano la maggior parte delle composizioni della tracklist, sono quanto di meglio si potesse scegliere come "testamento". Addio caro quintetto finnico.

E si ricomincia. Ad aprire le danze funebri è May Today Become The Day (click), un mid-tempo in salsa rock, nel quale emergono gli assoli di chitarra dei due fondatori della band e il leggendario basso di Sami Kukkohovi, dal vigoroso suono posto in apertura. Ascoltare per credere. Segue poi Ever Frost che, nonostante sia piuttosto orecchiabile, ha la forza e la rappresentatività che un singolo dovrebbe avere, è insomma il tipico esempio di canzone firmata Sentenced. Uscito a fine aprile, ha scalato le classifiche nella terra natale dei finnici, puntando su un ritornello ribadito spesso e volentieri dalle chitarre, dimostrando alti elementi melodici in grado di rendere incisivo il suddetto brano. Per non parlare delle “curiose” immagini.

Se May Today Become The Day e Ever Frost suonano come canzoni mature, che mescolano pesantezza e malinconia come solo i Sentenced della “fredda luce bianca” sapevano fare, la terza traccia è una semi-ballata piuttosto struggente, We Are But Falling Leaves, caratterizzata dal contrasto delle voce cavernosa di Ville Laihiala che si staglia su un tappeto di chitarre dal suono chiaro e malinconico; mentre, la quarta traccia, Her Last Five Minutes, presenta un apprezzabile quanto limitato uso del piano in un dialogo di chitarre evanescenti, oltre ad un’outro molto curata. Rispetto al precedente lavoro le coordinate convergono più verso il sentimento della fine: sono così scomparse le composizioni un po’ stucchevoli dedicate all’amore, esempi su tutti Blood And Tears e You Are The One, sostituite da tristi ballate dai toni meno romantico-lacrimevoli. Emerge sempre più la considerazione leopardiana dei nostri limiti, che ci rendono fragili e vulnerabili. L’evidente sentore di innovazione è tacitamente riscontrabile nella già sovracitata Where Waters Fall Frozen, brano strumentale veloce e impetuoso. Si distinguono una decisa impronta black/death, con bruschi cambi di tempo e una massiccia presenza di chitarre e basso. Tentativo di spezzare l’uniformità dell’album, così come incursione nell’aggressivo atteggiamento tenuto dalla band negli ultimi anni del secolo scorso. Cinquantanove secondi di frastuono in funzione di tributo al passato da cui ha avuto origine l'avventura di nome Sentenced. Il mid-tempo Despair - Ridden Hearts, invece,  incarna perfettamente il sentimento nostalgico di cui è pervaso tutto l’album, vantando anche un’introduzione con una solitaria armonica, che sembra uscita da un film western, al pari dell’uso massiccio della chitarra acustica e forse le migliori linee melodiche dell'intero platter. Ed ecco che il rancore prende forma in Vengeance Is Mine, canzone introdotta da una voce roca e vibrante da contrapporre a quella acuta e chiara dei bambini presente a livello del bridge. Il contrasto tra la violenza e l’innocenza è altresì rimarcato nel finale, dove un carillon distorto stempera i toni aggressivi che hanno dominato tutto il brano. Questi parzialmente si ritrovano in A Long Way To Nowhere, in cui incontriamo chitarre e basso abbastanza pesanti, un quadro d’insieme interrotto da un breve momento più soft allocato a metà della canzone. Nel complesso, le ultime tre tracce mostrano la familiare tendenza ad esprimere, tramite un umorismo macabro, la rabbia e il dolore, la disperazione (Despair - Ridden Hearts), l’odio (Vengeance Is Mine), l’infinito nulla (A Long Way To Nowhere), nonché preannunciare la brama della morte come unica soluzione: Consider Us Dead, dagli arpeggi delicati che caratterizzano le strofe e dal virtuoso sapore arabeggiante, che la rendono un vero e proprio inno contro la vita: << Put a bullet through my head >>. La due canzoni seguenti, come rari bagliori nel buio, Lower The Flags e Drain Me presentano un uso meno pulito e più aggressivo delle chitarre, che raggiunge l’apice nel breve assolo della seconda. Fa piuttosto parte del duo conclusivo Karu, brano semplice e simile ad un lamento funebre, in cui la melodia è affidata ad una chitarra acustica, a cui spetta il ruolo di introdurre la traccia finale. Per questo motivo si tratta di un brano di breve durata, come ci suggerisce lo stesso titolo, che in finlandese significa appunto “corto, scarno”, semplicemente privo di vita. Inserti di piano e cori definiscono ulteriormente le atmosfere disperanti che dominano l’album. Ed infine tocca ad End Of The Road, titolo quanto mai profetico per una traccia infarcita da ritmiche avvolgenti ed ipnotiche, senza dubbio il brano più suggestivo fra tutti. Fuori dai soliti schemi, il compianto canto dei defunti è melanconicamente morbido nelle strofe, prima che la voce di Ville Laihiala si faccia più dura e introduca il coro, che precede una lunga ed elaborata outro. La fine è ormai irrimediabilmente giunta. Grazie Sentenced.

 
 
 
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