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Non intendo sollecitare investimenti.
Chiunque utilizzi spunti derivanti dalla mia analisi agisce a proprio rischio e pericolo.
Messaggi di Luglio 2014
18 luglio 2014 Il Conference Board Leading Economic Index ® il (LEI) per gli Stati Uniti è aumentato dello 0,3 per cento nel mese di giugno arrivando a 102,2 (2004 = 100), dopo un aumento dello 0,7 nel mese di maggio e un aumento dello 0,3 in aprile. "Gli aumenti generalizzati nel LEI negli ultimi sei mesi segnalano una economia che si sta espandendo nel breve termine e può anche un po 'accelerare nel secondo semestre", ha detto Ataman Ozyildirim, economista presso il Conference Board. "I Permessi per nuove abitazioni, l'indicatore più debole in questo periodo, riflette qualche rischio in questa prospettiva di miglioramento. Ma le condizioni favorevoli finanziarie, le tendenze generalmente positive nel mercato del lavoro e le prospettive per nuovi ordini nel settore manifatturiero hanno compensato la debolezza del mercato immobiliare negli ultimi sei mesi ". L'uscita dei prossimi dati è prevista per giovedi 21 agosto 2014. ^^^^^^^ il LEI è uno dei nostri leading indicator preferiti poichè: a) La correlazione tra LEI e PIL è molto elevata come ci dimostra Northern Trust nel grafico, in cui il LEI – anticipato di un trimestre – viene messo a confronto con l’andamento del PIL americano dal 1960 a oggi. b) la relazione tra Leading Indicator e mercato azionario è molto stretta , risulta evidente la quasi perfetta correlazione tra le due serie di dati: i punti di massimo e di minimo vengono quasi sempre raggiunti nello stesso periodo.I dati del Leading Indicator anticipano di circa sei mesi i movimenti dell’economia e che la stessa cosa succede con i mercati azionari, Il Conference Board (CB), l’istituto privato che elabora l’indice, considera che un calo del 2% in sei mesi, con la contemporanea flessione della maggior parte dei componenti, possa segnalare l’arrivo di una fase di recessione tra i tre e i nove mesi dopo l’ultima lettura; e viceversa, un rialzo del 2% in sei mesi possa segnare l'arrivo di una espansione tra i tre e i nove mesi dopo l’ultima lettura . pertanto noi continuiamo ad usare le indicazioni fornite dai Leading Indicator per riuscire ad ottenere buoni risultati dall’investimento! i dieci componenti del The Conference Board Leading Economic Index® sono ora : Average weekly hours, manufacturing Average weekly initial claims for unemployment insurance Manufacturers’ new orders, consumer goods and materials ISM Index of New Orders Manufacturers' new orders, nondefense capital goods excluding aircraft orders Building permits, new private housing units Stock prices, 500 common stocks Leading Credit Index™ Interest rate spread, 10-year Treasury bonds less federal funds Average consumer expectations for business and economic conditions
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ll Governo continua a sottovalutare la gravità delle condizioni e delle prospettive dell'economia dell'euro-zona e, inevitabilmente, dell'Italia. Dall'intervento del Ministro Padoan, oggi 17 luglio alla Camera, nessun rilievo sulla insostenibilità della politica economica mercantilista, alimentata da austerità cieca e svalutazione del lavoro, dettata da Berlino, Bruxelles e Francoforte. L'euro-zona è in condizioni sempre più gravi, ma non vogliamo vedere. Il selfie dell'Europa si dice mostri noia. Invece, è disperazione. Crescere tutti attraverso le esportazioni è impossibile. Universalizzare la via tedesca si ritorce anche contro la Germania, come evidenziano gli ultimi dati sulla produzione industriale. Ma si continua a insistere, senza ricordare che, nell'euro-zona, la ricetta seguita, dopo 7 anni, ha aggravato i problemi preesistenti e portato 7 milioni di disoccupati in più, centinaia di migliaia di piccole imprese in meno e debiti pubblici saltati, in media, dal 65% al 95% del Pil. Non si cresce a debito. Giusto. Ma il debito cresce per le politiche recessive. Le prospettive per l'euro-zona e per l'Italia rimangono di stagnazione, elevata disoccupazione e aumento dei debiti pubblici. Le politiche monetarie non convenzionali adottate dalla Bce per contrastare la deflazione in atto lo confermano. Altro che ripresa. Ieri, le ultime previsioni sul Pil italiano (Rapporto Ref) indicano zero per l'anno in corso e un deficit al 2,9% del Pil. Le valutazioni del Ministro, con la conferma del pareggio di bilancio in termini strutturali per l'anno prossimo, prospettano una Legge di Stabilità nell'ordine di 23 miliardi di euro per il 2015, senza includere le risorse aggiuntive per la promessa estensione del bonus Irpef a Partite IVA, incapienti e pensionati e le risorse aggiuntive per il necessario contrasto alla