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La Resistenza come spirito della Nazione

Post n°150 pubblicato il 08 Settembre 2017 da single_sound
 
Foto di single_sound

La lettura del libro "Il Piave" di Fortunato Minniti (la cui copertina è ritratta nella foto di accompagnamento di questo post), edito nuovamente quest'anno in occasione dell'anniversario degli eventi di Caporetto che portarono allo sfondamento del fronte e al ripiegamento delle truppe italiane lungo l'argine destro del Piave durante la prima guerra mondiale, suscita alcuni interrogativi intorno al tema di fondo del volume, ossia sulla resistenza. Il libro si muove infatti lungo la tesi secondo cui quella guerra o almeno quella parte di guerra fu una guerra di resistenza, anche se poi essa si inserisce nel quadro di una guerra dichiarata all'Austria nel 1915 (e quindi di una guerra aggressiva, benché essa dopo il tracollo di Caporetto si sia trasformata in guerra difensiva del territorio nazionale e di riconquista di una sua parte stante che l'esercito nemico aveva occupato la Venezia Giulia e il Veneto) e conclusa con lo sfondamento di Vittorio Veneto.

Se quella fu una guerra di resistenza, viene da chiedersi allora se l'Italia non sia il Paese della Resistenza, considerata la guerra di Resistenza del 1943-45 oltre alla resistenza italiana sul Piave.

L'analisi è complessa in quanto il quesito riguarda sia il passato sia il presente sia quanto del passato sia tuttora vivo nel presente.

Proviamo per intanto a mettere a confronto i due fenomeni: la guerra dopo il 1917 e la guerra dopo il 1943. Quali sono gli elementi di differenza e gli elementi in comune?

Nel 1917 vi fu sostanzialmente un collasso del nostro esercito, che non resse l'urto della potenza avversaria, tanto da dover ripiegare indietro di molti chilometri dall'Isonzo al Piave. Nel 1943, non si può dire esattamente che le nostre Forze Armate collassarono. Esse si trovarono piuttosto impreparate agli eventi, ma non mancarono episodi, del resto ben noti, in cui esse si mostrarono in grado di reagire alla potenza nemica pur essendo destinate a soccombere.

Nel 1917 non vi un collasso dell'Ammnistrazione italiana, che anzi fu un grado di reagire e sapendosi organizzare diede un contributo alla vittoria finale. Nel 1943, al contrario, l'Amministrazione italiana in pratica collassò, ma ciò fu dovuto anche al fatto che essa fu investita in pieno, almeno per quanto riguarda l'Amministrazione centrale, dal conflitto, stante il fatto che le truppe nemiche erano ormai da tempo entrate in profondità nel territorio nazionale col consenso del Governo fascista, sicché era del tutto evidente che l'Amministrazione centrale ne sarebbe stata investita in pieno. Ciò non giustifica, beninteso, il fuggi fuggi ignominioso che si ebbe l'8 settembre del 1943 rivelatore del carattere intrinsecamente debole del nostro apparato amministrativo, che riesce forse a dare il meglio di sé, come nel 1917, se messo sotto sforzo ma a distanza di sicurezza dalla "linea del pericolo".

Nel 1917, dal punto di vista militare, lo scontro si giocò unicamente lungo la linea delineata dall'andamento del fiume Piave, linea che fu scelta dal Comando del Regio Esercito e non dall'avversario, mentre nel 1943-45 lo scontro militare si giocò su più linee che mano mano retrocedevano verso il nord, tutte scelte dal Comando dell'esercito nemico. In entrambi i casi, però, l'iniziativa era in mano agli italiani. Nel 1917, appunto, furono gli italiani a scegliere la linea su cui attestarsi per poi ripassare all'offensiva. Nel 1943, pur non scegliendo la linea del fronte, gli italiani dopo i primi momenti di sbandamento poterono passare all'attacco con la Liberazione di Napoli e poi Roma e ancora le città del Nord alla fine del conflitto.

