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Un ricordo del partigiano Roberto Di Ferro

Post n°156 pubblicato il 28 Marzo 2018 da single_sound
 
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Oggi 28 marzo ricorre l’anniversario della morte del partigiano Roberto Di Ferro (ritratto nella fotografia che accompagna questo post). Nonostante le poche informazioni esistenti su di lui e rintracciabili su internet (ad esempio sul sito dell’ANPI), vale la pena ricordarlo anche qui, per ciò che può valere. Roberto merita di esser ricordato perché, a quanto consta, fu il più giovane partigiano d’Italia ad esser fucilato dalle forze di occupazione tedesche. Egli nacque il 7 giugno 1930 a Malvicino, in provincia di Alessandria, e fu fucilato a Pieve di Teco, in provincia di Imperia, il 28 marzo 1945, ancora quattordicenne, a distanza di pochi giorni dall’insurrezione del 25 aprile 1945.

Data la sua giovane età è evidente l’impossibilità di trovare molte fonti circa il trascorre della sua vita. Sulla base delle indicazioni che si trovano online, risulta che Roberto avesse da poco completato l’obbligo scolastico quando la sua famiglia si trasferì ad Albenga. Per aiutare economicamente la famiglia, Roberto cercò impiego come meccanico. Tuttavia, egli, come tanti altri ragazzi (Franco Cesana che abbiamo ricordato su queste pagine lo scorso anno o ancora Giorgio Marincola, la cui figura magari rammenteremo tra qualche tempo, sebbene nel suo ricordo si sia già cimentata egregiamente la Wu Ming Foundation col libro Razza Partigiana), fu investito appieno dagli effetti dell’armistizio dell’8 settembre e dalla conseguente occupazione tedesca del suolo nazionale.

Roberto decise dunque di darsi alla macchia, entrando in contatto con le formazioni partigiane liguri. Col nome di battaglia di Baletta, egli entrò a far parte della Brigata partigiana Silvano Belgrano, distaccamento Marco Agnese, appartenente alla IV Divisione Garibaldi d’assalto Bonfante. Impiegato inizialmente come staffetta vista la sua giovane età, Roberto iniziò a essere poi impiegato direttamente in vere e proprio azioni di combattimento contro le forze occupanti.

Nella notte tra il 24 e il 25 marzo, le forze della Wehrmacht, tre colonne motorizzate, si presentano a Pieve di Teco, accompagnate da una spia. E qui, anche ricordando la fine di Franco Cesana, dovremmo tenere bene a mente il comportamento di quegli italiani che si assoldarono al servizio delle forze di occupazione o perché fascisti o per averne un ritorno economico. Le violenze successive alla Liberazione, non andrebbe mai dimenticato, furono causate anche dal comportamento, tenuto durante la guerra, di questi traditori che comportarono, peraltro, la morte di molti giovani, come Roberto.

Le forze occupanti attaccarono il gruppo di Roberto. Essendo stati accerchiati e non potendo rompere l’accerchiamento, il gruppo si difese strenuamente fino all’ultima munizione. I comandanti, Giovanni Trucco e Angelo Volpari, caddero in combattimento, mentre il gruppo in cui Roberto si trovava venne arrestato all’interno di un casolare. I compagni di Roberto vennero fucilati immediatamente, mentre Roberto venne condotto in municipio per essere interrogato nella speranza che fornisse informazioni sulle formazioni partigiane della zona. Mentre falliva un tentativo di liberarlo mediante uno scambio di prigionieri, Roberto veniva interrogato e torturato. Tuttavia, egli non cedette coraggiosamente alle sevizie e nulla rivelò a proposito dei suoi compagni di lotta.

I tedeschi allora lo giustiziarono. La mattina del 28 marzo 1945 Roberto venne portato a Prato San Giovanni e vicino alla riva del fiume venne fucilato. Nell’essere fucilato egli disse ai suoi assassini che i suoi compagni lo avrebbero vendicato. Stando ad alcuni racconti, Roberto venne persino crocefisso dopo la sua morte.

Dopo la guerra, Roberto venne tumulato nel cimitero di Albenga. Egli lasciò i propri genitori, due fratelli e due sorelle. Oltre ad aver lasciato tutti noi.

Il suo ricordo ci riempie il cuore di tristezza. Per fortuna esiste almeno una foto che ci mostra il suo sorriso e ci ricorda che, in questo Paese, è esistita un’umanità migliore e che quindi possiamo sperare ancora che il nostro popolo torni un giorni a esser migliore di ciò che è stato costretto a diventare.

