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Post n°72 pubblicato il 21 Gennaio 2010 da hyakynthys
 

Platone Teeteto
18
(42) non siamo schiavi dei discorsi, ma sono i discorsi a essere come servi nostri e ciascuno di essi attende di essere
concluso quando paia a noi.
Del resto non c'è giudice o spettatore a sovrintendere presso di noi, come presso i poeti, a muovere critiche e a darci
ordini.
SOCRATE: Parliamo dunque, come è naturale, poiché a te così piace, dei corifei: per qual motivo infatti uno
dovrebbe parlare di quelli che con ogni leggerezza si occupano della filosofia. Quelli invece che sono veramente filosofi
anzitutto fino da giovani non conoscono la strada per la piazza, né dove si trova il tribunale, la sede del consiglio, né di
alcun altro consesso della città. Non studiano nè ascoltano leggi o provvedimenti divulgati oralmente o scritti.
Intrallazzi di associazioni per le cariche pubbliche, riunioni, pranzi e feste con le auletridi non avviene loro di fare
neppure in sogno. Se uno in città ha origini nobili o meno, se uno ha qualche ombra come nascita da parte dei
progenitori, sia del padre come della madre, sono cose che a lui, filosofo, sfuggono di più di quelli che siano i bicchieri
d'acqua che, si dice, si trovano nel mare. E non sa nemmeno di non saperle tutte queste cose. E non si tiene neppure
lontano da esse per ottenere buona fama: soltanto il suo corpo abita nella città e qui ha la sua residenza, ma la sua
anima, considerando tutte queste cose meschine e da nulla e considerandole con disprezzo, si lascia portare, secondo il
detto di Pindaro,(43) ovunque, fino «nelle profondità della terra» e ne misura le superfici: ora invece «in alto nel cielo»,
a scoprire le leggi del firmamento, e indaga per intero tutta la natura degli esseri, ciascuno nella sua interezza, senza mai
ripiegare se stessa su alcuna delle cose vicine.
TEODORO: Come mai dici questo, Socrate?
SOCRATE: Come anche di Talete si racconta, o Teodoro, che mentre mirava gli astri e guardava in su, cadde nel
pozzo: e una servetta di Tracia, piuttosto in gamba e carina, prendendolo in giro gli disse che lui desiderava conoscere i
fenomeni celesti, ma si lasciava sfuggire quelli che aveva davanti a sé e sotto ai suoi piedi.
Questo motteggio è ben appropriato a tutti coloro che si occupano di filosofia. In realtà a chi è tale non solo sfugge
chi è presso di lui, e cosa fa il vicino, ma quasi è incerto se è un uomo o qualche altra creatura. Ma cosa mai è l'uomo e
cosa a una tal natura conviene fare o subire, a differenza degli altri esseri, egli ricerca e di tale attività si occupa. Mi
segui, ora, Teodoro, o no?
TEODORO: Io sì e tu dici bene.
SOCRATE: Dunque, amico mio, quando un simile individuo, in privato o in pubblico, come dicevamo all'inizio, si
imbatte in qualcuno, e quando in tribunale o altrove è costretto a parlare di quello che ha tra i piedi o sotto gli occhi,
offre materia di riso non solo alle donne di Tracia e a tutta la restante moltitudine, ma cade nel pozzo e in ogni sorta di
difficoltà per inesperienza, perché la sua balordaggine è inusitata e offre l'immagine di ogni inettitudine. Infatti nelle
ingiurie, poiché non conosce nessuna macchia di nessuno, per il fatto che non se n'è mai occupato, non ha alcuna
capacità di ingiuriare direttamente nessuno, e trovandosi così incerto, diviene ridicolo. Ma durante le lodi ed esaltazioni
attribuite ad altri, non per simulazione, ma facendosi vedere ridere schiettamente, sembra essere un motteggiatore. E
quando viene elogiato un tiranno o un re come un pastore, egli ritiene di udire che costui venga lodato perché come
allevatore di porci, o di pecore o di mucche, munge molto latte: egli pensa però che essi mungano e pascolino un
animale più difficile a trattarsi e più pericoloso di quelli e che è necessario che questo tale diventi rozzo e incolto per
tutti i suoi traffici non meno dei pastori, proteggendosi tutto intorno da un muro, come da un recinto i pastori in
montagna. E quando sente dire che uno è proprietario di una quantità immensa di terra, perché ne possiede diecimila
peltri (44) e anche di più, crede di sentir parlare di una inezia, abituato com'è a considerare tutta la terra. E quando
compongono inni sulle stirpi sostenendo che uno è nobile perché può mostrare sette antenati ricchi, egli ritiene che
questo elogio è proprio di coloro che vedono poco e ottusamente, e che per la loro ignoranza non sono in grado di
abbracciare con lo sguardo il tutto, né di considerare che ciascuno di avi e di progenitori ne ha un numero sterminato,
nel quale si trovano i ricchi e i poveri, i re e gli schiavi, i Greci e i barbari, e ciascuno può averne ripetutamente un
infinità. Ma per quelli che si esaltano per un catalogo di venticinque antenati e che riportano la loro ascendenza a Eracle
figlio di Anfitrione (45) tutto questo a lui appare alquanto strano e di grande piccineria, e se la ride di costoro che non
riescono a comprendere che il venticinquesimo rampollo da Anfitrione in su e quello dei cinquanta di quelli venuti da
lui furono tali e quali la sorte li combinò, e così non sono neanche in grado di allontanare la vuota alterigia della loro
anima dissennata. In tutte queste situazioni dunque un uomo come questo viene deriso dai più, sia perché, come sembra,
ha un atteggiamento insolente, sia perché ignora quel che ha tra i piedi e perde la bussola in ogni circostanza.
TEODORO: Tu dici proprio quel che avviene, o Socrate.
SOCRATE: Ma quando lo stesso ha la capacità di elevare in alto qualcuno, e questo qualcuno vuole, per tenergli
dietro, portarsi lontano da problemi come «in che cosa io ho fatto ingiustizia a te e tu a me?», per volgersi invece alla
considerazione della giustizia in sé e dell'ingiustizia, che cosa è peculiare dell'una e dell'altra, e in che cosa differiscono
da tutte le cose e fra di loro, o si tiene lontano da problemi quale «se il re è felice» e se lo è «chi ha accumulato molto
oro», per volgersi a considerare la condizione regale e più in generale la felicità e l'infelicità umana, quali mai sono
l'una e l'altra, e in che modo giova alla natura dell'uomo avere parte dell'una e tenersi lontano dall'altra, quando su tutte
queste questioni debba a sua volta dar conto quello che abbiamo definito piccolo d'animo, scaltro e cavilloso, a sua
volta rende al filosofo il controcanto. Perché, appeso dall'alto e in preda alle vertigini, e guardando così sospeso dall'alto
in giù, per mancanza di abitudine è spaventato e si trova in difficoltà e incespica nel parlare e offre materia di riso non
alle Tracie, nè a un altro qualunque ignorante, che non si rendon neppure conto, ma a tutti coloro che sono cresciuti in
condizione diversa da quella degli schiavi. Questo, Teodoro, è il tenore di vita dell'uno e dell'altro, l'uno, quello che
chiami filosofo, per essere in realtà stato tirato su nella libertà e nell'ozio può dare l'apparenza di essere senza vergogna,

 
 
 
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