Creato da geppinomonti il 18/07/2009
problemi e trasformazioni nel mondo globale

Area personale

 

Archivio messaggi

 
 << Maggio 2024 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
    1 2 3 4 5
6 7 8 9 10 11 12
13 14 15 16 17 18 19
20 21 22 23 24 25 26
27 28 29 30 31    
 
 

Cerca in questo Blog

  Trova
 

FACEBOOK

 
 

Ultime visite al Blog

giusierquintopoterelubopol.lapentaantoiann60claudiobianchi.aiscangelo21dgl3vidalinacarlogambesciamepozzz333.fnicholascage2mariofragomeligiov811sfpdolcip2pollon
 

Chi puņ scrivere sul blog

Solo l'autore puņ pubblicare messaggi in questo Blog e tutti gli utenti registrati possono pubblicare commenti.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 

 

Flavio Santi, Tutti vogliono la poesia, purchč non si occupi di politica

Post n°114 pubblicato il 30 Novembre 2009 da geppinomonti

Tutti vogliono la poesia, purchè non s'occupi di politica

  • DA  gli altri 
di Flavio Santi

La poesia c'è e sta facendo incazzare il Palazzo. Un e-book di poesia dal titolo Calpestare l'oblio, che raccoglie quarantadue testi di trenta tra i principali poeti di oggi
(Roberto Roversi, Gianni D'Elia, Alberto Bellocchio, Giuliano Scabia), nato per iniziativa del giovane e battagliero sito di poesia La gru (www.lagru.org), poi diffuso sui siti di Micromega, Reset e dell'Unità, sta mandando in cortocircuito la stampa italiana.
Fioccano gli articoli per criticare l'operazione: l'accusa più citata è quella dell'ennesimo gesto antiberlusconiano. In realtà si tratta di poesia che parla delle lacerazioni dei nostri giorni: Berlusconi c'entra perché è uno dei principali attori, se non responsabili. Ma quello che sorprende di più è come un'antologia di poesia susciti tutta questa agitazione. Manco se tra i poeti figurasse l'esimio Sandro Bondi. Forse c'è qualcosa di più profondo. Detto molto brutalmente: forse l'alzata di scudi che c'è stata evidenzia il problema dei problemi? La volontà cioè da parte di questo governo, con le sue propaggini informative, di azzerare il senso critico e rendere l'omologazione l'unico modo di agire e pensare. Questo Governo ci vuole tutti lobotomizzati. E l'idea che un mezzo di comunicazione da sempre ribelle e critico come la poesia - che è, sì, apparentemente sommersa e nascosta ma in realtà gode di grandissima salute e grandissima energia - possa mettere in luce tutto ciò, fa tremare le vene ai polsi di politici, governanti, direttori di giornale compiacenti e mass media più o meno a zerbino.
Perché una cosa questi signori la sanno. Sanno che i giovani vogliono poesia. Gli adulti vogliono poesia. Tutti vogliono poesia. Contro il grigiore dei propri tempi e delle proprie vite. Cioè tutti vogliono vivere emozioni, pensare con il proprio cervello, comunicare e confrontarsi.
Il problema allora qual è? Che questo vuoto esistenziale viene di solito colmato con quello che c'è, che è di pessimo livello: da X Factor al Grande Fratello, da Porta a Porta ad Amici. Però se c'è qualcosa di intenso e profondo, gli italiani lo scelgono con piacere: emblematico il caso dello special con Saviano che ha fatto più ascolto di X Factor.
Che i giornali di destra si sentano in dovere di attaccare (attaccare, non criticare) l'antologia non è poi così prevedibile. Si diceva: la poesia è scomparsa dai quotidiani. Certo, quella innocua, petrarchesca, che non dà fastidio - cioè il 99,9% ahimè della poesia italiana. Ma quella che si confronta con la realtà, con la politica, quello 0,1%, be' quella percentuale per quanto bassa è maledettamente fastidiosa. A quanto pare.
Che sul Corriere della Sera si scomodi addirittura un pezzo da novanta come Pierluigi Battista, ci sembra eloquente. Poi c'è l'approccio generale dei giornali, che è quello tipico della censura quando vuole apparire distaccata e neutra: lo scherno. E questo è piuttosto preoccupante: non si critica l'operazione in maniera seria e dettagliata (legittimo, anzi quanto mai auspicabile), ma si cede allo sfottò. Dunque si scelgono i versi meno riusciti su centinaia di versi efficaci e memorabili, per puntare il dito e dire: «Vedete, che inutile e compiaciuta retorica!». Veramente la retorica è nelle canzonette e nei filmetti che tutti i mass media si precipitano a celebrare ogni giorno. Si tirano in ballo i grandi poeti della passata tradizione civile, come a dire: «Loro sì che valevano».
Veramente proprio quei grandi poeti civili or ora menzionati subivano ai loro tempi lo stesso trattamento, se non di peggio. Insomma non si elabora un pensiero, ma si producono degli slogan. Quando invece quell'antologia basterebbe leggerla, per scoprire che ci sono poeti di livello internazionale come Roberto Roversi, il decano dei poeti italiani, amico intimo di Pasolini; Gianni D'Elia, amato da Luzi e Fortini; Alberto Bellocchio, fratello del regista Marco e finissimo poeta; Franco Buffoni, illustre comparatista che le migliori università al mondo ci invidiano; Stefano Sanchini, brillante filosofo emigrato in Francia, ecc.
Un po' come se - si parva licet - della Divina Commedia si scegliessero i cinque o sei versi meno riusciti per dire: «Ma guardate che schifezza, quel Dante non sapeva tenere la penna in mano». Be', troppo facile. Inutile dire che un atteggiamento del genere fa torto all'intelligenza degli estensori degli articoli.
Loro, ovviamente, non lo ammetteranno mai, ma forse c'è qualcosa che li infastidisce nel profondo. Perché, evidentemente, c'è qualcosa nel cuore e nella testa degli italiani che non si riesce ancora a controllare e orientare come si vorrebbe.
Forse questo e-book, nato in modo così artigianale e naturale, è l'inizio di qualcosa di nuovo e importante. Che è poi qualcosa di antico e vitale: vivere, emozionarsi, sentire, pensare.
  