Chi può, per favore, vada a trovare Roberto per dirgli che non è stato dimenticato.

 
 
 

Un discorso di Weidmann

Post n°155 pubblicato il 27 Gennaio 2018 da single_sound
 
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Lo scorso 18 gennaio il Governatore della Bundesbank, Weidmann, ha tenuto l'intervento di apertura della conferenza congiunta Fondo Monetario Internazionale-Bundesbank sulle attuali sfide economiche. Il discorso è reperibile, in lingua inglese (e quindi di maggiore immediatezza in termini di comprensibilità), al seguente link sul sito della Bundesbank: https://www.bundesbank.de/Redaktion/EN/Reden/2018/2018_01_18_weidmann.html

Il discorso di Weidmann, invero breve ma molto significativo, si articola nei seguenti paragrafi: 1. Introduzione; 2. Inflazione e salari in Germania; 3. Politica fiscale; 4. Surplus delle partite correnti in Germania; 5. Rafforzamento della resilienza dell’area euro; 6. Conclusioni.

Il discorso presenta diversi profili di interesse. Il punto centrale si trova al par. 4 sul surplus delle partite correnti in Germania.

Vediamo tuttavia preliminarmente un paio di aspetti affrontati da Weidmann prima del par. 4. Nel par. 2, in particolare, Weidmann riconosce, essendo ormai un dato acquisito, che la Germania, al pari di alcuni altri Paesi come gli Stati Uniti, si trova in una situazione di piena occupazione. Senonché, contrariamente a quanto la teoria economica fino a oggi ci ha raccontato, la piena occupazione non ha avuto effetti sui salari, che non sono cresciuti, e conseguentemente sull’inflazione. Perché accade ciò? Weidmann, che ha il merito di parlarne pubblicamente (come han fatto alcuni altri economisti, ad esempio Krugman), mentre le classi politiche, tra cui quella italiana, sembrano ignorare completamente il problema, ci offre un paio di interpretazioni (che ben possono essere cumulate): 1) i flussi migratori (anche se Weidmann, con riguardo alla Germania, si riferisce esclusivamente ai flussi intracomunitari) stanno determinando uno schiacciamento delle pressioni salariali, per cui la manodopera a buon mercato consente di stabilizzare l’occupazione verso il pieno impiego senza incrementi dei salari perché i migranti aiutano, senza rivendicare salari più alti, a tenere basso il costo del lavoro; 2) la contendibilità dei mercati del lavoro attraverso l’integrazione delle catene globale di valore. Che vuol dire quest’ultimo punto? Detta diversamente, quando i mercati si aprono alla libera circolazione di merci, capitali e anche lavoro, ecco che le catene della produzione si integrano ma i mercati del lavoro, restando segmentati, entrano in concorrenza tra loro. Ciò determina quindi la necessità che ogni mercato del lavoro resti competitivo, offrendo condizioni migliori, cioè salari più bassi, per gli investimenti. Nei paesi ad alto sviluppo, ciò sta determinando quindi una stagnazione salariale, pur in presenza di condizioni favorevoli per un aumento dei salari. È un effetto, all’evidenza, della globalizzazione.

Nel par. 3 sulla politica fiscale, Weidmann dice testualmente che i risultati di una politica fiscale espansiva, pur essendovi le condizioni per praticarla in Germania (che al momento è in pareggio di bilancio, il c.d. schwarze null) sarebbero deludenti. Secondo Weidmann, un aumento del deficit avrebbe uno scarso effetto sulle importazioni. Ricordiamo che la polemica di una parte dell’opposizione tedesca (in specie della Linke) e di molti economisti e forze politiche in Europa è che le politiche di austerità tedesche non aiutano l’export verso la Germania, rendendo insostenibile la tenuta dell’Unione Monetaria. Ora, e facciamo attenzione alle parole, Weidmann aggiunge che la spesa pubblica non comporterebbe un aumento delle importazioni (la frase in inglese è: As the import content of public expenditure is low). Tuttavia, è del tutto evidente che ci sono delle notevoli differenze tra aumento del deficit e aumento della spesa pubblica e tra diverse tipologie di aumento della spesa pubblica. Un diminuzione delle imposte può comportare un aumento del deficit, ma non è un aumento di spesa pubblica, tanto per fare un esempio.

