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Post n°157 pubblicato il 30 Dicembre 2012 da carlopicone1960
 
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Per soddisfare la sua ostinazione “a voler esercitare una delle professioni più disgraziate del mondo moderno: il giornalista”, Marika Borrelli, stavolta, ha pubblicato un e-book, dal titolo “Il peggio deve ancora venire”. 37 e-pagine scritte “come una sorta di flusso di coscienza (vi ricordate lo stream of consciousness di James Joyce?”, si legge nelle righe iniziali del testo, precisamente in “Niente prefazione”, con cui si apre la lettura. La poliedrica scrittrice esperta di social network già nelle note d’avvio chiarisce il senso della sua particolare operazione letteraria: mettere insieme alcune riflessioni “pensando agli errori (a volte orrori) e ai vantaggi (pochi ancora) del giornalismo attuale”. Senza sottrarsi, nella spiegazione di “questo piccolo ed informale saggio”, ad alcune considerazioni autocritiche, inserendole nelle avvertenze per il lettore, già nelle pagine introduttive. Si tratta, infatti, di uno scritto che, com’è nello stile della Borrelli, blogger affermata, autrice insieme alla “socia” Januaria Piromallo di una rubrica fissa su “Il Fattoquotidiano.it”, oltre che del libro in formato cartaceo “Come pesci nella rete. Trappole, tentacoli e tentazioni del web”, dato alle stampe da Armando editore, qualche tempo fa, si occupa in maniera mai seriosa delle nuove tendenze dei mass media odierni, nella fattispecie di quelle presenti nel mondo dei social media. Sulla scorta della precedente pubblicazione prodotta a quattro mani con la giornalista glamour, “bella e d’annata”, Januaria Piromallo. E appena si comincia a leggere il suo e-book, si incontrano le indicazioni su quali siano le traiettorie da percorrere ed al contempo vengono espressi dall’autrice dei giudizi solitamente riservati ai lettori oppure ai critici, dentro assennate postfazioni. Borrelli anticipa che, man mano si andrà avanti nella lettura, si scoprirà chi sia e di cosa si occupa nella vita, in quanto la caratteristica che più salta agli occhi è il suo uso della prima persona, “come Joel Stein, un opinionista del Time”, riconosce Borrelli: “… un mio idolo che scrive dei fatti suoi intrecciandoli con le cose del mondo” e “scrive dei fatti del mondo intrecciandoli con abbondanti fatti suoi”. Subito dopo, rivolgendosi a tutti quelli che non sopportano il linguaggio esterofilo, avverte che usa “con molta disinvoltura numerosi termini stranieri”, prima di giungere a valutare preventivamente la propria scrittura: “stile: libero, disimpegnato, a volte ironico”. Uno stile volutamente colloquiale, perché si addicesse il più possibile ad un e-book. Che “non è un romanzo erotico-passionale”, com’è il trend della letteratura femminile del momento. Social media, questioni di genere e tematiche socio-occupazionali, comunicazione giornalistica e informazione in genere, invece, sono gli argomenti in esso contenuti, confezionando un “libricino” che narra le “gimkane” che la scrittrice compie “per poter rimanere una giornalista, anche perché il peggio deve ancora venire”.

Mentre sulla testa dei giornalisti si agitano tutti assieme i blog, i podcast, i tweet e le dirette in streaming, il punto di partenza delle riflessioni presenti nel testo è che una sola cosa è certa, il vecchio modello di media basato sulla stampa è mortalmente ferito”. La rivoluzione digitale degli ultimi anni ha complessivamente trasformato il modo di relazionarsi dei giornalisti con la propria professione, tuttavia, Borrelli si dice ottimista: “Per quanto il sistema tradizionale dei media stia cedendo sotto i colpi di maglio del digitale, le università continuano a sfornare ottimi e promettenti giornalisti. Sono il futuro. Sono brillanti, instancabili e aperti ad ogni possibilità che la nuova era ci aprirà. È un piacere averli come colleghi. Nello stesso momento, nel pianeta Fitba [slang scozzese per pallone, calcio. Noi proviamo a tradurlo con Pianeta Papalla. Fa figo. NdA] è in atto una guerriglia di auto reporter che cresce in qualità e affidabilità”, concludendo comunque che “il giornalismo professionista sopravviverà. Deve sopravvivere per il bene di tutti”. Ma sinceramente, inoltrandosi nella rapida lettura delle e-pagine de “Il peggio deve ancora venire”, buona parte di queste certezze si perde. Piuttosto, la nuova massa di nativi digitali che si cimenta con l’informazione segue criteri inediti, non ha mai letto un giornale in versione cartacea, smanetta di continuo con pc, tablet e smartphone (questo soprattutto). Ed i giornalisti di lungo corso sono sempre più in difficoltà nel tentativo di adeguarsi ai tempi che cambiano e ad i nuovissimi linguaggi che attraversano il panorama generale della comunicazione.