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Luis Sepulveda, L'ombra di quel che eravamo

Post n°113 pubblicato il 30 Novembre 2009 da geppinomonti

 

di Francesco Sasso

Diamo notizia della recente pubblicazione del romanzo L’ombra di quel che eravamo (Guanda 2009) di Luis Sepúlveda, opera che evidenzia la più viva rappresentazione dei problemi politici e le trasformazioni sociali della vita in Cile, utilizzando in modo ironico e disincantato i meccanismi del poliziesco.

Il romanzo si apre con la morte accidentale di un uomo vestito di nero con una pistola nella fondina. Il tizio è in strada sotto una pioggia incessante quando un vecchio giradischi, lanciato nel vuoto da una finestra, gli sfonda il cranio e l’uccide. L’assassino è una donna cilena che, durante una lite coniugale, ha cominciato a lanciar fuori della finestra gli oggetti prediletti del marito (giradischi, libri di letteratura sociale, dischi con i classici della canzone di protesta). Quest’ultimo, in gioventù, fu un invasato filocinese, ma con il passare degli anni, incalzato dalla delusione, si è trasformato in un indolente cultore di film americani con scarso amore per il lavoro. 

 

 In tutt’altra parte della città, tre ex perseguitati dalla dittatura, oramai anziani e disillusi, decidono di riunirsi dopo più di trent’anni in un garage in disuso a Santiago del Cile. Hanno un appuntamento con “Lo Specialista”. I tre compagni sono stati militanti di Allende e, successivamente, perseguitati politici costretti a nascondendosi in Cile o a fuggire in Europa.

Aspettano l’arrivo dello Specialista. Nel mentre, i tre iniziano a raccontare la propria vita mancata e ad evocare i comuni ricordi, mangiando pollo arrosto e bevendo vino rosso. L’incontro dei tre vecchi compagni, che ovviamente mette in risalto la decadenza fisica dei protagonisti e l’inesorabile fallimento esistenziale, favorisce lo scatenarsi del fondo “rivoluzionario” del loro animo.

Contemporaneamente, mentre Santiago del Cile è assediata dalla pioggia, nel suo ufficio l’ispettore Crespo viene informato da una giovane agente di polizia della morte di Pedro Nolasco Gonzàles, popolare anarchico cileno. E’ stato trovato in strada con il cranio fracassato e senza scarpe. La combinazione vuole, dice l’agente di polizia, che sulla stessa strada e nelle ore dell’omicidio, una coppia ha denunciato un furto nel proprio appartamento. L’indagine appare semplice. L’ispettore decide di andare a trovare la coppia.

E qui, com’è mio solito, mi fermo per non rovinarvi la lettura del romanzo.

Il romanzo è un poliziesco “mancato” (sin dalla prima pagina sappiamo chi è l’assassino). Abile lo spirito demistificatorio con cui lo scrittore cileno riprende scene da film americani, per esempio Le Iene.

Con L’ombra di quel che eravamo, Luis Sepúlveda ci offre un modello di come sia possibile scrivere romanzi leggeri e pieni di ironia senza abdicare al proprio ruolo di scrittore impegnato a denunciare l’ingiustizia e la corruzione in Cile.

  f.s.