Il problema che, piuttosto, è stato lamentato è il mancato rafforzamento del mercato interno tedesco, mediante un aumento di domanda di consumi privati prodotta da un incremento dei trasferimenti dal settore pubblico al settore privato. Un aumento di salari, pensioni e prestazioni sociali comporterebbe, infatti, un aumento del reddito disponibile dei privati e, di conseguenza, un aumento della domanda anche di beni importati.

Con ciò, comunque, Weidmann non nega che si possano effettuare investimenti pubblici. Egli dice infatti che si dovrebbero effettuare investimenti pubblici per migliorare la digitalizzazione del sistema, specie per contrastare l’invecchiamento della popolazione. Una simile proposta sembra una vera e propria contraddizione in termini, però, visto che le persone più anziane sono quelle che hanno le maggiori difficoltà in conseguenza della digitalizzazione del sistema.

Arrestiamoci qui con le premesse, già troppo lunghe, e andiamo al sodo della questione. Il punto, come si evince dal par. 4, è quello della gestione del surplus delle partite correnti tedesche. Weidmann è netto e chiaro e ci dice a cosa sono serviti i surplus delle partite correnti tedesche e, al contempo, le politiche di austerità tedesche. Queste politiche sono servite a gestire l’invecchiamento della popolazione tedesca. Qui sta il punto, che non è sconosciuto, bastando a questo riguardo leggersi qualche report del Fondo Monetario Internazionale. Weidmann aggiunge due punti nodali che nei prossimi tempi converrà tenere a mente. Il primo è che la Germania comincerà ad avvertire gli effetti dell’invecchiamento nella prossima decade. In quella fase in Germania vi sarà un lavoratore per un pensionato, mentre oggi la proporzione è due lavoratori per un pensionato. Il che produrrà un rallentamento economico già a partire dal 2020 (cioè fra soli due anni). Il secondo è, evidentemente, che a quel punto la Germania dovrà utilizzare i crediti derivanti dal surplus delle partite correnti accumulato in questi anni. Weidmann, in specifico, usa questa espressione: “Foreign assets accumulated will enable the German economy to participate in the potentially more dynamic growth elsewhere”.

La frase, di per sé, non brilla per chiarezza. Proviamo a interpretarla. Attraverso una politica di surplus la Germania, disponendo di liquidità, potrebbe aver comprato una serie di imprese all’estero. Questo non è affatto inverosimile. Sfruttando questa presenza e i ricavi ottenuti in quei paesi, le imprese potrebbero ritrasferire in Germania quanto guadagnato così da sopperire alla bassa crescita  se non fosse che ciò dovrebbe esser avvenuto in quei paesi nei cui confronti la bilancia commerciale tedesca è in surplus, tra cui alcuni paesi dell’area euro che, essendo debitori della Germania, non si trovano proprio nelle migliori condizioni per ipotizzare slanci di crescita. Un’altra ipotesi è che l’acquisto di asset all’estero possa avvenire dopo il 2020. Più passa il tempo e più, in assenza di valute diverse, gli asset stranieri di paesi UE potrebbero deprezzarsi. Anche qui tuttavia non sembra tenere il ragionamento, giacché paesi come l’Italia o ancora la Grecia, per fare un esempio, non sembrano avere prospettive di crescita molto brillanti.

L’ultima ipotesi è che la Germania invece punti a esigere i crediti accumulati per disporre della liquidità necessaria a iniziare lo shopping nei paesi realmente più remunerativi. In una simile ipotesi, è però evidente che salterebbe definitivamente l’area euro. La riscossione dei crediti, infatti, non sarebbe altro che un’operazione di contrazione della base monetaria che manderebbe in crisi i Paesi debitori, mandando nuovamente in recessione le loro economie.

Non è da escludere, peraltro, che questa sia la politica della Germania per i prossimi anni. In altre parole, si può tranquillamente ipotizzare che sia la Germania stessa a pilotare la crisi della moneta unica, essendo ormai giunta alla conclusione che essa è diventata insostenibile per tutti.

