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Lezione musicale post rock #2: Tortoise

Post n°38 pubblicato il 12 Febbraio 2006 da DreaminGorilla
 

Oggi ho deciso per una nuova lezione musicale, il motivo è semplice, non ho niente di più importante da scrivere. Quindi ho deciso di presentarvi i Tortoise, un altro grande gruppo dei '90.

I Tortoise, una delle band-chiave del decennio Novanta, nascono in uno dei laboratori musicali più importanti degli Stati Uniti: Chicago. E' proprio nei sotterranei della "windy city" dell'Illinois che sono state gettate le basi di un nuovo tipo di rock, sganciato quasi completamente dai suoi binari tradizionali e volto a una frenetica ricerca di tutte le possibili contaminazioni con altri generi, jazz in primis. Si è formata così una nuova scena, tanto influente sulla musica contemporanea quanto appartata, popolata da band prive di quell'immagine "forte" tipica della tradizione del rock.


Pur restando sempre lontani dalle luci della ribalta, i Tortoise sono diventati - volenti o nolenti - i portabandiera di questo movimento. Guidati dall'ingegnere del suono Dough McCombs e dal bassista John McEntire, i post-rocker di Chicago producono una musica sfuggevole, che si sottrae alle definizioni. E' una miscela stupefacente di dub, ambient e psichedelia, che pesca in buona parte dal calderone dell'alternative rock americano degli anni Novanta (in particolare lo slo-core degli
Slint), ma anche dal kraut-rock tedesco (Neu!, Faust, Can), dal Canterbury-sound degli anni 70, dal jazz elettrico e dal minimalismo. Tra i critici musicali c'è chi la chiama "post-rock", chi "avant-rock". Alcuni hanno azzardato definizioni più fantasiose. Come il "Sunday Times" che l'ha descritta come "eclectic-jazzy-avantgarde-postpunk-rasta friendly". La rivista musicale inglese "Melody Maker" ha scritto: "Il rock americano è rimasto fermo alla nozione di canzone come storia, come confessione autobiografica o ritratto pseudo-letterario. Per questo la musica dei Tortoise è in controtendenza". Altro tratto distintivo del gruppo è l'equilibrio nel mescolare campionature e musica suonata davvero. D'altra parte, i Tortoise non sono soltanto abili assemblatori di suoni preconfezionati, ma anche ottimi musicisti, alcuni di formazione prettamente jazz, tutti propensi all'intercambiabilità dei ruoli.


Analogamente ad altre formazioni della galassia post rock, la band di Chicago non compone canzoni, ma lunghe suite dilatate e multiformi, rompendo anche con la convenzione della durata dei brani, limitata tradizionalmente dai tre ai sei minuti. Ne è la testimonianza più inebriante "Djed", l'ouverture del loro secondo album Millions Now Living Will Never Die: 21 minuti di puro delirio strumentale, all'insegna delle contaminazioni più audaci, al crocevia tra dub, free-jazz, kraut rock e moderne avanguardie (minimalismo in primis). "Il nostro background è comune - spiega McEntire -. Abbiamo suonato tutti per almeno dieci anni in gruppi di ogni tipo, siamo cresciuti ascoltando l'hardcore statunitense e il post-punk britannico".

 

Nel 1994, l'album omonimo Tortoise li introduce sul palcoscenico dell'indie rock statunitense con una fusione inedita tra elettronica a bassa fedeltà, sperimentazioni con dub e ambient, e omaggi in chiave psichedelica alle sonorità di Miles Davis e Herbie Hancock. Per l'occasione, si compone una sorta di "superband", che annovera alle tastiere John McEntire (già nei Bastro oltre che nei Sea And Cake e nei Gastr Del Sol dell'altro ex-Bastro, David Grubbs), al basso Bundy Brown (anch'egli ex Bastro e Gastr Del Sol) e alle percussioni Dan Bitney (ex Tar Babies). Disco più oscuro ed ermetico di quelli che seguiranno, Tortoise riesce tuttavia a trasformare il virtuosismo in adrenalina, grazie a brani suggestivi come "Magnet Pulls Through, "Ry Cooder", con un magnifioc vibrafono stile jazz, e soprattutto "Night Air", in cui le esili note dei fiati accompagnano l'ascoltatore in una lunga notte siderale. Altrettanto seducente quella "Spiderwebbed" che riesce a incrociare le partiture epiche di Morricone con il "dub" più stralunato, lambendo la new wave (il basso alla Jah Wobble) e creando un effetto spiazzante di grande originalità. Più che canzoni o jam, sono raffigurazioni astratte di collage musicali. Il disco sarà remixato l'anno dopo da alcuni personaggi di punta della scena indie americana, tra cui Jim O'Rourke e Steve Albini, in Rhythms, Resolutions & Clusters.