[Luis Sepúlveda, L’ombra di quel che eravamo, traduzione di Ilide Carmignani, Guanda, 2009, 149 pp, € 14,50]

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Claudio Magris, I barbari della porta accanto

Post n°112 pubblicato il 30 Novembre 2009 da geppinomonti

 

I barbari della porta accanto
Data di pubblicazione: 30.11.2009
Un nuovo libro del fecondo Gian Antonio Stella, dedicati all'odio per l'Altro che è riemerso tra noi. Corriere della sera, 30 novembre 2009
Se tutti fossero come il signor Franz Liebhard, Gian Antonio Stella non avrebbe potuto scrivere il suo libro Negri froci giudei & Co . L’eterna guerra contro l’altro , ma il mondo sarebbe più vivibile. Nel 1917, il signor Liebhard si chiamava ancora col suo vero nome — posto che ne esista per ognuno di noi uno «vero» — ossia Reiter Róbert e scriveva, in ungherese, ardue poesie sperimentali su riviste d’avanguardia. Alcuni anni dopo scriveva, firmandosi Robert Reiter — ossia alla tedesca e non più secondo l’uso magiaro di anteporre il cognome — liriche in tedesco, un po’ meno ardite. Dall’inizio degli anni Quaranta, ha cominciato a scrivere — assumendo il nome di un amico minatore morto in un incidente, Franz Liebhard — tradizionali poesie, sempre in tedesco e in rima, che parlano di boschi, fiori e cieli stellati ed è divenuto un poeta della minoranza tedesca del Banato, in Romania (dalla quale proviene Hertha Müller, premio Nobel di quest’anno), oggi pressoché scomparsa. Come dice lui stesso, ha imparato «a pensare e a sentire in più popoli». 
Chissà come Franz Liebhard, Reiter Róbert e Robert Reiter si sopportavano a vicenda, se vivevano bene insieme o se si guardavano in cagnesco, come facevano, in quelle terre multietniche e multiculturali, ungheresi, tedeschi, romeni, serbi e così via, vicini di casa pronti a scannarsi alla prima occasione e convinti, ognuno, di essere l’unica nazionalità legittima di quei Paesi e in ogni caso la migliore. Ogni gruppo, ricorda Stella nel suo libro — che è un potente, ferocemente ilare e doloroso dizionario o prontuario universale di tutte le ingiurie, odi e pregiudizi nei confronti del diverso d’ogni genere — si ritiene superiore a tutti gli altri, che disprezza e respinge. 
I barbari, egli ricorda, sono dappertutto e la loro presenza illecita comincia dovunque davanti alla porta di casa; per i vecchi di Rialto gli unici veneziani autentici sono loro, che si considerano il centro del mondo, mentre già oltre il Ponte de la Libertà che porta in terraferma ci sono «gli altri» e sarebbe meglio che non ci fossero. D’altronde pure la Cina si è sempre considerata il centro del mondo e non solo i nazisti o i bianchi in genere, ma pure i neri loro vittime hanno elaborato teorie e miti di superiorità razziale e culturale; tutto ciò ha portato a violenze inenarrabili sotto ogni cielo e in ogni tempo, inflitte certo generalmente dai più forti, ma anche dai più deboli quando ne hanno avuta la possibilità. Persecutori e perseguitati sono talora le stesse persone, in momenti diversi e in rapporto a persone diverse; quasi all’inizio del libro Stella pone, con uno di quei caustici colpi d'ala di cui è maestro, la persecuzione feroce subita, da parte degli inglesi, dai boeri, peraltro conosciuti quali feroci segregazionisti e persecutori dei neri. 
Ogni popolo, ogni cultura, ogni angolo di rione, ogni chiesa si macchiano di queste turpitudini, in cui dalla comica stupidità all’efferata crudeltà il passo è talora breve; il diverso, deriso o anche massacrato, dimostra Stella, non è solo lo straniero ma può essere l’abitante della stessa provincia, che parla il medesimo dialetto ma con qualche sfumatura differente. Stella e Rizzo hanno scritto un celebre libro sulla casta dei politici; ogni gruppo si costituisce come una casta, chiusa alle altre. 
In un acutissimo saggio José Angel Gonzalez Sainz ha analizzato i meccanismi e i dispositivi con cui si creano nella testa delle persone i sentimenti e i modi di percepire gli altri, gli estranei. 
Lo stupidario del razzismo non basta; rischia di rendere il suo lettore compiaciuto della propria apertura di mente e della propria civiltà rispetto alle litanie dell’odio, della paura e della povertà di spirito e di non preoccuparsene troppo. Resta la domanda, posta dal titolo di un libro di Cernyševskij che era caro a Lenin: Che fare? 
Anzitutto, per fare realmente i conti con questo dramma, occorre sapere che nessuno è immune da pregiudizi verso l’altro, anche se non lo sa. I razzisti dicono che i neri puzzano e i liberali sanno che anche i bianchi, per i neri, puzzano. È già qualcosa, ma non basta. Ognuno di noi ha dentro di sé, anche inconsapevolmente, il suo diverso da rifiutare o il momento in cui, magari per un attimo, rifiuta qualche diverso; occorre sapere che, almeno in qualche momento di caduta spirituale e intellettuale, anche noi riteniamo a priori qualcuno più puzzolente degli altri. È questo il peccato mortale che ci insidia e tranne qualche rarissimo santo — ma forse anche lui — ognuno è un peccatore. 