Su quali premesse si può ipotizzare che questa sia la politica tedesca dei prossimi anni? A questo riguardo, basterà leggere un recente studio reperibile al seguente link sul sito FMI: http://www.imf.org/en/Publications/WP/Issues/2018/01/23/Economic-Convergence-in-the-Euro-Area-Coming-Together-or-Drifting-Apart-45575

Lo studio si concentra sui processi di divergenza e convergenza all'interno dell'unione monetaria verificatisi nel corso della sua esistenza (con un occhio anche ai processi antecedenti all'introduzione della moneta unica). Secondo questo studio, dopo l'introduzione dell'euro, non solo i processi di convergenza si sono fermati ma si può parlare finanche di ripresa di processi di divergenza nella zona euro. Vediamo in pillole le conclusioni dello studio: 1) l'allineamento dei tassi di inflazione antecedente all'introduzione dell'euro si è fermato e sono rimasti persistenti differenziali di inflazione tra i paesi aderenti all'euro; 2) i tassi di interesse reali, convergenti prima dell'introduzione dell'euro, sono tornati a divergere dopo la crisi; 3) le convergenze di reddito tra i 12 paesi che avevano inizialmente adottato l'euro si sono fermate (al contrario dei paesi entrati dopo i cui redditi hanno continuato a convergere); 4) i cicli economici si sono sincronizzati, ma sono aumentate le ampiezze di ciclo (vale a dire, Italia e Germania possono avere lo stesso ciclo ma le differenze di andamento saranno vistose; in caso di recessione, per esempio, l'Italia potrebbe cadere del 4% e la Germania dell'1%), con ciò che ne segue in termini di difficoltà di dosaggio della politica monetaria (un conto è infatti immaginare una politica monetaria per un paese in recessione al -4% e tutt'altro conto è immaginarla per un paese in recessione al -1%; né aiuta ragionare in termini di medie, perché una politica monetaria che fosse immaginata per una zona in recessione al -2% non andrebbe bene né per l'Italia, perché non basterebbe, né per la Germania, perché sarebbe comunque eccessiva); 5) i cicli finanziari si sono sincronizzati, con la significativa eccezione della Germania il cui ciclo finanziario (intendendosi con ciò, ad esempio, l'andamento dei prestiti bancari al settore privato) è ormai disconnesso dai cicli dei restanti paesi dell'euro; 6) la mobilità dei capitali ha avuto effetti destabilizzanti, perché è andata a gonfiare investimenti a bassa reddittività e quando poi le bolle sono scoppiate si sono inasprite ancor di più le differenze di reddito tra i paesi dell'eurozona; 7) la produttività tra i paesi dell'eurozona si è divaricata è i paesi a più bassa produttività hanno maggiormente sofferto degli effetti dell'introduzione della moneta unica (è peggiorata la qualità dell'allocazione delle risorse e dopo la crisi sono calati gli investimenti e l'occupazione).

Se queste sono le conclusioni, ovverosia un processo di divaricazione strutturuale aggravato da una completa desincronizzazione finanziaria della Germania rispetto agli altri paesi europei, non si può che immaginare che la Germania punti a pilotare uno sganciamento che mandi sì in recessione gli altri paesi europei, offrendogli però a titolo di compensazione una flessibilità del cambio che dovrebbe consentirgli di uscire dalla recessione prima e senza aggiustamenti strutturali troppo dolorosi. In questo modo, peraltro, la Germania dovrebbe assicurarsi di mantenere la sua posizione di primazia in Europa.

Non è difficile poi immaginare che questa idea circoli tra le classi dirigenti tedesche, che certamente conoscono gli esiti delle ricerche economiche di questi anni, sintetizzate dallo studio citato. Del resto, i politici tedeschi non passano la loro vita solo al megafono, ma si ritagliano ogni tanto anche qualche minuto di tempo per capire la realtà leggendo.

Quanto all'Italia, non ci sono molte illusioni da farsi. La nostra passività è tale (né si può immaginare che si sblocchi dopo questo ciclo elettorale, iniziato sotto i peggiori auspici) che tutt'al più possiamo preparaci ad accettare quanto verrà deciso, anche per noi, a Berlino.

 

 

 
 
 

I giorni tristi (durante il ritorno del razzismo)

Post n°153 pubblicato il 17 Gennaio 2018 da single_sound
 
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In due giorni il candidato del centrodestra alla Regione Lombardia, Fontana, è riuscito a dare il peggio di se stesso.

Prima ha parlato di razza bianca, poi per metterci una pezza, con un discorso ai limiti dell'incredibile, ha sostenuto che andrebbe cambiata la Costituzione perché anche questa all'art. 3 parla di razze.

Il livello ormai è sempre più evidente e pare che non ci sia più possibilità di frenare questa discesa verso gli inferi.

