Sono sempre più convinta di essere stata una vagabonda in un’altra vita. O forse un camionista. Anzi, sicuramente un camionista. Che poi da giovane era il lavoro che volevo fare, subito dopo aver scoperto di non poter fare l’hôtesse in un qualsiasi aereo. E’ stato un trauma. Perché era proprio il lavoro che volevo fare, ne ero certa. Avevo la sicura certezza che si ha intorno agli undici anni. Ma no, un anno dopo, la mia certezza sarebbe stata stroncata per via di qualche centimetro. E non mi sembrava giusto, perché io volevo girare, volevo vedere il mondo dall’alto, volevo scoprire, volevo andare oltre i miei soliti confini. No, niente, ci dispiace ma lei dovrà cercare un altro mestiere perché non crediamo, noi corpo accademico, che lei crescerà ancora molto.
E pensare che proprio due anni prima ero stata l’alunna più alta della classe. Un sogno svanito nel giro di pochi mesi, sogno interrotto per via di quella spilungona di Sylvie. Non potevo più fare l’hôtesse né in aria né a terra. Per un lungo periodo, rimuginai su questo fatto e non trovando nessun altro lavoro degno di me, decisi che sarei stata un’eterna disoccupata. A dodici anni certi sogni si possono concedere.
Ad un certo punto ho visto la luce. Non ricordo bene come capitò, ma ricordo che la luce mi guidò e mi indicò la retta via. Volevo fare la camionista.
Alla rivelazione del mio futuro mestiere, mio padre si girò dell’altra parte. Nemmeno perse tempo a chiedermi il motivo. Ma mio padre è sempre stato così: ha sempre pensato che il tempo lenisce ogni ferita e allo stesso tempo fa svanire ogni sogno inconcepibile, almeno secondo lui. Mia madre non si pronunciò, si limitò ad alzare gli occhi al cielo.
Ero così convinta di questa mia futura missione che diventai una bravissima allieva in geografia, anche in storia ma in geografia ero imbattibile. Continuavo a non capire cosa c’entrasse la quantità di grano prodotto dall’USSR (si chiamava ancora così) con la geografia, ma non ponevo domande e studiavo. Avevo persino convinto mio padre ad attaccare il planisfero sopra la mia scrivania, dicendo che durante le mie pause di riflessione avrei potuto guardare e meglio assimilare confini, paesi e capitali. Lui si mostrò entusiasta.
Iniziai ad ascoltare una trasmissione radiofonica che si chiamava “Les routiers sont sympas” (più o meno “i camionisti sono simpatici): i miei genitori non ci vedevano nulla di male.
Mio fratello S. iniziò a sospettare qualcosa. Mio fratello D. smesse per qualche ora di assemblare i suoi aeroplanini e mi regalò un TIR fatto con le sue manine. Era un appassionato di modellismo. A., che è sempre stato il più diretto di tutti i miei fratelli, girava con un metro da sarta, voleva a tutti i costi misurarmi per sapere esattamente quanto dovevano essere alti i tacchi delle scarpe che avrebbe dovuto regalarmi. C’era aria di congiura, lo sentivo, ma non mi scoraggiavo.
Nemmeno a scuola potevo liberamente confessare che, finalmente, avevo trovato il lavoro dei miei sogni, e la risposta era sempre la solita: non lo so, ci penserò quando sarà giunta l’ora. Mi sembrava un’onesta risposta.
Qualche anno passò. I centimetri rimasero sempre quelli per quanta minestra io potessi mangiare ed invece i TIR diventavano sempre più dei bestioni che non avrei mai potuto guidare senza un allungamento delle gambe e delle braccia, ma non ero disposta a tanto sacrificio solo per poter realizzare un sogno. E così, iniziai a rispondere sinceramente: non lo so, non so cosa farò da grande.
Ecco, ora che sono grande, ancora non so cosa farò quando sarò ancora più grande. Di sicuro, non girerò il mondo per lavoro, ma rimane un mistero perché mi sono ritrovata ad occuparmi di contabilità. Volevo fare la camionista, chissà perché sono finita in mezzo ai numeri. Però, continuo ad essere informata sull’andamento del traffico. So tutto. Ascolto una radio dedicata. A modo suo, il sogno è ancora vivo.
Chissà se da quello sogno è nata la mia passione per le canottiere. Quelle da muratore. Ecco, quel mestiere non mi è mai passato per l’anticamera del cervello.
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