Creato da indignati_2011 il 25/06/2011
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Gli affitti d'oro per gli uffici dei Papponio di Stato raccontata da un parlamentare

Post n°25 pubblicato il 21 Luglio 2011 da indignati_2011

 

Questa storia degli uffici dei deputati è davvero curiosa. Si trovano a Palazzo Marini, tre minuti a piedi da Montecitorio. Per mantenerli, lo Stato paga circa 30 milioni di euro all’anno soltanto di affitto. Una decina di anni fa, il già grande complesso è stato addirittura ampliato, adesso è arrivato a 60mila metri quadrati. E ci credo: il fatto è che i parlamentari non confermati non ne vogliono sapere, di mollare le stanze, dunque passano mesi prima che i nuovi eletti possano avere a disposizione lospazio. Così succede anche a me, Poletti Roberto, onorevole di fresca nomina: «E il mio ufficio?» chiedo. «Un po’ di pazienza, adesso salta fuori». Poi scopro che l’ex titolare deve ancora liberarlo, e nessuno si può permettere di impacchettargli le scartoffie: lo farà lui, quando avrà voglia e tempo. Gli uffici sono assegnati dai gruppi parlamentari. Ed è un litigio continuo: riunioni su riunioni, trattative estenuanti che sembra la Finanziaria, «a me ne serve uno un po’ più grande», «non datemi quello vicino ai bagni, per favore» e via dicendo. Problemi e lamentele finiscono tutte sul groppone di Giampiero Spagnoli, funzionario storico del gruppo dei Verdi e anche di quello misto, bresciano cui Roma non ha rubato l’accento né la voglia di lavorare: è lui che tranquillizza, media, propone, risolve che neanche Gianni Letta. In ogni caso, l’ufficio assegnato me lo liberano dopo l’estate, a tre mesi dall’elezione. All’inizio, mio vicino di stanza è Massimo Fundarò, ma capisco che la situazione è ancora in evoluzione. L’onorevole Arnold Cassola, infatti, non la manda giù: dice che il suo, di ufficio, proprio non va bene, pare sia troppo rumoroso, soprattutto a causa di una caldaia sistemata nei paraggi. E insomma, Cassola si mette a far la posta agli altri, controlla le frequenze, cronometra i tempi, conclude che Fundarò il suo lo usa poco e invece per lui sarebbe perfetto. Tra l’altro Cassola è stato eletto in una circoscrizione estera, e questi hanno un po’ la fissa di essere discriminati dai deputati “indigeni”, «ma almeno a noi le preferenze ce le hanno date votando il nostro nome, mica come voi». Alla fine, più che altro per sfinimento generale, la spunta. E trasloca nell’ufficio accanto al mio.


E allora, parliamo del mio nuovo stanzone da deputato: non è niente male. È al terzo piano, stanza numero 321. Due scrivanie, due computer, fax e telefono e stampante, una televisione, un frigorifero. E poi tre armadioni, due sedie-poltroncine di quelle comode, una finestra che dà sul cortile interno. Di cancelleria ce n’è a strafottere: penne, matite, colle stick, forbici, fermagli e graffette e graffettine da graffettare il mondo, sbianchettatori, evidenziatori, persino le gomme blu, quelle per cancellare la penna (e mi chiedo: ma chi è che oggi cancella le cose scritte a penna con la gomma blu, che se non stai attento ti buca anche il foglio? Non lo fanno più nemmeno alle elementari). E poi carta, un mare di carta, fogli, buste grandi medie e piccole, bloc notes, cartelline: d’istinto, mi vengono in mente le proteste della Polizia, che più volte si è lamentata perché non ne hanno nemmeno per fotocopiare i verbali, o le mamme costrette a portare le risme di carta alla scuola del figlio. Qui invece siamo sommersi, alla faccia dei boschi rasi al suolo, e meno male che siamo i Verdi. Peraltro, scoprirò poi che la fornitura di cancelleria viene rinnovata ogni tre mesi: ti arrivano gli scatoloni pieni di questa roba e non sai dove metterla, perché del resto ne hai usato un decimo se va bene. E gli scatoloni con i ricambi te li spediscono a qualunque indirizzo, anche a casa. Oppure, se hai un’urgenza, vai direttamente al magazzino, nei sotterranei di Montecitorio. E fai scorta.

Il punto è che questi uffici non li usa nessuno. O si è in Aula, oppure in Commissione, magari in trasferta di lavoro, altre volte semplicemente a casa. Senza contare che c’è l’ufficio del gruppo parlamentare, che sbriga pratiche a richiesta. Oppure quello del partito nazionale, che volendo svolge le stesse mansioni. O l’altro del partito regionale, infine il partito cittadino. È così, la politica italiana è tutta un doppione del doppione del doppione. Risultato: ti aggiri per gli eleganti piani di Palazzo Marini, percorri i corridoi arredati con tappeti e quadri e piante, e subito sei immerso nel paradosso di un dedalo di uffici senza alcuna traccia di lavoratori. Di deputati ne vedi uno ogni tanto, e in genere perché lì ha dato appuntamento all’insegnante di lingua o deve ritirare qualche fax o magari schiacciare un pisolino. I commessi fanno capannello attorno alle scrivanie, scattano in piedi e si danno un contegno quando passa qualcuno, il più delle volte sono costretti a ripiegare sul sudoku. E non si dica che sono io, scansafatiche, a essere allergico alla onorevole scrivania gentilmente messa a disposizione dallo Stato: in questo senso, basta citare tra gli altri un ordine del giorno presentato dalla Rosa nel Pugno, che sottolinea come “ogni deputato dispone di un ufficio ubicato a Palazzo Marini, ma è praticamente impossibile il suo utilizzo durante le giornate di lavoro parlamentare, e per tali uffici, di norma scarsamente utilizzati, la Camera sostiene un costo esorbitante”. Appunto, è quello che dico anch’io. Per di più, una gentile circolare interna ha il piacere di informarmi che, “per consertirti di svolgere con il supporto di adeguati strumenti tecnologici il mandato elettivo”, lo Stato è pronto a coprire una spesa “per l’acquisto di strumentazioni e materiali informatici inerenti la dotazione di una postazione di lavoro” di 3.000 euro. In sostanza, ci regalano il computer portatile più costoso che ci sia. Poi si sussurra che qualcuno, in quella cifra, riesca a farci stare anche il lettore Dvd o la lavatrice, magari strizzando l’occhio al negoziante mentre compila la ricevuta. Ma questa è certamente un’ignobile insinuazione.