Credo che i miei genitori mi abbiano dato un formidabile vaccino contro ogni razzismo, proprio perché non mi hanno mai detto che non bisogna essere razzisti, così come non mi hanno mai detto che non si pranza in gabinetto, ma semplicemente col loro modo di essere — di lavorare, divertirsi, volersi bene, litigare, parlare — creavano un mondo in cui era impensabile essere razzisti o portarsi gli spaghetti al cesso. Tutto ciò vale più di ogni predica. Ma non sono sicuro che, se fossi ripetutamente derubato da qualcuno appartenente a un determinato gruppo, non mi lascerei andare stupidamente a un’indistinta ira verso tutto il suo gruppo. Solo se mi rendo conto di correre anch’io il rischio di rientrare nello stupidario dei fanatici posso combatterlo realmente; altrimenti cadrei anch’io nella loro presunzione di incarnare la civiltà contro i barbari e ciò vale ovviamente per tutti. 
Ogni convivenza, inoltre, è difficile; non a caso tanti matrimoni naufragano e non solo quelli fra bianchi e neri. Essa esige non solo il nostro rispetto dell’altro, del diverso arrivato fra noi (chi sono poi questi noi?), ma anche il suo rispetto nei nostri confronti. Se un mio vicino provenisse da una cultura in cui si passa la notte a far baccano, io avrei qualche problema e dovremmo fare entrambi uno sforzo, io di sopportare un po’ di più il chiasso e lui di farne un po’ meno. Ma soprattutto non si può ignorare la possibilità di conflitti reali tra sistemi di valori inconciliabili, fra i quali è inevitabile scegliere con decisione: rispetto a me, al mio sistema di valori, un nazista fautore della Shoah è indubbiamente un «diverso», ma in questo caso la sua diversità è inaccettabile e devo assumermi la dolorosa responsabilità di combatterla. 
La diversità, ha scritto Predrag Matvejevic, non è di per sé ancora un valore, né la mia né quella dell’altro, ma il suo valore dipende dal rispetto che essa ha — o non ha — nei confronti della dignità di tutti gli uomini. Non c'è da vergognarsi ma neppure da inorgoglirsi di essere «diversi» (da chi?). Chi è stato ingiustamente perseguitato tende inoltre a considerarsi tale anche quando non lo è più, sentendosi gratificato da tale qualifica. Ma in tal modo, osserva Glissant — grande scrittore nero discendente di schiavi — si rimpicciolisce e perde signorilità nei rapporti col mondo. 
L’uguaglianza, è stato spesso osservato, può essere pericolosa e totalitaria, può implicare il livellamento di tutte le civiltà, cultura e tradizioni costrette a uniformarsi a un unico modello, quello della società più forte; nel nostro caso, al modello occidentale. Ma proprio perché condanniamo le infamie commesse dall’Occidente — le guerre e le persecuzioni religiose, la tratta degli schiavi, il colonialismo, la Shoah perpetrata da una delle più grandi nazioni d'Europa — non possiamo abdicare a quei principi universali in base ai quali condanniamo quelle infamie. Ad esempio, nessuna cultura altra o diversa può farci deflettere dal principio della pari dignità di ogni essere umano a prescindere dalla sua identità etnica, culturale, sessuale o religiosa. Le minoranze, specie quelle nazionali, hanno bisogno di leggi che le tutelino ma senza ledere il principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini. È sconcertante, ad esempio, che nel Québec, ha ricordato Charles Taylor, la legge 101 sulla scuola vieti sostanzialmente ai francofoni e agli immigrati di iscrivere i loro figli a scuole di lingua inglese, mentre lo consente ai canadesi anglofoni. 
Per evitare l’eterna guerra contro l’altro, una politica responsabile deve cercare di evitare il crearsi di situazioni di conflitto che esasperino i pregiudizi, i risentimenti, le paure e le conseguenti violenze. Domani, ad esempio, il numero di immigrati — ossia di nostri concittadini del mondo giustamente desiderosi di sfuggire a un destino orribile — potrebbe divenire così grande da rendere materialmente impossibile l'accoglienza, al di là di ogni stolido e crudele pregiudizio; se tutti i dannati della terra arrivassero in Italia, non sarebbe fisicamente possibile accoglierli tutti e sarebbe una tragedia. 
Sul nostro futuro — sul futuro dell’umanità — incombe la minaccia di questa tragedia. Nessuno, credo, è così geniale da sapere come stornarla. Nel frattempo, un modo di arginare l’eterna guerra contro l’altro sarebbe quella di considerare come «altri» tutti, compresi noi stessi. Potremmo prendere esempio da un’anziana donna del Banato di cui ho parlato in un mio libro, nonna Anka. Questa donna, figlia di quella terra multiculturale straziata dall’odio di tutti contro tutti, parlava male di tutte le nazionalità della sua terra, compresa quella che considerava più sua, la serba. Diceva peste e corna di tutti i diversi e di tutti gli altri, ma sapendo di essere anche lei una diversa, un’altra e di meritare alcune di quelle strapazzate. Aveva ragione, perché siamo tutti dei lazzaroni e in questo riconoscimento della comune miseria ci può essere più concreta fraternità che nei bei discorsi politicamente corretti in cui tutti, i diversi e i non diversi, vengono elogiati come brave persone. 