“In questa fase di transizione – scrive Borrelli a proposito del ‘peggio’ -, l’aspetto (non la modalità) analogico resiste anche nel formato digitale. Si chiama skeuomorfismo. La Apple è maestra in questo aspetto iconografico e scenografico, anche se sta diventando fuori moda, per tanto l’azienda di Cupertino sta cambiando policy. La maggior parte delle testate on line ha adottato un aspetto simil-cartaceo (spalla, lancio, fondo… basta vedere com’è organizzato il sito de La Repubblica) ma a contenuti ridotti: chi vuole tutto, paghi. È il pay-wall, un muro, cioè, oltre il quale avanzi solo se inserisci il numero della carta di credito, ma di ciò parleremo più avanti.

Da una parte, lo skeuomorfismo è funzionale per chi è già abituato alla lettura giornaliera di un quotidiano, ma dall’altra non attira i giovani e giovanissimi, abituati ad una diversa organizzazione della conoscenza, non gerarchizzata né sequenziale, bensì reticolare, ovvero intertwingled (neologismo strano, che più o meno significa ‘cognitivamente interconnesso’)”. E di seguito: “Le testate on line, come ho pure letto da qualche parte, nascono anche con una precisa missione: non dare fastidio a quelle cartacee e semmai invogliare la gente a comprare i quotidiani in edicola, oltre a raccogliere tutti i click degli articoli (per lo più riciclati dalla carta stampata di giorni prima), per fare cassa. Magari utilizzando più articoli ‘piccanti’, più foto ‘attraenti’. Á la guerre comme à la guerre. Per come sono organizzati i giornali tradizionali, i proventi principali arrivano principalmente dalla vendita del cartaceo (oltre al merchandising vario ed eventuale. A cominciare dai dvd de L’Unità. Vi ricordate?)”.

Nel capitolo “Non ti pago”, poi, l’autrice affonda il coltello in una questione annosa. “Fare il giornalista è un sogno per molti. Lo è stato anche per me. Io sono una giornalista, con tanto di tesserino dell’Ordine. L’ho rincorso per anni. Essere giornalista, però, non mi porta pane, nel senso che non è con questo mestiere che mi procuro da vivere. Scrivo molto: articoli, post e libri per passione, solo per passione. Il mercato del lavoro, anche per quanto riguarda le redazioni, è così stravolto che ancora non ho capito bene se non sono organica ad una redazione perché non sono brava; perché lo sono troppo e non possono pagarmi adeguatamente; perché sono diventata troppo agèe per entrare in una redazione (della serie: se non sono ventenni e stagisti gratis non li vogliamo); perché le grandi redazioni non si trovano dalle mie parti, o perché di giornalisti ce ne sono troppi”. E qui la scrittura da saggistica passa ad essere narrativa, secondo l’alternanza ampiamente praticata del “parlare in prima persona” dei fatti suoi e delle cose del mondo, già esaminata prima. L’elemento di maggiore criticità di un’opera che, seppur nella sua brevità, finisce spesso nel tracimare nel racconto personale. Aspetto meno gradevole per quanti si avvicinano a “Il peggio deve ancora venire” come ad un lavoro di studio ed analisi sull’attuale realtà editoriale nell’epoca digitale. 

 

 
 
 
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