your only man
when things go wrong and will not come right,/though you do the best you can,/when life looks black as the hour of the night -/a pint of plain is your only man
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Post n°48 pubblicato il 01 Agosto 2006 da asrwolf
L’ultima partita della Nazionale che avevo guardato insieme a mio padre era un’Italia Olanda semifinale dei mondiali in Argentina, anno 1978. Ho ancora impresso il suo sguardo impassibile, i suoi commenti decisi, lo scuotere della testa a ogni azione promettente che finiva in un nulla di fatto. Alla fine del primo tempo feci dei segnali positivi a un mio amico che abitava di fronte al nostro balcone; anche mio padre, a quel punto, mostrava segnali di ottimismo. Stasera l’ho visto stanco dal nostro viaggio, e come per altro si lamenta che nulla è più come prima – tutto è finito, sembrano non avere un ordine, corrono corrono e poi si danno troppe botte. Se prima proprio non sopportavo i suoi commenti al calcio, goffi, fatti da uno che realmente non se ne è mai appassionato, che lo usava come timido tramite di relazione con un figlio con cui proprio non gli riusciva di parlare, ora quanto meno li capisco. La sua mente economa non concepisce il motivo per cui non sia possibile prendere un pallone, passarselo tra compagni di squadra, possibilmente in verticale e, in poche mosse, andare in rete senza troppi patemi. Allo stesso modo non ha mai apprezzato il mio gioco, fatto di geometrie e preziosismi, talvolta leziosi, molto spessi ininfluenti ai fini del risultato finale, un calcio fatto di estetica, tempi morti e accelerazioni improvvise. Non ha mai capito quanto di prezioso e gioioso ci sia nel mio essere superfluo, e, ora capisco, forse lo invidia un po’. Nel vedere gli azzurri muoversi sul terreno di gioco sembra non voler considerare che le azioni, per quanto lineari e ben congegnate, possono venire interrotte da una grande molteplicità di fattori: il caso, ad esempio, che ti fa colpire male un pallone, oppure un rimbalzo anomalo del pallone, o anche, più frequente, l’errore umano puro e semplice. E poi ci sono gli avversari, che sono undici anche loro e che, va ammesso anche se non è facile, a volte sono più forti. Ci sono i pali e i rigori non dati, i fuorigioco e le questioni di centimetri, tutte cose di cui mio padre sembra non tenere conto quando, braccia conserte, gambe accavallate, come 28 anni fa, scuote la testa, chiedendomi come mai non riusciamo a segnare. Ha lo sguardo stanco e la testa leggermente ricurva in avanti, sembra aver dimenticato che, in questi 28 anni, abbiamo vinto un titolo mondiale, disputato una finale e siamo arrivati nelle prime quattro due volte. Sembra cercare ancora i dribbling del barone Causio e i contrasti maschi di Romeo Benetti, così come cerca quel ragazzo di 11 anni per dargli i suoi consigli, spiegargli come gira il mondo, preoccuparsi e arrabbiarsi, proprio come fanno tutti i padri del mondo quando non sono davanti a un televisore per guardare una partita, sia finale che amichevole, della loro nazionale.
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