Proviamo solo a fare qualche banale considerazione sulla Costituzione che parla di razze  (!) e vediamo il testo dell'art. 3:

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Come si vede ci sono alcuni concetti positivi e altri negativi in questa disposizione.

Quelli negativi: l'operare distinzioni tra persone sulla base della razza, del sesso, delle opinioni per esempio.

Quelli positivi: i cittadini e la persona umana (la persona umana a prescindere dalla razza).

Nel dibattito politico di questi giorni, il problema ruota tutto attorno, pare, al problema della parola razza nell'art. 3.

Certo, l'art. 3 dice razza. Ma mica dice che esistono le razze. Se la Costituzione avesse voluto dire che esistono le razze, avrebbe potuto dire, ad esempio, che l'Italia è una Repubblica la cui società si compone di razze diverse. Non era più facile dir così?

La Costituzione dice che ciascuno può professare la sua religione e dunque prende atto che esistono fenomeni umani chiamati religioni. E la religione contempla l'esistenza di Dio. Forse ciò vuol dire che la Costituzione ammette l'esistenza di Dio?

E mica è lo Statuto Albertino!

Ecco forse questo sarebbe un discorso più evoluto. Proprio nel 1938, vigente (anche se era carta straccia) lo Statuto Albertino che riconosceva la religione cattolica come religione di Stato e quindi ammetteva l'esistenza di Dio (al contrario della nostra Costituzione), il legislatore (fascista) approvò le leggi razziali contro i cittadini ebrei.

Basterebbe ciò per spiegare il senso dell'art. 3 della Costituzione. Che al problema dell'esistenza delle razze, in fondo, è indifferente. Ciò che gli preme è proprio evitare che situazioni come quelle vissute nel 1938 abbiano a ripetersi.

Le costituzioni non servono a fondare o smentire princìpi scientifici. Le costituzioni servono a organizzare lo Stato e garantire i diritti dei cittadini. E quindi il senso dell'art. 3 è chiarissimo: il legislatore non può usare gli argomenti citati per arrivare a discriminare i cittadini.

Basta cogliere questi pochi, elementari aspetti per comprendere il senso dell'art. 3 della Costituzione.

Qualcuno, per cortesia, li spieghi a Fontana.

 
 
 

Il centrodestra e il M5S

Post n°152 pubblicato il 04 Gennaio 2018 da single_sound
 
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Il prossimo 4 marzo si andrà al voto e si resta un po' sorpresi, diciamo così, se si guarda al quadro politico. Sembra che l'Italia si stia avviando verso un ritorno al passato, con la vittoria del centrodestra.

E' quest'ultima ipotizzabile? A pelle, pur sapendo che al voto gli italiani sono capaci di tutto, vien da dire di sì, per alcune ragioni che di seguito si possono così sintetizzare:

1) i governi che dovevano dare "stabilità" non solo non sono stati poi così stabili (a parte i tre anni di Renzi) ma soprattutto non hanno dato la stabilità che, in realtà, richiede il nostro popolo; la scarica di "riforme" che si è abbattuta su cittadini, imprese, famiglie è stata di portata tale da suscitare anche un senso di stanchezza... a volte la stabilità è far poco, ma bene, senza stressare continuamente i componenti del sistema;

2) a fronte di questa stanchezza generale, il M5S non appare in grado di intercettare il senso più profondo che attraversa un grosso pezzo di società italiana, anche perché, almeno apparentemente, questo Movimento propone dei cambiamenti ulteriori, che sembrano di vasta portata. Gli italiani in questo momento ambiscono a un po' di quiete.

3) il centrodestra si è mostrato, in questo senso, abbastanza cauto facendo proposte che suonassero non stressanti per i cittadini, bensì accattivanti. Al solito in materia fiscale, con abbassamenti di imposte.

4) c'è poi forse la necessità storica di chiudere con l'esperienza del centrodestra con Berlusconi, storia spezzata dalla crisi del 2011. Il ciclo è incompiuto ed è anche il momento che, comunque, si compia, quale che sia l'esito del centrodestra al Governo.

4) infine, i sondaggi, per come sono fatti, lasciano intuire che il centrodestra non solo ha delle potenzialità ulteriori, ma probabilmente esso è sottostimato nei sondaggi per la tendenza a non dichiarare la propria preferenza per quella coalizione.