povertà assoluta raddoppiata nel triennio alle nostre spalle. Così non va. È ora di guardare in faccia la realtà. Recuperare autonomia culturale e politica di analisi e azione. Il Governo, come presidente di turno dell'Unione europea, deve aprire una discussione veritiera. Continuare a sottoscrivere documenti che celebrano la ripresa in atto, il successo della politica economica attuata e a scaricare i problemi sui ritardi di alcuni Paesi nelle riforme strutturali vuol dire condannare al naufragio l'euro-zona e l'Italia. Le riforme strutturali sono necessarie. Le dobbiamo fare. Ma non sono sufficienti. Il Governo deve dire che la politica economica dell'euro-zona porta il Titanic Europa a sbattere all'iceberg dei movimenti e partiti regressivi e nazionalisti. Deve insistere affinché i governi dell'Unione, in particolare il Governo Merkel, superino la visione autolesionistica del proprio interesse nazionale e, insieme alla Commissione, riconoscano i dati di realtà prima che sia troppo tardi. È insostenibile la dimensione della Legge di Stabilità prevista per ottobre. Impossibile, in quanto irrealistico, l'obiettivo pur flessibilizzato, del fiscal compact. Tentare di raggiungerlo, sulla base delle raccomandazioni della Commissione europea confermate dal Governo Renzi, sarebbe un dolorosissimo e dannoso accanimento terapeutico. Aggraverebbe le condizioni del lavoro, delle imprese e del debito pubblico. Insistere sulle privatizzazioni emergenziali delle nostre principali aziende pubbliche per fare cassa indebolirebbe ulteriormente il nostro tessuto produttivo senza produrre effetti sul trend del nostro debito pubblico. Dobbiamo, invece, mettere sui tavoli di Berlino, Bruxelles e Francoforte l'insostenibilità per noi e per altri di debito pubblico e moneta unica nel quadro immutabile della politica economica Germano-centrica. Una rotta alternativa per lo sviluppo sostenibile, il lavoro e la riduzione dei debiti pubblici, sulla carta, esiste: 1. Ampliare la prevista iniezione di liquidità da parte della Bce per portare rapidamente l'inflazione oltre il 2%; 2. Finanziare attraverso euro-project bond programmi di investimento, innanzitutto in piccole opere; 3. Aumentare le retribuzioni sempre dietro alla produttività nei paesi in avanzo commerciale eccessivo, come la Germania, per sostenere la loro domanda interna; 4. Costruire un'efficace banking union, dopo l'accordo al ribasso della primavera scorsa, per liberare le principali banche europee dalla zavorra rimasta immutata dei crediti inesigibili; 5. Introdurre una soluzione cooperativa nell'euro-zona per gestire i debiti pubblici oramai insostenibili; 6. Arrestare l'opaco negoziato per un'area di "libero" scambio transatlantica (Ttip) e aprire la discussione ai parlamenti nazionali. Ma la teorica rotta alternativa è preclusa dai rapporti di forza politici e economici prevalenti e da una ideologia liberista non più egemone ma ancora dominante. L'alternativa effettiva di fronte all'euro-zona oggi non è tra un lungo, doloroso e ordinato cammino verso la ripresa e la riduzione di debito, da una parte, e il default caotico di debiti pubblici e la rottura della moneta unica dall'altra. No. Purtroppo, dati i rapporti di forza politici e economici dominanti in Europa, l'alternativa è tra default caotico dei debiti pubblici e rottura della moneta unica e una possibile, difficile, de-integrazione governata. Certo, ancora una volta verremo iscritti tra i "gufi". Pazienza. Il vero pericolo oggi sono gli struzzi che continuano a tenere la testa sotto la sabbia. |
Credo che il primo dovere nei confronti di noi stessi sia quello della chiarezza. In primo luogo sulla gravità della situazione. Il nostro paese ha perso, dall’inizio della crisi, poco meno del 10% del prodotto interno lordo, il 25% della produzione industriale, il 30% degli investimenti. A chi paventa catastrofi nel caso di un’eventuale fine dell’euro va risposto che al punto in cui siamo l’onere della prova va rovesciato, perché la catastrofe c’è già. E la prima cosa da fare è di comprendere come ci siamo finiti e cosa fare per uscirne. Ci troviamo, molto semplicemente, nella peggiore crisi dopo l’Unità d’Italia: peggiore di quella del 1866, e peggiore di quella del 1929 (Rapporto CER n. 2/2013). Peggiore per tre motivi: perché il livello di prodotto pre-crisi – che negli altri casi era già stato recuperato dopo 6 anni– in questo caso non sarà recuperato neppure in 10 anni; perché gli indicatori di cui disponiamo non segnalano alcun miglioramento significativo della situazione (al contrario, quanto alla disoccupazione, essi ne prevedono un ulteriore aumento nel corso del 2014). E anche perché la situazione attuale è caratterizzata da due elementi di rigidità che privano il nostro Paese di margini di manovra.
