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Lettera a una professoressa

Post n°31 pubblicato il 06 Ottobre 2008 da acori
Foto di acori

Riporto una testimonianza di Nella Condorelli pubblicata sul sito Women in the city, quanto mai utile per una riflessione.

Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne insieme è la politica, sortirne da soli è l’avarizia.”
da "Lettera a una professoressa"

A proposito di anniversari e di Sessantotto. L’anno scorso ha compiuto quarant’anni “Lettera a una professoressa”.
Era infatti il 1967 quando il libro collettivo, - “cooperativo” si legge nell’introduzione, cioe’ scritto da tutti gli scolari e non da uno soltanto, e indirizzato a tutti gli insegnanti e non ad una in particolare -, usci’ da Barbiana, la scuola popolare che don Lorenzo Milani, prete scomodo, educatore ancora piu’ scomodo, aveva fondato da qualche tempo nella piccola parrocchia di Sant’Andrea a Barbiana, territorio di Vicchio del Mugello, Toscana.
Dove la Curia fiorentina l’aveva spedito, questo parroco insopportabile che metteva al primo posto i poveri, che seguiva alla lettera la voce di Cristo e le sue parabole evangeliche sul regno dei cieli, gli umili e i ricchi,  che vedeva nel consumismo la fonte dell’alienazione e dell’allontanamento dei poveri dalla Chiesa e dai valori cristiani, e a Calenzano aveva persino creato una scuola aperta agli operai comunisti..., insomma, dove la Curia l’aveva spedito per tenersi buoni i devoti benpensanti, e liberarrsi definitivamente della sua pratica di fede “ribelle”. Ancor piu’ fastidiosa, nel tumulto della contestazione studentesca.

1967. Quando usci “Lettera ad una professoressa”, io avevo quindici anni, a Catania. A scuola, collegio delle suore domenicane, indirizzo magistrale, studiavo italiano, latino, storia, geografia, matematica, pedagogia, catechismo… Al mattino, ma solo di sabato, c’era la messa collettiva, a Natale quella con le famiglie, a maggio le celebrazioni mariane, e in Quaresima, gli esercizi spirituali.
Per tre giorni, prima della Settimana santa, noi studentesse, grandi e piccole, meditavamo leggendo e ricamando. A richiesta, si poteva lavorare la tela spazzino e il panno lenci al posto del punto a croce, e creare quadretti fatti di piccole sagome disegnate sulla carta velina, ritagliate e poi incollate. Consentite le scene dalle fiabe, Andersen, villaggi nordici seppelliti sotto coltri di neve (panno lenci bianco), piccole fiammiferaie, uccellini infreddoliti (panno lenci a colori).
Sul banco dei libri, tutti gli anni e per tutte le ragazze - delle medie e delle superiori, indifferentemente -, appariva il volumetto con il volto triste di san Domenico di Guzman, il fondatore dell’ordine, vita e opere. Noi, quelle del panno lenci, segnalate “ribelli”, facevamo la fila, per prenotarci. I ritratti del santo, un giovanotto biondo e bello, il contesto spagnolesco nel quale si muoveva, erano un’invito potente al sogno e all’evasione. Viaggiavo, oltre il libro di geografia.
Fu in quella Quaresima del ’67, o forse l’anno dopo, il ’68, non ricordo, che sul banchetto, tra santa Teresa e san Domenico, apparve “Lettera ad una professoressa”. Copertina bianca, caratteri blu. Ancora oggi, mi chiedo, come mai. Fu la Suora Preside a introdurlo, lei che ci leggeva la Divina Commedia praticamente recitando le vite descrttte da Dante, con un’identificazione profonda, sconvolgente per noi, a quei tempi? Oppure, chi porto’ nell’aula degli esercizi spirituali le parole di Don Milani, mentre fuori gia’ infuriava la protesta studentesca?
Mi ritrovai a leggere veramente d'un fiato. Poi rilessi. Cercavo d’ immaginare quella classe sui monti, quei ragazzi figli di montanari; li cercai sulle strade siciliane, al fine settimana, quando si andava al paese, in visita alla nonna, figli di contadini nei paesi di una campagna che gia’ si spopolava. Fu cosi’ che “Lettera ad una professoressa” entro’ nella mia vita di collegiale adolescente, maestra a venire. Indicandomi una via, mentre mi segnalava una responsabilita’.
Fu cosi’ che la vita dei ragazzi di Barbiana si lego’ indissolubilmente alla mia. E la didattica del priore, il suo sentimento per gli esclusi, la sua dura requisitoria contro la scuola di classe, scuola distratta negli confronti dei piu’ emarginati, scuola indifferente come una condanna a morte, si cemento’ nella mia formazione scolastica di alunna delle magistrali, spazzando via Piaget e tutti gli altri pedagogisti che mi toccava studiare su testi aridi e distaccati dalla vita. Fu cosi’ che trovai il mio indirizzo. Il mio Sessantotto.

