Fenomenologia&Musica
Riflessioni e spunti sulla filosofia sulla musica ed in generale su ciò che capita a tiro
Post n°9 pubblicato il 23 Gennaio 2008 da matty.faggio
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Post n°8 pubblicato il 07 Gennaio 2008 da matty.faggio
Schoenberg scrive il Pierrot Lunaire nel 1912 all'età di 38 anni. E' l'opera che lo rende visbile definitivamente nel panorama musicale europeo. Vi traspare come in Verlachte Nacht il suo dono melodico (per dirla con Ansermet) al massimo livello. Questo dato non è dovuto all'utilizzo di un'armonia estrema, anzi ne è offuscato. 1 Come vedremo il compositore è Colui che scrive musica e non si identifica totalmente con il Musicista (anche se la figura di Chopin avrebbe tutte le qualità per esserlo, se solo potessimo ascoltarlo suonare oggi). |
Post n°7 pubblicato il 19 Dicembre 2007 da matty.faggio
L'esperienza musicale è un'esperienza melodica. Siamo attratti da uno stimolo iniziale. Se l'esperienza fosse di tipo meramente sonoro, la fascinazione verso il fenomeno cadrebbe rapidamente. Ma sappiamo bene quanto la musica che ci prende più profondamente sia una tensione continua, un'attenzione che tra momenti più o meno concentrati non recede mai da quel legame iniziale che con un atto determinante ci introduce nell'ascolto (atto che la psicologia può anche definire inconscio, ma che per la fenomenologia è il momento più evidente nel quale si palesa la coscienza). Quindi la melodia, nella pulsazione ritmica, ci conduce, ci prende per mano e ci illustra un percorso. La sua essenza temporale ha una funzione salvifica oggi, periodo nel quale abbiamo completamente distorto la temporalità in senso scientifico, determinista, paralizzante. Ci riporta senza alcuna domanda, senza alcuna riflessione, al rapporto vero con un (ed uno solo) fenomeno presente nell'oblio di tutto il resto. In questi tutto il resto abbiamo un grande cerchio comprendente i fatti extra-musicali ed un piccolo cerchio che include i fatti musicali d'accompagnamento allo sviluppo melodico. Evito di parlare di questi due cerchi ma arrivo al dunque del processo in atto che descrivo. Siamo di fronte dunque ad una "concentrazione", un ricadere in implosione di tutte le nostre facoltà in una esperienza che ci porta per se stessa1 dentro un mondo vario, poliedrico, direi popolato di fenomeni sonori (assai diversi) ma che nel momento stesso nel quale ci spinge lì dentro non ci lascia per un secondo veramente spaesati, ma ci offre subito gli strumenti della comprensione, della appropriazione e del godimento2. 1 Espressioni come "per se stessa","in sè", ecc.. tipiche della fenomenologia indicano il ritrovamento di una evidenza di fronte alla quale non si può scendere ad ulteriori analisi: c'è veramente solo l'esperienza e la certezza (o la speranza) della fenomenologia che queste evidenze siano intersoggettive, riconducibili ad ambiti vitali presenti tali e quali in ciascuno. Le stesse parole non sono che un analogon di questa esperienza che espressioni come "per se stessa","in sè" cercano di riassumere ma non riusciranno mai ad animare. Infatti (ed è la mia esperienza personale) non vi è una comprensione graduale delle espressioni del tipo "in sè" ma solo una iniziale enigmaticità sostanziale seguita dalla improvvisa e chiara percezione del significato di queste parole. Da qui la vacuità della parola nell'azione diretta volta a rendere coscienti e responsabili le persone, ma anche la necessità della parola disponibile a tutti per rendere chiare e nette le prese di coscienza, nel momento in cui ciascuno di noi le incontra nella propria vita (la parola come presenza umana). Tristan Murail, compositore appartenente alla corrente degli spettralisti
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Post n°5 pubblicato il 29 Ottobre 2007 da matty.faggio