In quest'ultimo caso, con ogni evidenza, il conflitto fu vinto grazie al sostegno degli alleati. D'altronde, il dissolvimento dell'Amministrazione e lo sbandamento delle Forze Armate non giovava alla causa. Ciò costrinse, diversamente dal 1917, a una riorganizzazione delle Forze Armate su base popolare e di partito, ma non può certamente dirsi che le brigate partigiane, per quanto organizzate per operazioni di guerriglia piuttosto che di guerra classica, non costituissero, insieme a ciò che rimaneva del Regio Esercito, le Forze Armate del Paese, dipendenti dal suo governo effettivo, ovvero il Comitato di Liberazione Nazionale e il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia.

Non fu un caso, comunque, che il conflitto venne vinto col supporto degli alleati. Certamente, esso fu maggiormente determinante nel 1943-45 che nel 1917-18. Nondimeno, ciò che si può notare è che in entrambi i casi gli alleati con cui gli italiani "vinsero" furono gli inglesi, i francesi e gli americani e non i popoli germanici che, al fondo, rappresentarono per gli italiani il nemico in entrambi i conflitti. in verità, anche il termine alleati andrebbe messo tra virgolette, dato che nel 1915-1918 l'Italia entrò in guerra d'intesa con Francia e Gran Bretagna, ma senza un vero trattato di alleanza, così come dopo il 1943 non poteva esistere un trattato di alleanza tra quei paesi e l'Italia (essendo stato concluso un armistizio che condusse poi al trattato di pace del 1947).

Qui, oltretutto, si può notare una linea di frattura fra le elite politiche, amministrative e culturali e il popolo. Difatti, mentre le prime hanno sempre manifestato una preferenza per la Germania per ragioni storiche, politiche e culturali, il popolo ha sempre dato il meglio di sé quando al suo fianco aveva i popoli "occidentali" e non i popoli germanici.

Quest'osservazione ci porta a un problema non da poco, cioè se il popolo abbia partecipato alla Resistenza, sia nella prima che nella seconda guerra mondiale. Il problema è capire cosa si intende per partecipazione alla Resistenza. Il fatto che nella prima guerra mondiale le operazioni militari si svolgessero su un fronte con eserciti regolari non impedisce né il coinvolgimento morale del popolo né il suo supporto diretto, attraverso il lavoro e il sacrificio delle privazioni materiali, allo sforzo bellico. Nella seconda guerra mondiale, checché se ne dica, è fuor di discussione l'apporto popolare alla Resistenza. La guerriglia non può funzionare se non è sostenuta a livello popolare.

In questa prospettiva, giova citare per esteso un passo di Bobbio sullo spirito della Resistenza tratto da "Eravamo diventati uomini":

"Sento attorno a me le solite obiezioni. Esiste ancora lo spirito della Resistenza? E se esiste, non è esso alimentato da pochi e sparuti fedeli che sono una piccolissima minoranza di pazzi in una nazione di savi? E infine, fossero pur molti i fedeli, non è la situazione di oggi tanto mutata da quella in cui la Resistenza operò, che è assurdo e inutile, pretendere di tramandarne lo spirito? Rispondiamo.

Primo: lo spirito della Resistenza non è morto. E’ morto in coloro che non l’hanno mai avuto e a cui del resto non lo abbiamo mai attribuito. Che non sia morto è dimostrato dal fatto che non vi è grave evento della nostra vita nazionale in cui non si sia fatto sentire ora per elevare una protesta, ora per esprimere un ammonimento, ora per indicare la giusta strada della libertà e della giustizia.

Secondo: che i devoti dello spirito della Resistenza fossero una minoranza, lo abbiamo sempre saputo e non ce ne siamo né spaventati né meravigliati. In ogni nazione i savi, cioè i benpensanti, sono sempre la maggioranza; i pazzi, cioè gli ardimentosi, sono sempre la minoranza. Come al teatro: quattro attori in scena e mille spettatori in platea, i quali non recitano né la parte principale né quella secondaria; si accontentano di assistere allo spettacolo per vedere come va a finire e applaudono il vincitore.