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Kelebek, L'immaginario islamofobo

Post n°111 pubblicato il 30 Novembre 2009 da geppinomonti


lunedì, 23 novembre 2009

Pierfrancesco Prosperi, Gianfranco De Turris e l'immaginario islamofobo

Gli immaginari sono la cosa più solida con cui ci identifichiamo: finché il cielo non ci cadrà in testa, saremo cattolici, oppure di sinistra, oppure camerati... Toglietemi tutto, ma la mia bandiera no (l'eco pubblicitaria è voluta).
Però succede una cosa strana.
Gli immaginari vivono strettamente a contatto con il dominio, il potere e la politica. E per questo, in un'epoca di vorticosa comunicazione come la nostra, si mescolano in maniere straordinarie, mutando incessantemente di significato. E' di questi giorni la notizia che  i gestori dei locali da ballo della Val d'Aosta hanno deciso di imporre il crocifisso nei locali di spaccio di ecstasy e di smercio di superalcolici su cui si arricchiscono.
Il senso del nostro blog sta proprio qui: seguire questo rimescolamento incessante.
Prendiamo la strada che ha fatto un romanzo, La Casa dell'Islam, di Pierfrancesco Prosperi, per arrivare alla mia attenzione.
Su una bella mailing list molto laica, che associa tematiche libertarie, transgender e anarchiche, un signore molto, molto anticlericale e ateo posta il testo copincollato di un'esaltata recensione di questo libro. 
Non vuol dire molto: anch'io rivendico il diritto di copincollare ciò che voglio e di condividere una buona idea, qualunque ne sia la provenienza.
Ma questo signore è un anticlericale a campo singolo. Ogni suo post è una variazione sullo stesso tema: abbasso i preti, abbasso le religioni. E infatti lui condivide un elemento del testo, che è la sua evidente islamofobia.
Il testo in questione lo ha preso di peso dal blog Liberali per IsraeleLiberali per Israele è un sito Guns 'n Moses, per citare le parole che appaiono sulle magliette di alcuni sionisti: Israele, avamposto dell'Occidente contro la barbarie dalla pelle scura. E quindi anche Liberali per Israele si eccita per l'islamofobia del libro di Pierfrancesco Prosperi.

 


Abbiamo spogliato il testo di due passaggi, e adesso ci appare nella sua nudità: Liberali per Israele ha copincollato un articolo pubblicato sul Giornale, il quotidiano che riesce a mettere insieme la testa di Vittorio Feltri e i soldi di Paolo Berlusconi. I quali notoriamente accettano qualunque cosa sia islamofoba, perché l'Islam è una forma di comunismo.
L'autore è Gianfranco De Turris, raccomandato di ferro delle Destre governanti, presidente della Fondazione Julius Evola e autore (tra l'altro) di Elogio e difesa di Julius Evola, pubblicato dalle Edizioni Mediterranee
Qui, senza demonizzare nessuno, scopriamo un altro mondo, fatto di Occidenti immaginari nel caso di Evola, e di astrologhi, maghi e sensitivi nel caso delle Edizioni Mediterranee, da sempre fulcro del neospiritualismo in Italia. Mettiamo da parte l'infantile strillo, "aiuto, i fascisti!": più seriamente, le Edizioni Mediterranee, di cui Gianfranco De Turris è "consulente editoriale", ha fatto più di chiunque altro per sdoganare, nell'Italia cattolica, forme "alternative" di religione, visioni atlantidee e spiritiste del tutto inconciliabili con la fede cristiana.
Nel caso di De Turris, possiamo immaginare che l'islamofobia abbia quindi un altro senso ancora: una lettura aggiornata di quella (ribaltante) che Julius Evola fece del Mutterrecht di Johann Jakob Bachofen, con la divisione dell'umanità in eroi/guerrieri/nordici/solari e femmine/sacerdoti/mediterranei/lunari.
L'articolo di De Turris è semplicemente la recensione di un libro, La Casa dell'Islam, appunto, di un certo Pierfrancesco Prosperi.
Il signor Pierfrancesco Prosperi, di mestiere architetto, si dedica nel tempo libero a scrivere. Ad esempio, è l'autore di Zio Paperone contro Mister "A", Zio Paperone e il segreto degli abissi, Paperino e la sindrome pubblicitaria, Zio Paperone e le leggi della robotica e di Topolino e i templi di Babu Simbel, nonché di molti altri racconti paperopolesi. Saperlo è importante, perché ci permette di cogliere per un istante qualcosa della cultura che ispira chi forma l'infanzia italiana, e non solo. Paperino è politico quanto le opere complete di Stalin.

