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Laser, tastiere, porketta, fonderia e....impressioni

 

 

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LE PRIME PROVE

Post n°115 pubblicato il 13 Dicembre 2008 da fonderiaromana

Finora ha piovuto poco. Anche se una volta ha nevicato. Lo giuro a Novembre ha nevicato.

Finora ho lavorato tanto, forse troppo. Qui si devono fare i numeri, si usa il blackberry, la mail, la chat, la Reuters, Bloomberg e il tempo di riflettere è poco. Tanto che ho smesso di scrivere. Perché poi di energie fisiche e mentali ne spendo tante e le sensazioni, quelle da scrivere, scivolano via tra le stanchezze.

Quando si è prospettata l’idea di partire, mi terrorizzava tra le altre cose l’idea di lasciare il gruppo, la musica, un progetto di anni e anni, un progetto di venerdì e fine settimana chiuso a suonare. Poi però ho sempre sperato che anche qui sarei riuscito a ritagliarmi momenti musicali….voglio dire Londra…

Ed effettivamente non è stato difficile e con qualche annuncio su internet, un myspace ad hoc, sono riuscito a trovare bene 3 contatti.

E così anche qui, forse senza la stessa serietà romana, sicuramente senza gli stessi legami forti romani, senza la fonderia romana, sono riuscito a ritagliarmi il mio spazio musicale.

 

Il primo è stato un ragazzo inglese, di quelli classici, con i capelli rossi, magro scheletrico e la riga da una parte, con i jeans a tubo strettissimi. Sembra uscito da un live degli Smiths.

Lui vorrebbe creare una sorta di progetto indie punk insieme ad un bassista italiano e un batterista inglese. Le sonorità sono una via di mezzo tra gli Oasis e i Nirvana, quei tipici stili in cui una tastiera c’entra come il parmigiano sugli spaghetti con le vongole.

 

Il secondo gruppo rappresenta il mio sogno politicalsociomusicale, un gruppo di periferia, multietnico, i cui componenti sbarcano il lunario con lavoretti, sono fumatori incalliti, bevono e parlano di musica e di sogni o di famiglie sparse per il mondo.

 

 Il bassista è portoghese, ha quasi 40 anni famiglie sparse tra Lisbona, Rio de Janeiro e l’Inghilterra, e qui con se, un figlio londinese, mago dei computer. Quando ho raccolto l’annuncio mi ha ospitato nella sua casa, condivisa con un 20enne studente e musicista, che si trova a Clapham dall’altra parte del Tamigi rispetto ai fasti di Chelsea e South Kensington, lì dove comincia una periferia più dimenticata, ma forse più originale.

L’appartamento è in una stradina piccola, un casermone pieno di porte vicine tra loro, con una vista eccezionale sulla periferia che si estende da lì verso sud, un susseguirsi di mattoni rossi e comignoli uno dietro l’altro, incorniciati nei nuvolosi inglesi.

Pedro (questo il nome) mi fa ascoltare le canzoni del gruppo, un reggae semplice e di poche pretese, e mi racconta stralci della sua storia, in questa stanzetta buia e sporca.

Dopo giorni e giorni di ufficio e di italiani lamentosi pigri immigrati, mi perdo per la prima volta in un paese straniero a sentire storie assurde, di viaggi transoceanici, di lavori saltuari, di magliette bucate e non stirate, di storie coniugali ed extra, di musica cubana, il tutto nel nostro inglese stentato e balbettato.

Mi immagino mio padre, la mia famiglia trasportati in questo contesto, mi immagino figlio di un musicista mancato con mia madre chissà dove.

Poi penso a quante realtà mi sono perso e mi sto perdendo, nel vortice delle stronzate a cui ci attacchiamo perennemente scontenti….”perché qui il sale non sala, il pepe non pepa, il cibo è disgustoso, il tempo fa schifo…” e adoro questo bagno nella vita reale.

Mentre si gira l’ennesima sigarettina lo ascolto raccontarmi che ha una storia con la vicina di casa, anche lei divorziata con un figlio piccolo che vive con lei e li immagino amarsi in quel letto e preparare colazioni piene di cereali ai loro figli nati così lontani e ora così vicini.

Quando arriviamo a casa, il figlio della sua vicina si affaccia alla finestra e lo saluta: “hi pedro, who is your friend?” e cominciano a chiacchierare e mi sembra una scena tenerissima lì su quel parapetto, al sesto piano mentre pioviggina, mi sembra tenero vedere questo uomo portoghese lotano da casa e dalle sue origini, pieno di storie interrotte, paterno e sorridente con questo bambino inglese.

 

Dopo un po’ arriva il leader, si chiama Chris, è di Grenada un’isola caraibica, è il prototipo reggae, occhiali da sole, dreadlocks, barba, cappellino colorato, anelloni dorati e catene con l’africa.

