Creato da Franzhi il 13/06/2006

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9 - Siracusa

Post n°56 pubblicato il 02 Novembre 2007 da Franzhi
 

13 agosto 2007. Stamattina sembra che tutti abbiano deciso di andare a Siracusa, procediamo da un po’ a rilento, rigorosamente incolonnati. Poi però il traffico si fa più fluido. Diversamente dalla rivoluzione di rotatorie in atto dalle nostre parti, qui resistono ancora semafori ed incroci a raso, ecco il perché di tutta questa coda. Siamo a Siracusa che è quasi mezzogiorno, la Necropolis ed il Teatro Greco riflettono il sole accecante che riverbera sulle pietre dell’area archeologica. Rispetto all’ampiezza degli spazi incontrati nella Valle dei Templi, qui le superfici di visita sono molto più contenute, a ciò si aggiungono anche alcuni percorsi chiusi per dissesto, che riducono ulteriormente le possibilità di allungare il giro. In buona sostanza, stando così le cose, la massa turistica si divide tra le due attrazioni principali del luogo, il Teatro Greco e l’Orecchio di Dionigi.
Sul teatro non c’è molto da dire, è rimasto abbastanza ben conservato nonostante gli scempi subiti nel corso dei secoli. A perenne testimonianza delle scelleratezze antiche rimane la “casetta dei mugnai”. Si tratta di un edificio che si erge sulla sommità della cavea e che, insieme ad altri mulini, fu fatto costruire dopo la seconda metà del Cinquecento dal marchese di Sortino, tal Pietro Gaetani. Questi riattivò a proprie spese l’antico acquedotto che portava l’acqua sulla sommità del teatro, favorendo l’insediamento di diversi mulini costruiti proprio a ridosso delle gradinate del teatro. Non so dire se questo Marchese abbia fatto i suoi interessi o sia stato considerato un benefattore della città, certo che il gusto estetico tanto decantato del Rinascimento Italiano deve avergli fatto un baffo a lui.
L’orecchio di Dionigi invece è un'antica cava di pietra situata nella Latomia del Paradiso, che grazie alla sua particolare forma ad orecchio d’asino - narra la leggenda - consentiva al tiranno di origliare persino i bisbigli dei prigionieri. Pare, infatti, che la particolare conformazione della grotta consenta di amplificare i suoni che si producono al suo interno fino a sedici volte.
A questo punto, mi sembra chiaro che per apprezzare l’acustica del posto sarebbe necessario potersi appostare, come faceva il Tiranno, all’interno di una cavità superiore posta verosimilmente vicino alla volta, quindi ben 60 metri sopra le nostre teste. Ma questo non è possibile. Mi chiedo allora perché, qui dentro, tutti continuano ad urlare per vedere l’effetto che fa. La guida di una comitiva ha appena avuto una crisi di identità e, credendo di trovarsi ancora nel teatro, si è messa a cantare a pieni polmoni l’aria di un’operetta con voce da tenore di belle speranze. Cerco di intrufolarmi fino a raggiungere il punto più profondo della grotta, ma la musica non cambia. Mi conforta solo notare che i turisti stranieri sono tanto idioti quanto noi italiani - che solitamente non difettiamo nel farci riconoscere. Ci sono due tedeschi sbronzi che cantano abbracciati una canzonetta da Oktober Fest. Allargo le braccia, guardando Giò, e ci avviamo verso l’uscita della Latomia, sommersi dall’applauso che benedice la chiusura della performance della guida.
Me ne sto appoggiato alla staccionata di legno cadente che contorna l’area Romana della zona archeologica, mentre Giò è in giro a fare qualche foto.
I brontolii della pancia mi ricordano che l’ora si è fatta tarda, recupero la mia fotoreporter e concordiamo sull’opportunità di andare a sgranocchiare qualcosa nell’isola di Ortigia, culla e centro storico di Siracusa. Lasciamo la macchina appena superato il ponte Umbertino, che la collega alla città e ci avviamo per fare quattro passi in giro. Ci fermiamo in Piazza Archimede per uno spuntino, al riparo dal sole, mentre dalla fontana di Artemide zampilli d’acqua trasmettono una sensazione di placida freschezza. Il gruppo della fontana, mi dice Giò, raffigura la trasformazione della ninfa Aretusa in sorgente. Memore del mio sogno, rispondo, che non possiamo non andare a vedere la “palude” decantata dal signor Franco. Lei annuisce divertita, paghiamo il conto e ci incamminiamo verso la piazza del duomo e poi al cospetto della fonte Aretusa. Chiamarla “Palude” mi sembra quantomeno improprio, anche se è vero che all’interno dello specchio d’acqua in cui si riversa la sorgente sono presenti numerose piante di papiro spontanee, che possono giustificare l’associazione della fonte ad uno stagno (ma ad una palude proprio no!). Tra i papiri si sollazzano numerosi pennuti. Quattro o cinque paperette ci vengono incontro baldanzose, Giò è molto divertita dal loro andare. Le osservo anch’io un po’ incuriosito dalla loro andatura allegra, continuano imperterrite e goffe a camminare verso di noi, finchè, come ad un segnale prestabilito si tuffano nell’acqua della Fonte Aretusa, chiamata dai siracusani anche “fontana delle oche”.


(Continua)

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