Tra l'altro, l'ideologia di Paperino è inscindibile dal culto dei "misteri", il cascame dei saccheggiatori coloniali che costituisce una parte così importante della New Age e del neospiritualismo in generale. Infatti, per Martin Mystère, Pierfrancesco Prosperi ha scritto varie trame, tra cui quelle de Le piste di Nazca Nella terra dei Dogon; e Prosperi è autore anche di Tiramolla e la città perduta dei Maya.
Qui mi dovrei fermare, perché non ho letto La Casa dell'Islam e francamente ho libri più interessanti da comprare, in questi giorni. Però do per buona la recensione che ne fa Gianfranco De Turris.
Che dice che con questo romanzo, «gli scrittori di fantascienza anticipano i politologi»; in altre parole, descrivono il futuro reale. Ora, Pierfrancesco Prosperi avrebbe "anticipato i politologi" con due romanzi, La moschea di San Marco e il seguito, La Casa dell’Islam. L'ignoranza non è certo una colpa, basta che gli asini non si mettano in cattedra. Prosperi invece costruisce due romanzi riguardanti l'islamizzazione dell'Italia su una cultura in tema di Medio Oriente (e dei Templi di Babu Simbel) che emerge in tutto il suo splendore in un'intervista in rete:
"non so bene come funzioni l’economia nei paesi musulmani ma credo che sia regolata dalle leggi coraniche".
Mi auguro che come premio lo facciano entrare gratis al Roberto Cavalli Club di Dubai.

 


Vita sotto la shari'ah: il Roberto Cavalli Club di Dubai
Nei romanzi di Pierfrancesco Prosperi, nel 2015, il partito islamico vince le elezioni in Italia. Lo so, state pensando al fatto che in Italia i musulmani con il diritto di voto saranno qualche decina di migliaia, gli immigrati sono sorvegliati a vista e vengono cacciati o arrestati per il minimo sospetto, gli egiziani non sopportano gli algerini, sunniti e sciiti si insultano pure tra i commenti del mio blog, se la casalinga di Voghera sente uno che tossisce, pensa che sta parlando in arabo e chiama la polizia... Vabbene, gli islamici vincono le elezioni, capita. 
Spiega il presidente della Fondazione Evola:
"Lo rende possibile quel che ben si potrebbe definire il tradimento dei chierici nel senso più ampio del termine: sia ecclesiastici, sia intellettuali. Infatti, quel che spiana man mano la strada all’affermazione di un Islam radicale italiano è il «buonismo» esasperato, è l’ossessione del «politicamente corretto» spinto sino al suicidio culturale. Non per nulla le desolate parole conclusive de La moschea di San Marco son proprio queste: perché è stato possibile tutto ciò? Forse perché siamo troppo buoni?"
Intanto, nella storia italiana, le uniche operazioni buone in politica estera gli ecclesiastici le hanno fatto "tradendo", cioè sostenendo l'Etiopia invasa da Crispi e opponendosi alla Prima guerra mondiale. Casomai, hanno tradito troppo poco, ma torniamo alla frase, "siamo troppo buoni".

 