Il primo vincolo – quello rappresentato dall’appartenenza alla moneta unica – impedisce ogni autonoma politica monetaria e ogni recupero di competitività tramite la svalutazione della moneta. Il secondo elemento di rigidità – quello dei vincoli di bilancio – impedisce ogni politica anticiclica, per non parlare poi di una politica industriale. Osservo en passant che il modello tedesco, continuamente invocato quando si tratta di precarizzare il mercato del lavoro sul modello dell’Agenda 2010 di Schröder, viene completamente trascurato quando si parla di politiche anticicliche. E sì che con 70 miliardi di euro utilizzati per rilanciare il settore manifatturiero tra 2008 e 2009, la Germania (che in quei due anni aveva perso all’incirca la stessa quota di prodotto perduta dall’Italia) costituisce un caso di scuola in fatto di utilizzo massiccio di politiche di deficit spending in funzione anticiclica… I vincoli di bilancio hanno conosciuto un aggravamento negli ultimi tre anni anche rispetto a quanto fu previsto a Maastricht. In particolare, la regola relativa alla necessità di ridurre la parte di debito che eccede il 60% del pil nella misura del 5% annuo è una regola che nel Trattato di Maastricht non c’era, e non per caso: era infatti ben chiaro ai negoziatori degli altri Paesi che l’Italia non avrebbe potuto accettare un obbligo di riduzione del debito di queste proporzioni. Questo vincolo è invece stato introdotto nel 2011, nel bel mezzo della peggiore crisi economica globale dagli anni Trenta. Stretti tra il vincolo monetario e quello delle politiche di bilancio, i governi non hanno alcun margine di manovra. Possono solo accettare la corsa al ribasso sui salari (ossia la svalutazione interna), che però – come si è visto in questi ultimi anni – ha l’effetto di far crollare la domanda interna, e quindi di ridurre, prima, e distruggere, poi, capacità produttiva, a evidente beneficio di produttori localizzati in altri paesi. La verità è che “di fatto, l’austerità fiscale ha collocato l’economia europea su un equilibrio di sottoccupazione” (Rapporto CER 4/2013, p. 7). Se i vincoli di bilancio dal 2011 in poi si sono fatti più severi e stringenti, anche il vincolo monetario si fa sempre più soffocante, a dispetto dei bassi tassi d’interesse BCE. Per 3 motivi: 1) perché l’euro è sopravvalutato sul dollaro, 2) perché allo stesso annuncio dell’OMT da parte di Draghi, dopo la sentenza di Karlsruhe, sarà molto difficile dare seguito concreto in caso di necessità (ne ha scritto molto bene Gianluigi Nocella: http://re-vision.info/2014/02/in-attesa-di-condanna/ ); 3) infine, perché sul nostro paese incombe la deflazione; la quale, a differenza dell’inflazione, aumenta il valore reale del debito in essere e ne può rendere insostenibile il peso anche in tempi molto brevi. Per questi motivi lo stesso assottigliarsi dello spread Bund/Btp non deve ingannare: esso infatti è il prodotto della politica di quantitative easing della Fed da un lato, dei flussi di capitale in uscita dai fondi obbligazionari specializzati in emerging markets dall’altro. Si tratta in entrambi i casi di dinamiche che potrebbero facilmente e rapidamente mutare di segno. Anche perché non si è affatto invertito il processo di balcanizzazione finanziaria in Europa, ossia la risegmentazione dei mercati finanziari e il loro ridisegnarsi secondo linee coincidenti con i confini nazionali. Si tratta del pericolo numero uno per l’euro, assieme alla crescente divergenza tra le economie dell’eurozona. Un processo caratterizzato dal rimpatrio dei crediti effettuati dalle banche tedesche e francesi nei confronti degli altri paesi dell’eurozona, e conseguentemente dall’aumento della quota di titoli pubblici di questi paesi in mano alle banche domestiche. Nel caso delle banche tedesche, le esposizioni nei confronti dei Paesi periferici dell’eurozona è passata in pochi anni da esposizioni per 520 miliardi di euro verso i Paesi periferici dell’eurozona a esposizioni pari a 214 miliardi (dato di novembre 2013). La ratio dell’Unione Bancaria, la vera posta in gioco con la sua costruzione, consiste nella possibilità di invertire questo processo. Ma purtroppo, per i difetti della sua attuale configurazione (ritagliata sulle esigenze delle banche tedesche e sulla necessità di proteggerne il maggior numero possibile