Due anni dopo, rimpiazzato Brown (sulle rotte dei Pullman) con David Pajo (ex Slint), i Tortoise pubblicano Millions Now Living Will Never Die ("miglior disco del 1996" per una delle migliori riviste musicali d'avanguardia, "The Wire") che lancia McEntire e soci nel firmamento del rock, facendo loro conquistare persino le copertine di settimanali musicali mainstream come "Melody Maker" e "New Musical Express". Si è già detto di "Djed", "manifesto" del sound ambizioso e cervellotico dei Tortoise ma anche dell'eccentrismo che pervade le loro piéce (sconcertante, ad esempio, l'effetto del rumore del cd che "salta" la traccia, ma anche il continuo ricorso a timbriche irregolari). I Tortoise riescono a "citare" con incredibile disinvoltura maestri di generi diametralmente opposti, come John Barry e Steve Reich, Neu! e Dub Syndicate. Meno bizzarra, ma più quieta e suadente è "Glass Museum", che costruisce delicate volute di chitarre e vibrafono, sfoggiando un delicato refrain strumentale, mentre il ronzio delle tastiere di "Dear Grandma And Grandpa" sembra appartenere più ai cieli dello space-rock che alle astrazioni del post rock. E se "The Taut And Tame", nel rimpallo tra pulsazioni di basso, batteria pizzicata e frasi sottili di vibrafono, indulge in qualche barocchismo di troppo, la conclusiva "Along The Banks Of Rivers" è invece un saggio eloquente di come la compostezza del suono-Tortoise nasconda in realtà un coacervo di suggestioni, rese qui ancor più struggenti dalle melanconiche linee di chitarra: il trip-hop dei Portishead
è dietro l'angolo.

Il formato (la suite), l'attitudine a travalicare i generi, l'approccio strumentale "virtuosistico" e l'idea di una musica totalmente avulsa dal contesto sociale e politico sono tutti indizi che condurrebbero alla facile equazione Tortoise = neo-progressive. Tuttavia, mancano alcuni fattori fondamentali per poter dimostrare il teorema: laddove il progressive era sospinto da un afflato epico e romantico, il post rock di McEntire e compagni è algida astrazione matematica, laddove i progster abbondavano in melodia e arrangiamenti, il Tortoise-sound è secco e frammentato. Semmai, adattando stili e tendenze a tempi e ideologie, si può abbozzare l'idea che il post-rock sia un progressive svuotato di ogni risvolto "utopistico" e "fantastico" (gli anni 70) e trapiantato con un'operazione chirurgica nei circoli intellettuali della Chicago alienata di fine Millennio. Nel frattempo, anche il chitarrista Dave Pajo abbandona la band (per dedicarsi agli Aerial M) e viene sostituito da Jeff Parker (apprezzato musicista jazz, già negli Isotope 217 e nel New Horizons Ensemble, nonché membro della prestigiosa "Associazione per l'avanzamento dei musicisti creativi").

 

A lavorare al terzo album, Tnt, è quindi un sestetto, composto da John McEntire (percussioni e tastiere), John Herndon (percussioni e vibrafono), Douglas McCombs e Pajo (basso), Dan Bitney (batteria e tastiere), Jeff Parker (chitarra e vibrafono). Seppur discontinuo, il disco segna la definitiva consacrazione dei Tortoise ed è a tutt'oggi il loro disco più venduto: centomila copie in tutto il mondo, poche o tante a seconda dell'ottica dalla quale si guarda al fenomeno post rock. Più che di svolta "pop" della formazione di Chicago, come accennato da alcuni, con Tnt si può parlare di un tentativo di avvicinamento al formato-canzone proprio da parte della band che aveva fatto dello sbriciolamento di questo stilema il suo Dna. Restano tuttavia i brani strumentali e la lunghezza iper-dilatata delle tracce. A rendere più accessibile il suono è semmai l'introduzione di pattern drum n'bass e di una sequela di effetti al limite della dance più rarefatta. Ne è un saggio, ad esempio, la briosa "Almost Always Is Nearly Enough". Se "The Equator" svela umori caraibici, "In Sarah" avvolge l'ascoltatore in suadenti brezze elettroniche. Il resto del disco, invece, si mantiene più saldamente all'interno dei tradizionali canoni-Tortoise. Tra le tracce più riuscite, quelle che potrebbero fungere da colonne sonore di film immaginari, come la diafana "Suring From The Gutters" e la struggente "I Set My Face To The Hillside", capace di spaziare da sprazzi spagnoleggianti a balletti meccanici alla Brian Eno; "The Suspension Bridge At Iguazu Falls", infine, svela lo spirito più autenticamente "lo-fi" del gruppo, seppur celato da trame d'ascendenza (ancora una volta) free-jazz. Più accattivante e meno pretenzioso dei precedenti, definito da qualcuno "il disco fusion dei Tortoise", Tnt non vuole dimostrare alcunché all'ascoltatore, ma soltanto portarlo per mano in un mondo trasognato e senza tempo, inebriarlo di suoni più che fargli intravedere un percorso da seguire.