Tra le “dotazioni da ufficio” a disposizione dei deputati c’è poi il collaboratore personale, meglio noto come “portaborse”, termine che non mi piace perché offensivo nei confronti di persone spesso sfruttate, pagate in nero, e magari poi sono loro che redigono i comunicati “contro il precariato” poi diffusi da coloro che si presentano come paladini dei lavoratori senza contratto. Non che io voglia fare il moralista: infatti ne assoldo uno (assumo, in questo caso, è una parola grossa), bravissimo, uno dei tanti studenti che si propongono per arrotondare. Ma mi accorgo che davvero posso farne a meno, e dopo cinque mesi interrompo il rapporto. Interrogativo: faccio bene perché smetto di uniformarmi a una prassi vergognosa, o sono uno stronzo perché lascio a casa lo studente? Non sono riuscito a rispondermi. Tra l’altro, dopo che la trasmissione Le Iene fa esplodere lo scandalo e tutti fanno gli gnorri, «chi, io? chi, lui?», e Bertinotti tuona, «questi vanno messi in regola!», ecco che subito arriva la segnalazioncina, con il solerte onorevole Evangelisti, dell’Italia dei Valori, che gira a tutti i deputati e senatori “la comunicazione indirizzatami dallo Studio Interlandi che considero in grado di proporre una consulenza professionale adeguata ad affrontare le problematiche inerenti la regolarizzazione del rapporto di lavoro tra i parlamentari ed i propri collaboratori”. Un bel grazie a Evangelisti dai parlamentari e dallo Studio Interlandi.

Dimenticavo: un altro gadget essenziale per il duro lavoro d’ufficio dell’onorevole è il timbro autoinchiostrante. Io non lo sapevo, poi un giorno vedo due deputati che scherzano, lasciano il marchio dappertutto, «guarda il mio», «ma va, io ci ho messo pure capogruppo», sembrano ragazzini. Incuriosito, m’informo. Mi viene spiegato che va richiesto «giù al magazzino» e te lo fanno avere. Ora, non è che la spesa per i timbri dei deputati sia determinante per incrinare ulteriormente il malmesso bilancio statale, ma a che cosa serve? Forse per evitarci anche la fatica di firmare? Dice: ma allora tu ci hai rinunciato. Io? E perché? Chi sono, il più sfigato? E allora, vai col timbro: “On. Roberto Poletti”. E lo piazzo lì, sulla scrivania. L’avrò usato due volte. A proposito di timbri, alla Camera c’è anche un ufficio postale, si trova vicino all’Aula. E come funzionano bene le Poste, per noi parlamentari: impiegati gentilissimi, quel cartello con scritto “gli onorevoli deputati hanno la priorità”, chissà mai che qualche dipendente si metta in testa di farci fare un minuto di fila. Ogni deputato ha la sua casella, ti mandano un avviso, “c’è posta per lei”, tu vai e ritiri. Se devi inviare a te stesso lettere o plichi o raccomandate fuori sede, francobolli e tasse varie non si pagano. E a Natale, sono gratis anche i biglietti d’auguri, con il simbolo della Camera dei deputati e un’illustrazione d’epoca: “Caro collega, abbiamo il piacere di comunicarti che per le prossime festività natalizie potrai, come di consueto, richiedere la dotazione annuale a te spettante di n. 100 biglietti medioevalis a colori e n. 100 biglietti medioevalis color seppia”. Scopro poi che nel caso non mi piacessero, ho a disposizione 800 euro da spendere entro l’anno per farmi stampare dalla tipografia interna qualunque cosa voglio.

Mica finisce qui: per Palazzo Marini, quello dove si trovano gli uffici, c’è un servizio postale specifico. Nel senso che se per esempio devi ritirare le fondamentali “agende della Camera dei deputati” e ti tocca andare fino a Palazzo Valdina, che si trova a una distanza di metri seicento circa, basta segnalare il problema, e l’agenda la va a prendere e te la porta l’incaricato della società privata che gestisce il servizio. «Ma dài, per un’agenda?». Eh no, perché - come ci comunica la consueta circolare - “la dotazione [ma quante dotazioni abbiamo?] consiste in un’agenda da tavolo personalizzata, un’agendina semestrale in pelle personalizzata e due agendine in pelle”. Cioè, di agende ce ne danno quattro. Quattro a testa, che per 630 deputati fanno 2.520 agende. Poi uno dice che i politici hanno perso il contatto con la realtà: è che noi, con i problemi che fanno imbestialire i normali cittadini, non ci scontriamo mai. La realtà ce la siamo dimenticata.
 
 
 
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