dall’esame della BCE), non sembra in grado né di ridurre entro termini ragionevoli il rischio sistemico, né di costituire una diga efficace alla balcanizzazione finanziaria. Con quello che ne consegue anche per quanto riguarda le prospettive di sostenibilità del nostro debito pubblico. Più in generale, C.M. Reinhart e K.S. Rogoff ritengono che in base all’esperienza storica l’ottimismo dei governanti europei circa la possibilità di uscire dal debito “per mezzo di un mix di austerity, forbearance e crescita” sia ingiustificato. E che, al contrario, “il finale di partita della crisi finanziaria globale probabilmente richiederà una qualche combinazione di repressione finanziaria (una tassa occulta sui risparmiatori), vera e propria ristrutturazione del debito pubblico e privato, conversioni, inflazione molto più elevata, e misure varie di controllo dei capitali” (C.M. Reinhart e K.S. Rogoff, Financial and Sovereign Debt Crises: Some Lessons Learned and Those Forgotten, IMF Working Paper, dicembre 2013, pp. 3-4). Se riflettiamo su queste parole, possiamo intendere come molti dibattiti italiani su questi temi siano fuori centro e fuori tempo. Si invoca lo spettro dell’inflazione (che riduce il valore reale del debito) quando invece siamo prossimi alla deflazione (che lo aumenta). Oppure si invoca lo spettro della svalutazione della moneta quando, semmai, il vero problema oggi è la svalutazione interna: perché stiamo già svalutando, e pesantemente, i salari (la qual cosa, sia detto di passaggio, è precisamente quello che ci viene chiesto quando si parla di “riforme strutturali”). L’errore, qui, è quello di pensare con le categorie e con le priorità degli anni Settanta e Ottanta in uno scenario completamente cambiato, i cui elementi di pericolo sono completamente differenti. Rigidità delle politiche di bilancio e rigidità del cambio sono difficilmente sostenibili di per sé. Ma soprattutto sono insostenibili contemporaneamente. La conseguenza è molto semplice: o salterà l’una, o salterà l’altra. O sapremo conquistarci maggiori margini di manovra effettivi sui conti pubblici, e al tempo stesso imporre anche alla Germania la politica espansiva in termini di domanda interna che sinora si è rifiutata di attuare (senza la quale ogni espansione della nostra domanda interna riproporrebbe una situazione di squilibrio della bilancia commerciale), o procederemo verso l’implosione dell’eurozona. Ma, prima ancora, verso la distruzione della nostra capacità produttiva e della nostra economia. L’unico modo per conquistare quei margini di manovra è porre radicalmente in discussione gli ultimi Trattati e accordi europei: quelli dal marzo 2011, ossia dal Trattato Europlus in poi. Altrimenti, non resta altra strada che l’abbandono della moneta unica. Non ci sono altre vie: in particolare, non sarebbe praticabile né utile la strada di un approfondimento del processo di integrazione europeo anche da un punto di vista politico. Infatti, se non si interviene prima sull’impianto neoliberistico/mercantilistico che impronta di sé i Trattati dall’Atto Unico Europeo dal 1986 in poi – e che fa sì che la competizione tra paesi in Europa sia necessariamente tutta giocata sulla concorrenza al ribasso sulla protezione del lavoro e sulla fiscalità per le imprese – ogni ulteriore passo avanti verso l’integrazione politica rischierà inevitabilmente di rappresentare la blindatura istituzionale, tendenzialmente autoritaria, di un assetto sociale ingiusto e insostenibile. Una citazione per finire: “Quest’area monetaria rischia oggi di configurarsi come un’area di bassa pressione e di deflazione, nella quale la stabilità del cambio viene perseguita a spese dello sviluppo dell’occupazione e del reddito. Infatti non sembra mutato l’obiettivo di fondo della politica economica tedesca: evitare il danno che potrebbe derivare alle esportazioni tedesche da ripetute rivalutazioni del solo marco, ma non accettare di promuovere uno sviluppo più rapido della domanda interna.” Sono parole tratte dal discorso parlamentare con il quale Luigi Spaventa motivò il voto contrario del PCI all’ipotesi di adesione dell’Italia allo SME. Era il 12 dicembre 1978. Il rischio che Spaventa lucidamente aveva individuato si è concretizzato: le sue parole, purtroppo, descrivono alla perfezione la situazione attuale dell’Europa.