Standards (2001), invece, rischia di rivelarsi un'inquietante prova a sostegno dei detrattori del post-rock: non c'è più emozione, ma solo maniera; non c'è più suggestione, ma solo leziosità. Nonostante ciò, il disco offre anche momenti di energia. I Tortoise, infatti, non temono di affrontare distorsioni e ruvidezze di stampo core ("Seneca") pur senza tradire il suono vibe'n'bass degli esordi ("Benway", con melodie sghembe alla Stereolab). Un lavoro che sembra più marcatamente rock e che segue l'esperimento In The Fishtank, collaborazione con i "terroristi" noise olandesi The Ex. "Standards" propone la batteria, sovente filtrata e campionata, in primo piano, ed è ancora più evidente l'elemento "dub", presente nella band sin dagli inizi, che si manifesta attraverso il basso di Doug McCombs, protagonista assoluto di una "Six Pack" dai suoni profondi e dinamici. La freddezza, tuttavia, permane e la tentazione manieristica pure, sebbene sublimata dagli esercizi di stile della band. Ma tutto il resto è (sostanzialmente) noia.

 

In It's All Around You (2004) la band punta più all'equilibrio tra le parti, le melodie emergono in maniera netta, una sensazione di serenità traspare dai suoni. Si cerca la melodia, l’arrangiamento fatto con mezzi che si conoscono a fondo, e che in virtù di questo rivesta i brani perfettamente. In tal senso è musica tranquilla, non tanto per la quiete dei toni scelti (anzi il brano conclusivo "Salt The Skies" è trascinato da un riff quasi hard-rock), quanto perché è incapace di stupire o disturbare l’ascoltatore, puntando invece a rassicurarlo. Il brano che apre l’album, la title track, con la sua chitarra latineggiante, e la cinematica "Crest" sembrano servire allo scopo: melodie ariose e docili, quasi pop, arrangiamenti ricchi ma inseriti nel contesto di brani dalla struttura più semplice che nel passato. Certo non tutto viene bene, tra questi due pezzi troviamo "The Lithium Shifts", che vede per la prima volta i Tortoise utilizzare la voce (di Kelly Hogan), per degli asettici vocalizzi (avete presente "Music For Airports"? bene tipo quelli, solo in versione lounge) che su una base micro-dub fanno quasi ridere. Nella quarta traccia, "Stretch (You Are All Right)", addirittura ricordano molto, quasi troppo, i Royksopp di "Melody A.M.".

La parte centrale del disco presenta invece due brani più ombrosi e cupi, "Unknown" sinuosa e indecisa avventura nei meandri già conosciuti della musica di Badalamenti, che finalmente trova il suo sfogo nella successiva "Dot/Eyes", dove il rullante incalzante cerca di tenere al guinzaglio i lampi e le deflagrazioni elettroniche che contribuiscono e realizzare il brano più plumbeo e forse più riuscito del disco. "On The Chin" vede tornare la quiete di un cielo più sereno, "Five Too Many" è un pezzo agitato da un ritmo latino dove il solito xilofono doppia la melodia decisa dal basso, e una chitarra graffiante devia la musica verso direzioni più fusion. In parole povere, siamo al cospetto di un puro ed elegante manierismo. L’ultimo pezzo, "Salt The Skies", inizia in maniera placida, ma si trasforma in breve in un tirato hard-rock rimescolato in salsa kraut, come a dire" beh, le abbiamo provate tutte". Non c’è un solo brano trascendentale in questo album, non ce n’è uno davvero brutto. I Tortoise depongono le armi, rinunciano ad ambizioni di progresso.

 

The Brave And The Bold (2006) è una bizzarra collaborazione con Bonnie 'Prince' Billy.

 

La parabola dei Tortoise segnala comunque, per l'ennesima volta, Chicago come la città di punta dell'avanguardia a stelle e strisce. Quasi incredibile, infatti, la concentrazione di talenti nella città del vento che Sam Preckop, leader dei Sea And The Cake, spiega così: "Se New York riflette il mondo così com'è, Chicago riflette il mondo così come dovrebbe essere".

Ovviamente anche questa recensione non l'ho fatta io.

Ciao ciao, alosireC!!

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Commenti al Post:
IlGelDelDiggei
IlGelDelDiggei il 13/02/06 alle 19:40 via WEB
Heyheyheyyyy!Questo è l' invito ufficiale del DIIIIIIIIGGGEIIIIII!!!L' ORGIA fest ha iniziooooo!Sluuuuuuurp!!!
(Rispondi)
IlGelDelDiggei
IlGelDelDiggei il 21/02/06 alle 22:46 via WEB
Amico...perdi troppo tempo a scrivere post troppo lunghi...le pupe si annoiano prima di arrivare alla conclusione... e niemte spliiiiiiiich!Parola del DIIIIIIIIIIGGGEIIIIIII!!!
(Rispondi)
volandfarm
volandfarm il 25/03/09 alle 04:32 via WEB
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