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Il teorema del pappagallo

Post n°53 pubblicato il 15 Giugno 2008 da mjago

“La matematica è quella scienza in cui non sappiamo mai di che cosa parliamo né se sia vero quello che diciamo.”
(Bertrand Russel)

“Sia data la serie per n che va da zero all’infinito (-1)n an, con an > 0 per ogni n appartenente ad N. Se la successione an è decrescente e se il limite per n che tende all’infinito è uguale a zero, allora la serie è convergente. Inoltre, le somme parziali di indice pari approssimano la somma per eccesso, quelle di indice dispari per difetto; il resto della serie è maggiorato, in valore assoluto, dal primo termine trascurato.”
(Analisi Matematica - Serie Numeriche - Teorema di Leibniz)

Dieci anni fa.

Quando sentii il mio cognome riecheggiare nell’aria dell’Aula C mi si gelò il sangue nelle vene. Eppure me lo aspettavo, toccava a me per forza, ero il quarto della mattinata. Era un mercoledì, mancava un quarto d’ora a mezzogiorno, secondo giorno degli orali dell’esame di Analisi Matematica, primo appello dopo la fine delle lezioni. Il mio cognome si trovava nella lista dei trentadue superstiti dello scritto di due settimane prima, una “mattanza” a cui ero miracolosamente sopravvissuto con un mediocre venti su trenta.
Mentre scendevo gli scalini che mi portavano verso la cattedra, gli occhi dei colleghi che affollavano l’aula li sentivo tutti addosso me, avanzavo come una sorta di “vittima sacrificale” verso l’altare il cui “sacerdote” aveva le sembianze astratte del professore del corso più odiato in assoluto da ogni studente della mia facoltà. Lui mi aspettava lì, in piedi, con la sua barba nera seppia e gli occhi piccoli dietro le lenti spesse da miope senza speranza. Un aria di mistero aleggiava su quell’uomo sulla cinquantina che si preparava ad interrogarmi. Durante l’anno accademico avevo seguito tutte le lezioni del suo corso. Arrivava sempre puntualissimo, vestito sempre allo stesso modo, sempre con colori scuri. Cancellava la lavagna con una sua cimosa che si portava dall’ufficio insieme a dei suoi gessetti. Non portava con se nient’altro. Nessun libro, nessun appunto, aveva tutto nella sua testa. Mai una esitazione, un tentennamento o un dubbio. Con la sua calligrafia precisa riempiva le lavagne con chilometri di formule e dimostrazioni. Finita la lezione, cancellava tutto, salutava e se ne andava. Nessun tipo di comunicazione, nessun accenno di dialogo. Noi studenti sembravamo essere nient’altro che un elemento dell’arredamento dell’aula.
Ogni esame rispettava un protocollo, anzi meglio, un cerimoniale di sapore quasi religioso. I due assistenti arrivavano dieci minuti prima dell’orario prefissato, facevano l’appello e si posizionavano davanti alla cattedra, spalle agli studenti. Il professore compariva sempre puntualissimo all’ora prevista per l’inizio dell’esame. Come al solito, senza niente in mano. Si disponeva, su un lato della cattedra in modo da avere davanti a sé la porta dell’aula. Nulla era lasciato all’improvvisazione, tutto era pianificato e preparato.
Gli esami orali alla lavagna erano terribili. Ti sentivi solo e indifeso. Ed era proprio così il mio stato d’animo, quella mattina, nel giorno del mio primo esame universitario, stretto nella mia polo nera accompagnata da un paio di banali jeans blu, in piedi vicino alla lavagna con il cuore che mi batteva forte forte come un picchio che scava la sua tana nell’albero.
Il professore chiuse gli occhi, passeggiò verso l’uscita con le mani dietro la schiena, tornò indietro, si rimise al suo posto e guardando davanti a se, senza nemmeno pensare alla mia esistenza, come ispirato da una visione divina, esordì:

- Dall’analisi del suo compito ho notato che ha avuto qualche difficoltà nella risoluzione del quesito sulle Serie Numeriche;
- Si
- Vorrei iniziare proprio da questo. Mi enunci e mi dimostri il Teorema di Leibinz per la convergenza delle Serie Numeriche.


Oggi non saprei dire a cosa serva il Teorema di Leibniz. Ricordo perfettamente a memoria invece il suo enunciato, come un pappagallo che ripete una frase senza senso. Questo teorema è marchiato a ferro e fuoco nella mia mente, come se fosse il ricordo nefasto di qualche trauma infantile.
Iniziando la dimostrazione non spezzai il gesso, e scrivendo provocai quel tipico e fastidiosissimo stridio della bacchetta sulla lavagna. Il professore, per la prima volta da quando lo conoscevo, mi guardò in faccia e pronunciò una frase che aveva il retrogusto di una battuta:

- Credo che per il suo benessere uditivo , per il mio, per quello dei miei assistenti, e per quello dei suoi colleghi sia il caso di spezzare la barretta di gesso.

La platea alle mie spalle, da bravo “gregge”, si lascio andare ad una risata, che sembrò proprio una sorta di anonimo “belato”. Io abbozzai:

- Si professore, credo che convenga fare così.

Per un ora e mezzo, seguendo il suo stile, andò alla ricerca di un argomento che non conoscessi. Era la sua tattica. Quando lo trovava , si fermava lì e iniziava ad andare a fondo. Quando ti vedeva in difficoltà non aveva nessuna pietà. Quella stessa mattina era rimasto per dieci, dico dieci minuti di orologio immobile in attesa di una risposta da parte di una mia collega. Era evidente che lei non sapesse rispondere, ma lui sadico non l’aveva aiutata e con un laconico “si accomodi” l’aveva congedata invitandola a ripresentarsi all’appello di Settembre. Esercizi, teoremi, corollari, proposizioni, in un modo o nell’altro, arrampicandomi sugli specchi, tergiversando qua e là risposi a tutte le sue domande. Alla fine, si arrese:

“Si accomodi”

Così finì l’esame. Distrutto, sudato, ricoperto di gesso come se mi dovessi preparare ad una prova di ginnastica artistica agli anelli, appoggiai il gesso e la cimosa e, provato ma soddisfatto, mi sedetti in prima fila.
La solita pantomima, gli assistenti che si avvicinarono al professore, conciliabolo farsesco, visto che a decidere non poteva che essere sempre lui. Dopo pochi minuti, quella mattina, per la seconda volta sentii il mio cognome riecheggiare nell’aula, come il sibilo di una frustata. Venivo invitato ad alzarmi:

- Questa commissione ha deciso di valutare il suo esame orale, con la votazione di trenta trentesimi. Considerati i venti trentesimi riportati nella prova scritta, mediando , avremo una votazione finale di venticinque trentesimi.
Tuttavia, vista la brillante prova orale, le proponiamo un voto finale di ventisette trentesimi. Accetta?
- Dove devo firmare?

 
 
 
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