L’ho ritrovata, Barbiana, agli inizi degli anni Ottanta, quando arrivai per la mia prima “ cattedra” da maestra a tempo pieno, in un paese della provincia di Catania, distaccata al secondo turno del secondo circolo didattico.
“Secondo”, definizione pregnate! “Secondo” era il turno pomeridiano, vi venivano iscritti d’ufficio i figli degli emigrati, dei contadini, dei pastori, delle vedove bianche, delle donne che si prostituivano a casa per la “vastedda” (ma non si diceva). “Secondo” era l’orario. 12,30 - 16,00. Mezz’ora di scuola in meno, rispetto a quella prevista per i “Pierini” del primo turno. Mezzora rubata. “Secondi”, anzi ultimi erano loro, gli scolari e le scolare. Maschi e femmine al limite con l’obbligo, quattordici anni e ancora in seconda elementare. Antonio scriveva attaccando le parole insieme, storpiandole, con una grafia stretta e sbilenca. Camminava con la testa incassata nelle piccole spalle, come quei cagnolini che hanno sempre paura di ricevere qualche legnata. Padre e madre emigrati in Belgio, miniera; l’aveva allevato la nonna, piccola come il nipote, vestita di nero, sempre con uno sguardo di pena negli occhi per questo suo “orfanu”. Lucia sembrava uscita fuori da una canzone di De Andre’, un fiore da un letamaio. Quattordici anni, bellissima. Non sapeva ne’ leggere ne’ scrivere; padre emigrato in Germania chissa’ quando, viveva in una casa solitaria piena di pidocchi con madre, zia, fratelli e cugini, in equivoca promiscuita’ sorvegliata da un nonno-padrone, robivecchi di mestiere. Giovanni, tredici anni, orfano vero di padre, garzone a nero di panetteria, scriveva a mala pena, nell’impastatarice aveva perso tre dita; sua madre veniva ogni giorno in classe e si torceva le mani, guardandolo nel banco. Nessuno di loro, aveva mai visto il mare.
“Non ci perdere tempo…”, mi aveva detto il primo giorno di scuola, indicandoli tutti, un collega del primo turno che di mestiere faceva anche il bottegaio.

Non so se Don Loranzo Milani sia stato un santo oppure no. So di certo che il suo metodo della scuola aperta, della classe circolare, della scrittura collettiva, del lavoro di equipe, della responsabilita’ e responsabilizzazione di tutti gli attori del processo educativo, insegnanti e scolari, e la sua didattica fondata “sul piacere di sapere per non essere sulbalterni”, con me hanno funzionato. Per anni, sin quando sono stata maestra, di secondo turno sempre e per scelta, mi hanno dato gli strumenti per arrivare a quei visetti e a quelle coscienze remote di ragazzi poveri. Non credo che la poverta’ possa avere altre espressioni che quelle, anche quasi trentanni dopo, anche in questa Italia terzo millennio. Finche’ ci saranno sacche di poverta’, di esclusione, di analfabetismo - e tante oggi ce ne sono - " Lettera a una professoressa" , col suo parlare franco, duro, avra’ senso.

Tg del 2 agosto 2008. Sento che la signora ministro dell’Istruzione ha presentato le sue proposte per la scuola, parla di grembiuli obbligatori, di ritorno degli esami di riparazione a settembre (cosa che, si suppone, significhera’ per le famiglie anche lezioni estive), dell’introduzione di reati specifici per la categoria degli studenti… Cosi’, di primo acchitto, mi paiono solo misure repressive, basate sulla logica della punizione, sul trionfo della “sicurezza” e dell’ “ordine”. Riprendo in mano “Lettera ad una profesoressa”. Apro a caso. Leggo.
(…) “L’abbiamo visto anche noi che con loro la scuola diventa difficile. Ma se si perde loro, la scuola non è più scuola. E’ un ospedale che cura i sani e respinge i malati. Diventa uno strumento di differenziazione sempre più irrimediabile. E voi ve la sentite di fare questa parte nel mondo? Allora richiamateli, insistete, ricominciate tutto da capo all’infinito a costo di passar da pazzi. Meglio passar da pazzi che essere uno strumento di razzismo.”.


 
 
 
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