Terzo: sì, la situazione è cambiata, non c’è più la guerra, lo straniero in casa, il terrore nazista. Ma quando invochiamo lo spirito della Resistenza, non esaltiamo soltanto il valore militare, le virtù del soldato che si esplica nella guerra combattuta, ma anche il valore civile, le virtù del cittadino di cui una nazione per mantenersi libera e giusta ha bisogno tutti i giorni, quella virtù civile che è fatta di coraggio, di prodezza, di spirito intrepido, ma anche, e più, di fierezza, di fermezza nel carattere, di perseveranza nei propositi, di inflessibilità. Ciò che ha caratterizzato il partigiano è stata la sua figura di cittadino e insieme di soldato, una virtù militare sorretta e protetta da una virtù civile. Non vi è nazione che possa reggere senza la virtù civile dei propri cittadini. Ebbene l’ultima rivelazione di questa virtù è stata la lotta partigiana. Lì la nazione deve attingere i suoi esempi, lì deve specchiarsi, lì troverà e lì soltanto, le ragioni della sua dignità, la consapevolezza della propria unità, la sicurezza del proprio destino".

Queste parole di Bobbio meritano quantomeno un paio di osservazioni. Innanzitutto, Bobbio fa riferimento "ai devoti dello spirito della Resistenza", ma non fa riferimento alla partecipazione popolare alla Resistenza. Spetta alla minoranza tramandare, attraverso l'azione quotidiana, lo spirito della Resistenza quando il nemico non è in casa e la maggioranza è abulica. Ciò però non vuol dire affatto che la Resistenza non fu un movimento popolare. Basti ricordare, del resto, il dolore provato da Calamandrei, che tra l'altro aveva partecipato alla prima guerra mondiale, per il fatto di non poter prendere parte, insieme al figlio, alle operazioni militari dopo il 1943 a causa dell'età avanzata.

Il sentimento di dolore di Calamandrei ci ricorda, molto semplicemente, che non un intero popolo può esser coinvolto nelle operazioni militari, ma solo le sue classi più giovani. L'apporto delle altre classi si gioca su piani diversi, ma convergenti, da quelli direttamente militari.

Bobbio, inoltre, ci parla di uno spirito della Resistenza che si è affacciato in ogni grave evento della vita nazionale. E che si è affacciato, verrebbe da dire, anche nel 1917 nel momento in cui era messa a repentaglio la libertà della nostra Nazione dal dominio straniero.

Rispetto alle parole di Bobbio, lo spirito della Resistenza può forse esser descritto aggiungendo alle sue parole quelle del Tenente Adolfo Ferrero, caduto nella battaglia dell'Ortigara, contenute nella lettera indirizzata alla famiglia prima di morire e nella consapevolezza della morte imminente:

"18.06.1917 ore 24,00
Cari genitori
Scrivo questo foglio nella speranza che non vi sia bisogno di farvelo pervenire.
Non ne posso fare a meno: il pericolo è grave, imminente. Avrei un rimorso se non dedicassi a voi questi istanti di libertà, per darvi un ultimo saluto. Voi sapete che io odio la retorica, ...no, no, non è retorica quello che stò facendo. Sento in me la vita che reclama la sua parte di sole, sento le mie ore contate, presagisco una morte gloriosa, ma orrenda... Fra cinque ore qui sarà l’inferno. Tremerà la terra, s’oscurerà il cielo, una densa caligine coprirà ogni cosa, e rombi, e tuoni e boati risuoneranno fra questi monti, cupi come le esplosioni che in quest’istante medesimo odo in lontananza. Il cielo si è fatto nuvoloso: piove... Vorrei dirvi tante cose…tante…ma voi ve l’immaginate. Vi amo. Vi amo tutti tutti.
Darei un tesoro per potervi rivedere, ...ma non posso... Il mio cieco destino non vuole.
Penso, in queste ultime ore di calma apparente, a te Papà, a te Mamma, che occupate il primo postonel mio cuore, a te Beppe, fanciullo innocente, a te o Adelina.. addio.. che debbo dire?
Mi manca la parola, un cozzare di idee, una ridda di lieti, tristi fantasie, un presentimento atroce mi tolgono l’espressione... No, no, non è paura. Io non ho paura! Mi sento ora commosso pensando a voi, a quanto lasciò, ma so dimostrarmi dinanzi, ai miei soldati, calmo e sorridente. Del resto anche essi hanno un morale elevatissimo.
Quando riceverete questo scritto fattovi recapitare da un’anima buona, non piangete e siate forti, come avrò saputo esserlo io. Un figlio morto per la Patria non è mai morto.
Il mio nome resti scolpito indelebilmente nell’animo dei miei fratelli, il mio abito militare, e la mia fidata pistola (se vi verrà recapitata) gelosamente conservati stiano a testimonianza della mia fine gloriosa. E se per ventura mi sarò guadagnata una medaglia, resti quella a Giuseppe...
O genitori, parlate, frà qualche anno, quando saranno in grado di capirvi, ai miei fratelli, di me, morto a vent’anni per la Patria. Parlate loro di me, sforzatevi a risvegliare in loro ricordo di me... M’è doloroso il pensiero di venire dimenticato da essi... Fra dieci, venti anni forse non sapranno nemmeno più di avermi avuto fratello...
A voi poi mi rivolgo. Perdono, vi chiedo, se v’ò fatto soffrire, se v’ò dati dispiaceri. Credetelo, non fu per malizia, se la mia inesperta giovinezza vi à fatti sopportare degli affanni, vi prego volermene perdonare.
Spoglio di questa vita terrena, andrò a godere di quel bene che credo essermi meritato.
A voi Babbo e Mamma un bacio, un bacio solo che vi dica tutto il mio affetto. A Beppe a, Nina un altro. Avrei un monito: ricordatevi di vostro fratello. Sacra è la religione dei morti. Siate buoni. Il mio spirito sarà con voi sempre.
A voi lascio ogni mia sostanza. E’ poca cosa. Voglio però che sia da voi gelosamente conservata.
A Mamma, a Papà lascio... il mio affetto immenso. E’ il ricordo più stimolabile che posso loro lasciare.
Alla mia zia Eugenia il crocefisso d’argento, al mio zio Giulio la mia Madonnina d’oro. La porterà certamente. La mia divisa a Beppe, come le mie armi e le mie robe. Il portafoglio (l 100) lo lascio all’attendente.
Vi Bacio
Un bacio ardente di affetto dal vostro aff.mo Adolfo
Saluti a zia Amalia e Adele e ai parenti tutti".

Queste parole esprimono al meglio lo spirito di sacrificio dei figli del nostro Popolo nel momento supremo della morte. E certamente Adolfo Ferrero non è stato dimenticato dai suoi fratellini e da quei suoi fratellini che, ancora oggi, cercano di tramandare lo spirito della Resistenza, facendolo vivere anche al prezzo del proprio personale sacrificio.

Lo spirito della Resistenza è morto? La risposta è semplicemente no, perché lo spirito non muore e riesce a camminare appunto sulle gambe di quella minoranza di pazzi, ardimentosi e inflessibili che fa tuttora lo sforzo di incarnarlo, sebbene il panorama attuale sia desolante, degradato e la maggioranza sia abulica nell'attesa degli eventi.

Il capitalismo materialista può tentare di annichilire la nostra Nazione quanto vuole, come ormai fa perlomeno dagli anni '60 del secolo scorso, ma se la minoranza che incarna lo spirito della Resistenza continuerà a resistere, essa avrà l'occasione per risvegliare la Nazione alla Resistenza in quella che sarà l'ora suprema.

Non c'è però illusione da farsi su quella che sarà in concreto l'ora suprema. Il maestro orientale dell'arte della guerra, Sun Tzu, ci ricorda, a giusto titolo, che "è sul campo di battaglia che si decide la vita o la morte delle nazioni". Sarà, nuovamente, sul campo di battaglia che si deciderà della vita della nostra Nazione e sarà quello il momento in cui lo spirito della Resistenza tornerà a essere patrimonio vivente dell'intero nostro popolo.

 
 
 
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