"Siamo troppo buoni" significa tante cose. Intanto, implica un improbabile "noi" composto da berlusconiani, anarchici, cattolici, bestemmiatori e turisti sessuali, tifosi dell'Inter e del Milan... Poi l'idea che siamo "buoni", anzi "meglio" degli altri, è la giustificazione dell'intera storia coloniale. Ma quando dico, "siamo troppo buoni", vuol dire che dall'altra parte, a ricevere la nostra troppa bontà, c'è qualche categoria di subumani. Quelli troppo buoni non mettono le trappole per topi in cantina, e non si lamentino quando gli si mangiano tutto il formaggio.
"È la Chiesa cattolica che con il suo ultimo Papa, proprio nel senso delle profezie di Malachia (Benedetto XVI è il penultimo della serie), e che si chiama - appunto - Pietro Romani, abdica al proprio ruolo nel nome dell’ecumenismo planetario ammettendo la supremazia dell’Islam; e sono certi politici e intellettuali «impegnati» che non trovano nulla di strano a cedere a ogni richiesta dei musulmani italici in nome di astrazioni illuministe."
Qui c'è un affascinante luogo comune che riemerge. Siamo tutti cattolici, mica perché crediamo in Dio, ma perché, boh... solo che la Chiesa tradisce i cattolici, a causa della sua infame natura femminea, se solo avesse vari attributi maschili (Oriana Fallaci sì che ce li aveva). Accanto a questo, c'è la folle importanza che la polemica di Destra da sempre assegna agli intellettuali. I quali sarebbero sempre "astratti" e al servizio del nemico.
Curiosamente, la storia della resa del Vaticano ricalca la trama di un altro romanzo, Il mistero del candelabro di André Soussan, che però ne trae una morale opposta.
Ma visto che in questo periodo ci stiamo occupando di profezie, è interessante il riferimento alle profezie di Malachia, 112 enigmatiche frasi in latino attribuite al vescovo irlandese Malachia (dodicesimo secolo), in realtà "scoperte" nel 1595 da uno storico benedettino. Fino al 1590, le profezie guarda caso sono assai precise, mentre dopo diventano del tutto incomprensibili; comunque, terminano proprio con un "Petrus Romanus", cui seguirà "la fine":
"& Judex tremêdus judicabit populum suum. Finis."
Che è quanto auspichiamo ai lettori del libro di Pierfrancesco Prosperi, agli amici di Gianfranco De Turris, ai Liberali per Israele, a Roberto Cavalli e ai gestori di discoteche della Val d'Aosta.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Luciano Canfora, Stalin aveva un mito segreto

Post n°110 pubblicato il 30 Novembre 2009 da geppinomonti

Stalin aveva un mito segreto che si chiamava Adolf Hitler

 

