Creato da Franzhi il 13/06/2006

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Post n°52 pubblicato il 30 Settembre 2007 da Franzhi
 

9 agosto 2007. A Palermo ci siamo già venuti, io e Giò, insieme, l’anno scorso. E questa volta decidiamo di dedicarci alle sue spiagge. È una bella giornata di sole, salutiamo Gigi e ci avviamo verso Mondello. Dopo aver familiarizzato con i guidatori di Bagheria l’ultima prova rimane il test drive tra le vie del capoluogo. Mi avvicino guardingo al centro della città, vado cauto e con attenzione, preferisco lasciarmi superare piuttosto che rischiare qualcosa. Mi metto nella mia corsia e buono, buono avanzo. Fermo al semaforo, conto quattro macchine al mio fianco, due a destra e due a sinistra, ma la strada avrà si è no tre corsie. Davanti a me si apre uno spazio vuoto, largo almeno quanto una corsia intera, il cui accesso risulta ostruito dal muro costituito da cinque macchine allineate come su un nastro di partenza, tra cui la mia. Vedi, mi dice Giò, qui non è come da altre parti, è diverso. Non contano le corsie, quello là, continua indicando avanti con il dito, è semplicemente spazio vuoto da riempire, pigi sull’acceleratore e vai, finché si può. La sua interpretazione mi fa sorridere, ma ha un fondo di verità. Il semaforo diventa verde, il tizio con la golf scassata qui a destra, mi sta addosso, fianco a fianco, ormai da quattrocento metri, e con aria indifferente tenta di infilarsi. Mi hai proprio rotto il cazzo! Dico guardando avanti e accelero. Sono entrato nel sistema.
In ingresso a Mondello siamo scortati da un Apecar verde, con un tizio in piedi, sistemato sopra il cassone posteriore, appoggiato con i gomiti alla cupola dell’abitacolo. Avesse un bel cappello, stivali e frustino, sarebbe un nocchiero perfetto. Invece, ha un paio di sandali rotti, dei pantaloni corti rossi e una canotta arancione, vistosamente chiazzata, appena sufficiente a coprirgli la pancia. In bocca, uno stecchino, e la mano destra a stuzzicare le gengive, mentre gli occhi si perdono a guardare in giro disinteressati. Abbandoniamo la scorta e svoltiamo a destra per Addaura, una spiaggia di rocce poco sopra Mondello che, a detta di Gigi, vale la pena vedere e che pure potrebbe risultare meno caotica della più celebre spiaggia di sabbia bianca poco più avanti.
A guardare i picchi di roccia che sovrastano la spiaggia, distesi dagli scogli, si potrebbe pensare d’essere in montagna, salvo poi essere smentiti dal rumore delle onde che cozzano placide contro i faraglioni qualche metro più in là. Decido di fare un tuffo nell’acqua cristallina, poi ci metto mezz’ora a risalire, ma ne valeva la pena.
Per ora di pranzo ci spostiamo a Mondello, vinti dalla curiosità di vedere la famosa spiaggia e, aggiungerei, stanchi di perdere gli infradito tra gli scogli appuntiti, rischiando di brutto.
Affondiamo i piedi nella sabbia chiara con gran sollievo, chiudo gli occhi e a tratti sembra di camminare sulla farina, quella doppio zero, che si usa per fare i dolci. All’orizzonte il mare assume progressivamente quattro o cinque tonalità di azzurro diverse prima di contendersi il possesso della linea con il cielo: azzurro trasparente, azzurro chiaro, azzurro verdognolo, blu marino, blu cobalto. Ma per il resto, aveva ragione Gigi, Mondello è davvero caotica, riusciamo a stendere gli asciugamani tra i piedi piatti di un signore attempato con le gambe glabre e gli zaini di una comitiva di ragazzi del posto e ci avviamo a fare il bagno nell’acqua calda del mare. Qualche raggio di sole filtra ancora tra le nuvole e l’idea che fornisce la baia nel complesso, è quella di un gran brodo primordiale, nel quale si immergono, con la stessa noncuranza, persone, cose e, in alcuni casi, rifiuti. Come quei pezzi di polistirolo, leggiadramente sparsi da una bambina con un due pezzi rosa, che il mare e la spiaggia si stanno giocando in un batti e ribatti infinito. Mi addormento e poi mi sveglio disturbato da poche gocce che cadono dal cielo scuro. Decidiamo di levarci dalla bolgia e andare a Cinisi, Corso Umberto, 220.
La signorina del navigatore non conosce però il numero e ci fa andare al termine di Corso Umberto, ma dalla parte opposta, rispetto alla nostra destinazione finale. Parcheggio e risaliamo la via a piedi. A prima vista Cinisi non sembra molto più di queste due strade che si incrociano. Il cielo continua ad essere minaccioso, ma non piove, lungo la strada ci sono diversi vecchi seduti su una sedia fuori della porta di casa che guardano le macchine passare.
Arriviamo da Peppino, e poi Giò dice andiamo via. Non so bene cosa sia stato a farla decidere così, ci teneva così tanto a vedere questa casa, della quale visitiamo solo un ampio ingresso, tempestato di foto, articoli, poster, manoscritti appesi ovunque e un balcone vistoso che da’ sulla strada. Ti faccio almeno una foto, dico io, immerso nel ruolo del vero turista. C’è una targa appesa al muro, fuori della casa, dice “A Giuseppe Impastato assassinato dalla mafia il 9 maggio 1978”, ci potrebbe stare, una foto, con quella scritta, ben evidente, sullo sfondo. Lei fa di no con la testa, capisco che non è il caso di insistere. Quando Giò fa così, vuol dire che ha le sue ragioni e ridiscendiamo il corso in silenzio, disturbati solo dal rombo delle macchine che ci corrono a fianco, gli sguardi silenziosi dei vecchi non ci toccano.

(Continua)

 
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