Un’altra perla di vita, un altro pezzo di immigrazione reale, di chi scappa da qualcosa e non ha niente.

Lui ha un vocione splendido, stonato al punto giusto, alla Mikey Dread, ha delle mani enormi e ogni volta mi chiedo come faccia a fare gli accordi sulla sua chitarra.

Lui scrive tutte le canzoni e parla un inglese incomprensibile.

Capisco che anche lui con una famiglia a carico si dimena tra sussidi di disoccupazione e lavoretti saltuari, sognando col suo reggae semplici folle e guadagni che dubito arriveranno.

Però è allegro, mi mette allegria, anche solo per i colori che porta addosso e per i sogni che ha di diventare famoso.

Penso che non lo diventerà mai, famoso, però che bello sentirli quei sogni, che bello averceli e trasmetterli.

Mentre mangia al buffet “eat as much as you can for 5pounds” e si immagina qualcuno che gli prepari la chitarra su un grande palco o guadagni stratosferici, perché il gruppo c’è e sente vibrazioni incredibili, per un momento riesce a contagiarmi. In quella cornice trista, con la solita pioggerella fitta, per un attimo ci credo anche io.

O almeno mi crogiolo nel sogno, mi faccio cullare dai sogni senza età, senza realtà, senza paura del presente, irrazionali e puri

 

Poi c’è Roger il batterista brasiliano.

Lui abita a Cristal Palace, luogo che conosco solo per le mie passioni calcistiche. Siamo ancora più in periferia, perché da Clapham serve un altro autobus per arrivare a casa sua.

Lui non torna in Brasile da anni ed è sposato con una inglese. Ha un viso realmente sudamericano, con lineamente dolci e un colorito mulatto favoloso. Porta una coda tutta ingelatinata che nasconde i capelli vagamente crespi, è altissimo ed ha un fisico mostruoso, frutto credo del suo passato da muratore. Parla un inglese favoloso perché addolcito dalle j brasiliane, però comprensibilissimo.

E’ autodidatta e alla prima prova mi ha sbalordito per scioltezza e per originalità, si sente che la Samba del DNA non è stata contaminata dal 4/4 inglese stile Oasis.

Addirittura in un pezzo si esibisce in variazioni con maracas e percussioni varie, trainando il reggae in qualcosa di molto sudamericano.

Lui sta cercando lavoro e ha deciso di prendere la patente per guidare i furgoni.

Io non riesco a non fare paralleli con la mia vita, con le nostre vite, quando vedevo a 18 anni la patente come il sogno di evasione, il sogno per raggiungere quei posti lontani, per sentirsi grandi.

Qui si parla di qualcosa che ti fa vivere, guadagnare….

 

Poi c’è un'altra tastiera già presente.

Si chiama Martin, è inglese, nero, con dei dread foltissimi.

Martin è timidissimo, in tutta la prova dirà qualcosa come 3 parole, e quando suona trema.

Lui si occupa di suonare il levare e trema tutto, però è precisissimo e mentre attacchiamo gli strumenti lui improvvisa delle melodie stupende, tra la musica classica e il Jazz.

Poi non so perché si pietrifica nella sua timidezza e nel suo sguardo spento e si limita a darci il levare.

Non so nulla di lui, arriva alle prove col suo tastierone, poggiato su un carrello per la spesa tutto legato, non parla se non il minimo indispensabile, suona 3 ore senza tregua e poi se ne va sorridendo.

La prima volta in cui ho provato mi è sembrato impaurito, come se si sentisse minacciato, poi i miei suonacci elettronici e la nostra complementarità musicale lo hanno tranquillizzato, le parole restano poche , ma il tremore sembra diminuire mentre i sorrisi aumentano.

 

La sala anche quella è perfetta. Si trova a Balham, sperduta in mezzo a dei garage, puzza di cantina e di sigaretta e la ragazza che la gestisce il sabato è una biondina in canottiera piena di tatuaggi e di piercing, assorta in letture dark ancestrali sulla fine del mondo, contornata di patatine, di bibite e di corde di ricambio.

 

Che ci faccio io lì???

Cerco di rimanere attaccato alle mie radici, cerco di alimentare la mia umiltà, cerco la realtà di quello che è la vita dietro un vestito elegante, cerco la musica e la pace e la tranquillità interiore, cerco di sminuire le mie difficoltà di tutti i giorni, cerco di apprezzare le diversità, cerco di mantenere viva la mia curiosità, la mia voglia di incontrare gente sconosciuta che viene da lontano senza ritrovarla tramite facebook, ma per le strade di questo calderone da 10 milioni di abitanti….

 

Mi sento ancora solo, perché ricreare 30 anni di rapporti seminati e coltivati e cresciuti e innaffiati è difficile, soprattutto spendendo tante energie al lavoro, però è un inizio….sono le prime prove, è la prima prova.

 
 
 
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