Conoscere il nemico dall' interno del suo ambiente più riservato; conoscere l' altra verità, quella che non si vede stando da questa parte. È ben noto che l' informazione è l' arma più efficace, ma il caso di cui stiamo per parlare è sui generis: l' informazione proveniente dal più stretto entourage del nemico viene raccolta dopo la morte di lui. Si tratta appunto del Dossier Hitler fatto allestire da Stalin sulla base della lunghissima e non certo spontanea confessione di due aiutanti di campo di Hitler, Linge e Günsche, catturati dopo il suicidio del Führer (il cui corpo proprio essi bruciarono) e dopo l' arrivo dei russi a Berlino. I due parlarono nel 1948-49, dopo essere stati a lungo «torchiati»; e le loro parole furono messe per iscritto da una commissione sovietica accuratamente selezionata. Il tutto fu denominato «Operazione Mito». Ne venne fuori un documento (oggi Doc. nr. 462a Sez. 5, Indice generale 30, dell' Archivio di Stato russo per la storia contemporanea) riservato unicamente a Stalin. È uscito quasi contemporaneamente in Germania (Verlagsgruppe Lübbe) e in Italia (Il dossier Hitler, traduzione di Andrea Casalegno, Utet Libreria, pp. 625, euro 24). Documento tanto più significativo, in quanto, molti anni dopo, Linge pubblicò in Germania un libro che trattava, non senza varianti, la stessa materia (Bis zum Ende, Monaco 1980). Perché Stalin volle questo documento? Non certo per assicurarsi che Hitler fosse davvero morto. È interessante il nome dato all' operazione: «Mito». Parola molto significativa, che taluni credono, a torto, che significhi «cosa non vera». Si trattava di distruggere, guardandolo da vicino, il «mito», che tanto a lungo aveva vigoreggiato, di Adolf Hitler. Un «mito» che aveva consentito a Hitler di contare sull' appoggio della maggioranza dei tedeschi, fino all' ultimo. Ma distruggere quel mito, presso chi, se il lettore del dossier era uno solo, cioè Stalin medesimo? Credo che questo dimostri quanto Stalin stesso temesse e prendesse molto sul serio (com' è giusto) il peso dell' avversario. Altro che la figura comica del Grande dittatore di Chaplin, che, pure, Stalin apprezzava. Viene in mente la equilibrata e strettamente politica descrizione data da Molotov della figura di Hitler. È in un passo delle Memorie (uscite nel 1986) curate in forma dialogica dallo scrittore Tchuev. Dice Molotov al suo intervistatore: «Esteriormente Hitler non aveva nulla di straordinario. Era un uomo molto compiaciuto di sé, si può dire infatuato di se stesso. Beninteso non era affatto come lo si rappresenta nei libri o nei film. Si calca la mano sull' aspetto fisico, lo si rappresenta come un pazzo, un maniaco, mentre non era affatto così. Era molto intelligente, ma limitato e reso ottuso per l' appunto da questa sua alta considerazione di sé e dall' assurdità della sua ideologia. Ma con me non sragionava affatto. Durante il nostro primo incontro è stato quasi sempre lui solo a parlare e io lo spingevo a parlare ancora di più. Il resoconto più esatto dei nostri incontri è quello di Berezkov: invece nella letteratura corrente si è dato largo spazio alla psicologia fantasiosa». Questo brano fu valorizzato sul Corriere nell' ambito di una importante recensione di Vittorio Strada (uscita il 9 dicembre 2001), il quale tracciò, in tale occasione, un mirabile ritratto di Molotov. Di Hitler e della sua cerchia Stalin sapeva certamente non poco grazie al lavoro dei suoi servizi di informazione. (Lo stesso vale in direzione contraria: era l' efficientissimo Gehlen, poi divenuto capo dei servizi di Bonn, a dirigere la «sezione sovietica» dei servizi d' informazione del Terzo Reich). Eppure, nonostante le quasi leggendarie spie sovietiche, che erano riuscite ad infiltrarsi persino nella rappresentanza diplomatica tedesca a Tokio (è il caso di Richard Sorge), Stalin volle sapere molto altro su Hitler, e da testimoni vicinissimi al Führer. Lo squilibrio tra le parti di cui si compone il volume ci fa capire che cosa veramente interessasse a Stalin. Delle complessive 381 pagine di testo, ben 320 comprendono il periodo della guerra, dallo scoppio nel settembre ' 39 al suicidio di Hitler. Ai sei anni precedenti, 1933-1939, sono dedicate soltanto le prime 64 pagine. Ma è soprattutto il periodo della guerra contro la Russia che lo interessa (pp. 110-381). È come se Stalin avesse cercato a posteriori di capire dove l' avversario avesse fatto una mossa falsa, quando esattamente Hitler avesse incominciato a perdere. Nella ricchissima serie di testimonianze interferisce certamente la selezione dei fatti voluta dall' unico lettore, cioè da Stalin stesso. Sintomatico il silenzio sul patto Molotov-Ribbentrop (23 agosto ' 39), che infatti viene citato solo per incidens quando si parla dell' attacco tedesco (22 giugno 1941). In alcuni casi le rivelazioni non sembrano potersi considerare con sospetto, visto che non riguardano il campo talvolta «minato» delle scelte politico-diplomatiche dello stesso Stalin. È il caso ad esempio della ostilità di Hitler verso l' intervento in guerra dell' Italia nel giugno ' 40. «Ciò che soprattutto indignò Hitler - dichiarano i due aiutanti di campo - era che l' Italia, che si era mantenuta neutrale per sei mesi, adesso improvvisamente volesse entrare in guerra a tutti i costi. Per non dover dividere il bottino con Mussolini, Hitler dichiarò che per il momento non aveva bisogno dell' Italia poiché la Francia era ormai ai suoi piedi. ( ) Hitler era molto preoccupato di quali fossero gli ulteriori obiettivi segreti di Mussolini» (pp. 89-90). Un altro punto dolente è la fuga di Rudolf Hess in Inghilterra (maggio 1941). Tutti i dettagli che i due aiutanti di campo forniscono vanno nella direzione della intesa con Londra tentata tramite quel «folle volo» (pp. 107-108). C' è la esclamazione di stizza di Hitler contro il duca di Hamilton, che «fa addirittura finta di non conoscere Hess»; c' è la conferma dell' esistenza di un memorandum segreto con le condizioni per una pace con l' Inghilterra («Hess l' aveva redatto e Hitler l' aveva approvato»). Nella postfazione (p. 416) i due curatori, Eberle e Uhl, trovano che nel tardivo volume di Linge (1980) le cose sono presentate diversamente: ma in realtà la variante indicata è trascurabile. Di grande interesse sono le condizioni offerte da Hitler in quel modo singolare a Londra: «L' Inghilterra avrebbe dovuto lasciare mano libera alla Germania nei confronti della Russia sovietica, mentre la Germania avrebbe garantito all' Inghilterra il possesso delle sue colonie e il predominio nel Mediterraneo» (p. 107). Un bel colpo all' Italia. La carta giocata col volo di Hess (che non trovò «sponda» in Inghilterra e che perciò dovette esser fatto passare per pazzo) era abile: Germania e Inghilterra arbitri dei destini mondiali e unite nel proposito di cancellare l' Urss. Ma l' Inghilterra di Churchill non era più quella di Chamberlain. E il gioco fallì. Rudolf Hess MISSIONE Il gerarca nazista volò in Inghilterra con alcune proposte di pace rivolte al governo britannico Benito Mussolini DISPETTO Il Führer era indignato con il Duce, che entrò in guerra solo quando la Francia era già sconfitta

Canfora Luciano

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 
« Precedenti Successivi »
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963