È questa la catastrofe in cui già siamo e da cui dobbiamo uscire. Prima che sia troppo tardi. Vladimiro Giacchè |
Dopo il meeting dedicato ai giochi di prestigio, il meeting della ‘supercazzola’ monetaria: ormai Mario Draghi non sa più cosa inventare e, soprattutto, cosa raccontare agli analisti nel corso delle sue lunghe e noiose conferenze stampa post-board. Ieri abbiamo toccato l’acme dello strazio, con i giornalisti che insistevano cocciutamente nel chiedere maggiori dettagli sulle future manovre di “Quantitative Easing”, su quando cominceranno, su cosa si farà esattamente, e il Presidente che ripeteva il solito mantra: “Siamo pronti ad adottare misure straordinarie”, “Adotteremo tutte le misure necessarie quando ce ne sarà bisogno”, “Le aspettative d’inflazione rimangono ancorate (a che, non s’è capito)”, “Non c’è un reale rischio di deflazione”… Un copione già visto mille volte e riassumibile nella semplice formula: bla,bla,bla. E intanto le celebratissime manovre di espansione monetaria annunciate nell’ultima riunione hanno sortito l’effetto che temevo e che avevo preannunciato (in splendida solitudine, ahimè) su questo giornale: nessuno. Il cambio euro/dollaro è sempre sopra 1,35, l’inflazione è sempre ai minimi termini, la disoccupazione cresce, il trend del ciclo c’ha la stessa vitalità di un partito fondato da Mario Monti. Nulla di nuovo sotto il sole quindi? No. Qualcosa è successo. Il Consiglio Europeo del 26 e 27 giugno ha sfornato l’attesa nomina dell’ultra-conservatore Jean-Claude Juncker quale prossimo Presidente della Commissione Europea, nonostante la sfrenata protesta del Premier inglese Cameron (interessato, sia chiaro, solo a dimostrare che i meccanismi democratici in Europa non possono funzionare) e con l’apporto determinante del PSE e di Matteo Renzi. Dopo manco due giorni dalle promesse, ecco che Wolfgang Schauble, uno dei più fedeli compagni di merende della Merkel, ha sentito la necessità di sbugiardare il nostro Governo, profondendosi più volte in dichiarazioni sarcastiche e insultanti. Angela e Wolfgang come Totò e Nino Taranto quando intortavano il padrone di casa per non pagare l’affitto: la prima si traveste da procace inquilina pronta a qualsiasi compromesso, il secondo fingendo scandalo butta fuori di casa il malcapitato che ormai ha rinunciato a farsi pagare. Ma non finisce qui: un impiegato del Governo tedesco di nome Jens Weidmann (governatore della Banca Centrale tedesca), avvalendosi della nota indipendenza del banchiere centrale (non mi vota nessuno, non riferisco a nessuno, non dipendo da nessuno, dico quello che mi pare) si permette addirittura di rimbrottare apertamente il Premier italiano dopo aver rimbrottato quello francese appena una settimana fa. Insomma:
Il pacco è servito! Ora possono tornare a farsi vedere i soliti falchi e chiarire che in Europa non si muove foglia che la BundesBank non voglia. Beh, visto che ci hanno fregati che si fa? Mumble, mumble, mumble…allora: dichiarare guerra è démodé, chiudere le ambasciate puzzerebbe di spendig review, togliere la bottiglia a Juncker è una battaglia persa… Facciamo così: oltre che protestare, paghiamo un bel corso rapido di politica estera per Renzi e la Mogherini, dopodiché incrociamo le dita e speriamo di non fare più la figura dei gonzi.
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NEW YORK (WSI) - Nuova chiusura record per Wall Street con gli indici S & P 500 e il Dow Jones Industrial che hanno aggiornato i massimi storici. Ad alimentare gli acquisti, la pubblicazione di dati macroeconomici superiori alle previsioni sul fronte del manifatturiero americano e cinese. |
Inviato da: cassetta2
il 19/04/2023 alle 17:44
Inviato da: cassetta2
il 29/03/2020 alle 14:46
Inviato da: cassetta2
il 22/10/2019 alle 10:50
Inviato da: Lucky340
il 11/10/2019 alle 21:32
Inviato da: Lucky340
il 01/06/2018 alle 10:05