Pubblico una lettera (con qualche modifica successiva) che ho spedito ad Umberto Galimberti Le scrivo a proposito del suo intervento "Lo stupore e la fede" pubblicato su "D" di Repubblica. Le mie osservazioni riguardano due punti: 1) lo stato odierno della religiosità e 2) la risposta che ha dato al Lettore e quella che avrei dato io. 1) Mi meraviglio sempre quando intellettuali come lei (aggiungo ad esempio Scalfari) rimproverano alle gerarchie religiose e ai loro seguaci la perdita dell'originalità del messaggio cristiano. Io credo che voi sappiate quanto i fondamenti di quel messaggio siano penetrati a fondo nella civiltà occidentale; come essi siano la base (spesso rinnegata) delle più moderne teorie politiche, tra le quali anche il marxismo. Soprattutto essi hanno costituito lo sfondo indispensabile per la nascita del pensiero scientifico. La riscoperta dell'idealismo greco poteva avvenire solo in quel contesto cristiano. Il pensiero scientifico è quindi assai più debitore alla base cristiana che alla sua proiezione in chiave greca perchè innanzitutto ne condivide l'assioma di universalità dell'essere umano. Universalità dell'essere uomo che manca sostanzialmente nelle visioni dei filosofi classici greci. (Il corsivo si riferisce alla vicenda degli schiavi). Dunque uno dei due elementi fu sicuramente insostituibile ; l'altro probabilmente diede una energia di attivazione necessaria a risvegliare le coscienze contro la sclerotizzazione del pensiero cristiano cristallizzato nelle sue strutture politiche. Non mi interessa stabilre le priorità del cristianesimo, ma unire i fenomeni della religiosità monoteista (quando nacque) e della scientificità (quando nacque) sul piano unico delle più adeguate risposte ai problemi che l'uomo affrontò nella sua vicenda autocosciente. Quindi lei ha ragione ad affermare che "le menti degli uomini occidentali [sono state] rese sgombre della condizione estatica dello stupore". Ma credo che questa situazione ideale vada collocata nel tempo. La maggior parte della gente, leggendo simili considerazioni e altre dello stesso tono, purtroppo è portata a credere che l'uomo sia vissuto nella creduloneria per un paio di millenni. Ritorno al punto: oggi, lei come spera di poter influire su chi considera la costituzione del mondo una questione che si riconduce in primo luogo alla parola cristiana? Queste persone, vista questa priorità, non hanno nessuna speranza di comprendere la portata del dato scientifico ed il limite vero che esso ha in sè, pur adoperando quotidianamente rappresentazioni della realtà di tipo scientifico. Non si dovrebbe occupare il tempo (e molti lo fanno) ad impostare un dialogo che è al principio non impostabile. La ricerca di dialogo è appunto la conseguenza della percezione di due mondi separati e opposti che sono in realtà uniti per essenza già ora e non lo saranno, nel riconoscimento generale, grazie alla perseveranza di un colloquio impossibile. E' un errore che il filosofo e il sociologo1 di oggi commettono perchè, dal pari loro, non riescono a liberarsi completamente della mentalità scientifica sclerotizzata, il positivismo, che è oggi dilagante ed inarrestabile anche in coloro che individuano i problemi generati dalla mentalità scientifica e vi si oppongono. 2) L'ultima osservazione ci riporta al secondo punto. La situazione del ragazzo di Catania l'ho riscontrata in molti dei miei coetanei più brillanti ed io stesso l'ho superata con molti sforzi. La sua lettera conteneva due punti fondamentali: - il progresso tecnologico infinito - la possibilità che questo porti ad una conoscenza profonda di noi stessi, tramite la conoscenza esatta delle condizioni materiali che compongono la nostra persona. La faccenda dei miracoli2 è solo una riflessione particolare di questi presupposti. Comprendo benissimo che lei non si sia potuto soffermare per tre o quattro giorni (come ho fatto io) sull'ennesima lettera che riceve. Quello che non mi convince è il contenuto