Aldilà ora dei problemi interni al centrodestra (relativi alla scarsa tenuta della coalizione che sui punti fondamentali non va per niente d'accordo) e che ne lasciano intravedere un serio problema di capacità di assicurare il Governo a lungo, resta da chiedersi come mai si è giunti a questa situazione. O meglio, come mai il M5S non è riuscito ad andare oltre e, col tempo, pur avendo superato il PD non si è trovato competitivo rispetto al centrodestra.

In termini di analisi verrebbe da dir questo. Il punto di partenza è che il M5S si è concentrato in un attacco frontale al PD, ma non al centrodestra che in questo modo ha avuto campo libero per rimontare elettoralmente. Perché ciò? Per un errore di calcolo politico dovuto a inesperienza? La risposta sarebbe troppo semplicistica.

La realtà pare un'altra e pare dipendere piuttosto da un calcolo politico preciso, non improvvisato. Basta analizzare la storia del M5S per comprenderlo. Questo nasce per un errore politico di Veltroni che cede la vittoria a Berlusconi nel 2008. Se il PD si fosse alleato con la sinistra radicale, al senato Berlusconi non avrebbe avuto la maggioranza e si sarebbe trovato quantomeno in una condizione alla Prodi nel 2006. Così non è stato e la carenza di opposizione a Berlusconi ha sfasciato il centrosinistra (se mai è esistito). In questo quadro, l'elettorato antiberlusconiano è rifluito verso una posizione politica che presentava posizioni, sui temi, maggiormente vicine alla sinistra, ancorché impiantate su un quadro maggiormente elastico o per meglio dire pragmatico e quiindi capace di pescare anche in altre aree, e fondate su una critica radicale alla mollezza dell'opposizione del PD a Berlusconi.

La crisi del centrodestra ha fatto il resto. In pratica, a una prima ondata di crescita del movimento dovuta al rifluire dell'elettorato di centrosinistra verso il M5S ha fatto seguito una seconda ondata, questa volta dell'elettorato di centrodestra.

Dove sta il problema? A prima vista sembra risiedere nel fatto che mentre l'elettorato proveniente dal centrosinistra ce l'ha a morte con quel che ne resta, tanto da non ascoltare nemmeno ciò che proviene dal M5S e che nulla a che  vedere con quella cultura politica, l'elettorato proveniente dal centrodestra non l'ha giurata al centrodestra ma sta solo cercando un soggetto politico efficace e quindi è pronto a rifluire all'occorrenza verso la casa madre.

Ciò spiega la necessità del continuo attacco al PD da parte del M5S, perché è l'unico elemento, questo, unificante del suo elettorato. L'attacco al centrodestra, in altre parole, può solo limitarsi all'attacco al soggetto Berlusconi ma non al centrodestra e alle sue posizioni poiché ciò comporterebbe una frattura con l'elettorato proveniente da quelle schiere.

A questo punto, visto il limite "costituzionale" del M5S, quale potrebbe essere il suo futuro politico, considerato che esso non tende a sfondare elettoralmente, aldilà del bacino che ha conquistato nel 2013?

Per come sono messe le cose, alla luce dell'inconciliabilità radicatasi negli anni, appare assai improbabile che ciò che resta dell'elettorato PD rifluisca definitivamente verso il M5S. Assai più probabile è che i vertici del M5S puntino su uno sfondamento nell'area elettorale del centrodestra. Se le cose stanno così, il calcolo politico del M5S dovrebbe essere quello di un rapido sfaldamento del centrodestra al Governo.

Questa è la prima condizione essenziale per allargare l'area del consenso. La seconda è l'assenza di alternative. Vale a dire, per allargare la propria base elettorale all'elettorato che attualmente oscilla tra PD e centrodestra (composto principalmente da piccoli e medi imprenditori, persone che non voterebbe per il M5S potendo scegliere su una opzione differenziata "tripolare"), il centrodestra deve implodere rapidamente in modo da evitare che altre forze abbiano il tempo di prepararsi e presentarsi come alternative credibili ai partiti esistenti.

Se è possibile prevedere la crisi del centrodestra, non è però possibile immaginare entro quanto tempo avverrà. E più sarà lunga la crisi del centrodestra, più serio sarà il rischio per il M5S di perdere quote di elettorato proveniente dal centrosinistra, se l'area della sinistra (ma non quella di Liberi e Uguali) riuscirà a riscostruirsi.

 
 
 

Scusate l'interruzione

Post n°151 pubblicato il 04 Gennaio 2018 da single_sound
 
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Scusate l'interruzione... Sono stati mesi intensi, con tante cose da fare.

Proviamo a ripartire...

 
 
 
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