della risposta. Non ho trovato la negazione del valore del progresso tecnologico. Questa avrebbe portato ad affermare che la più esatta definizione dei processi neuronali fino alla totale prevedibilità dei medesimi, casomai l'umanità si decida veramente a conseguirla, non sposterà di un centimetro la risposta all'urgenza di autocomprensione che l'uomo da sempre ha. L'autocoscienza realizzata è molto più profonda e molto più semplice allo stesso tempo e soprattutto sorge volontariamente da esigenze e percorsi soggettivi e non potrà mai essere imposta per legge scientifica, grazie allo studio degli accidenti galileiani. Il dramma paradossale dell'Occidente è che è percorso da "fatti" che indicano la via a questa semplicità e da persone, da coscienze semplici che la negano sempre più e, per via di quella falsa percezione di progresso, si rifugiano nella complessità; di più, nel valore della complessità come segno inequivocabile del moderno. Ma la complessità porta ad un'oscurità, a non poter percepire il tutto chiaramente, ma solo il tutto nelle sue varie parti di volta in volta. I vari lati del rapporto con il mondo che non sono congruenti tra loro generano una domanda interiore di unità. Se l'uomo non si libera di quelle rappresentazioni che lo hanno condotto alla sua incongruenza, allora lì può inserirsi un principio unificante esterno: il miracolo, o la fede nella comunità scientifica (bel modo di delegare una responsabilità individuale e concretamente controllabile ad una entità collettiva ed astratta) o più sottilmente, la fede nella ragione che a parere mio traspare dalle sue ultime parole rivolte al ragazzo di Catania. Solo questa "fede" (mi passi il termine e non lo paragoni ad un fede dogmatica) può paventare un "oceano dell'irrazionale" che io non trovo nella storia umana. A parer mio le più atroci efferatezze, come il nazionalsocialismo hitleriano, nascono nella medesima rappresentazione di fondo dell'uomo che , nell'esempio del nazismo, scaturiva dal positivismo di fine Ottocento. Parlo di fatti orrendi, ripugnanti, atroci ma non irrazionali. (Mann scrive, secondo me inconsapevolmente, pagine illuminanti sul rapporto intellettualismo-barbarie nel Doktor Faustus). Quei fatti, però, non sono altro dall'uomo come vuol far passare la storiografia occidentale. Sono il segnale di un problema, di una richiesta la cui risposta è tutt'altro che nelle democrazie occidentali e nei filosofi che sono venuti formandosi. Essi non hanno colto che la genesi del fenomeno nazista non risiedeva proprio nelle dure condizioni imposte alla Germania nel primo dopoguerra o nella follia che di tanto in tanto funge da valvola di sfogo della ragione. Torno alla ragione. Credo che non si possa trasmettere un'immagine minimalista di essa. L'isola dei "buoni ragionamenti, anche se modesti", "utili per garantire..". Un filosofo deve avere il coraggio di andare a fondo e scegliere. O abbracciare quella ragione che permea i grandi problemi della modernità. O lasciarla a favore della coscienza chiara di se stessi cercando di comunicare questa possibilità quanto più possibile. La semplicità del messaggio porterà meno concetti e libri da scrivere ma più "vita" da comunicare. Ad esempio, a parere mio, occorreva separare definitivamente questa apparente unità tra ragione ed autocoscienza e rispondere a quel ragazzo che le ha scritto: "Caro Davide, se lei ha scelto di studiare biologia, come son convinto, per questi e questi altri motivi lasci perdere serenamente perchè lei non solo ha sbagliato mira ma ha le spalle rivolte al bersaglio". 1 La cosa è meno grave per il sociologo che, a differenza del filosofo, non ha alcuna possibiltà di ottenere dalle sue metodologie alcunchè di essenziale sulla cosiddetta società. 2 Egli si chiedeva se con le future scoperte in campo scientifico si sarebbero potute eliminare (su che piano?) le false credenze che i miracoli generano. |