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Il no logo come teoria per la vita quotidiana

Post n°2 pubblicato il 08 Aprile 2008 da progettoaffari
 

Ciò che spesso è marca, multinazionale o business esasperato, nella maggior parte dei casi occulta il sinonimo di profitto senza alcuna remora, per tempi, luoghi e modalità di sviluppo dello stesso.
Le multinazionali crescono producendo ricchezza per pochi e orrore e distruzione per i più.
Partendo dalla teoria di una nota scrittrice americana, che a lungo ha indagato e si è mossa nei luoghi devastati da questo genere di sviluppo economico, proponiamo una riflessione interessante

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progettoaffari
progettoaffari il 08/04/08 alle 18:08 via WEB
Contrastare i grandi marchi Per Naomi Klein il capitalismo contemporaneo è l'era del marchio. I logo sono dovunque, invadono gli spazi, diventano come lo swoosh, il famoso baffo della Nike, simbolo di uno stile, di una filosofia. Viviamo in un mondo dove gusto e valori sono definiti dalle mega-firme. Non si vende più un prodotto, ma un'emozione. Allora perché alcuni dei più celebrati marchi (da McDonald's a Shell, da Microsoft a Gap) vengono oltraggiati e coperti dallo spray? La saturazione genera rifiuto, il sistema dei consumi produce anticorpi. Negli anni 90, il movimento "popolo di Seattle", inizia un'informazione critica sulle scelte economiche delle multinazionali. Klein, per prima, lo spiega con chiarezza: quante più persone conosceranno i segreti della rete mondiale dei marchi e dei loghi, tanto più la loro indignazione alimenterà il movimento che oggi si ritrova sotto la bandiera "no global". Dire no allo sfruttamento femminile Il femminismo è una delle basi teoriche di Naomi Klein (per questo piace a Gloria Steneim, autrice di un famoso saggio sull'autostima). Le sue pagine più intense raccontano proprio la forza lavoro: donne sottopagate nelle zone franche di Rosario, in Argentina, e Cavite nelle Filippine. Donne senza diritti, al centro del massimo sfruttamento. Qui, l'illusione dei benefici derivanti dall'investimento straniero nei Paesi in via di sviluppo, è fatta a pezzi dalla realtà delle vite sprecate in fabbriche-prigioni. Nel destino di queste donne Naomi Klein legge una miseria che, prima di essere materiale, è simbolica: il sistema che le usa, le costringe a desiderare il paradiso artificiale delle merci. Combattere il liberismo economico Nei sobborghi di Buenos Aires, 30 disoccupati entrano nella loro azienda chiusa e rifiutano di andarsene. Vogliono riavviare le macchine. Armati solo di fionde e di un'utopia, quella della democrazia operaia, combattono un sistema che vede la loro fabbrica come un pezzo di metallo da svendere. Con il documentario The Take (La Presa) e il successivo saggio sul capitalismo, Naomi Klein indica il problema dell'Occidente: la privatizzazione di ogni aspetto della vita, la creazione di un mondo semi-orwelliano dove lo shopping è l'unico mezzo di espressione, in cui il massimo del dissenso è il "consumo critico". Siamo ancora lontani dall'economia "etica" teorizzata dal Nobel Amartya Sen, l'economista indiano che, con Klein, ha in comune l'idea sulla disuguaglianza, misurata non solo dal reddito, ma anche dalle possibilità offerte all'individuo.
 
progettoaffari
progettoaffari il 08/04/08 alle 18:39 via WEB
Il nuovo libro, shock economy, dell’autrice Naomi Klein, apre la narrazione, con l’analisi degli esperimenti di shockterapia condotti da psichiatri nordamericani, tra gli anni ’40 e ’50, per curare le malattie mentali. L’idea di fondo, che suscitò fin da subito l’interesse della C.I.A che finanziò con lauti contributi sperimentatori come Cameron, era che attraverso la deprivazione sensoriale, la somministrazione continuata di elettroshock, unita all’uso massiccio di droghe psicoattive quali Lsd, potessero portare la mete umana a tali livelli di regressione da apparire alla fine del trattamento come una tela bianca su cui riscrivere la personalità, o per dirla con le parole di Mao, “una tela bianca su cui riscrivere parole meravigliose”. Da questi esperimenti, nacque un libro, il Kubark, (pare che la parola bark fosse l’acronimo con cui la C.I.A si riferiva a se stessa nelle operazioni top secret), un manuale per il trattamento dei detenuti, con le disposizioni per condurre interrogatori coercitivi (tortura, il termine più appropriato!), che si preoccupa fin dalle prime pagine di sottolineare il fatto che quanto descritto in esso viola qualsiasi trattato sui diritti umani, ma che (va detto) è stato completamente riabilitato dall’amministrazione americana nel periodo successivo all’11settembre per trattare i sospettati di terrorismo. Alla luce di ciò, pare difficile identificare gli agguzzini di AbuGrahib come sadici militari che sono usciti dal seminario, e non come esecutori di un piano costruito ad hoc e che segue la logica di indurre i prigionieri in uno stato di assoluto disorientamento e shock, allo scopo di obbligarli a fare concessioni contro la loro volontà. La logica di fondo, resa esplicita nel manuale della C.I.A descretato nei tardi anni Novanta, è che per piegare le “fonti che oppongono resistenza” bisogna creare rotture violente tra i prigionieri e la loro capacità di dare senso alla realtà che li circonda. Ciò può avvenire eliminando ogni input sensoriale(con cappucci in testa, manette, isolamento totale), poi bombardando il corpo con stimoli esterni(luci stroboscopiche, musica ad alto volume, percosse, elettroshock).E’ in questo stato di shock che i detenuti sono così spaventati da non pensare più razionalmente né a proteggere i propri interessi dando a chi li interroga tutto ciò che questi desidera: informazioni, confessioni, abiura di convinzioni preesistenti. Una guerra, un cataclisma naturale, un attacco terroristico, possono agire sul corpo sociale con gli stessi effetti che ha la tortura su quello individuale, possono indurre in un’intera popolazione uno stato di smarrimento tale da rendere impensabile in simili situazioni la pratica del raziocinio, sono i momenti in cui intere nazioni si affidano completamente ad un leader affinché li protegga e decida per loro le politiche adatte per uscire dalla crisi (l’esempio più eclatante è l’America post 11settembre, talmente shockata dagli eventi da permettere a Bush di ristabilire la legge marziale nel proprio paese). Uno dei primi a comprendere le vere potenzialità delle situazioni di crisi, fu Milton Friedman, nobel per l’economia nel 1972. Egli, in netta opposizione al modello Keynesiano e alle politiche sociali del New Deal, enunciò in Capitalismo e Libertà, le nuove regole del liberismo globale, che possono essere sintetizzate nei seguenti punti: Diminuzione della pressione fiscale, e tassazione di poveri e ricchi in percentuali uguali. Possibilità, da parte delle aziende, di poter vendere in tutto il mondo senza doversi imbattere nelle restrizioni messe in atto dai governi per proteggere le economie locali. Tutti i prezzi, compreso il prezzo del lavoro, devono essere fissati dal mercato. Non deve esserci salario minimo. Friedman propose di privatizzare la sanità, l’istruzione, le pensioni e persino i parchi nazionali. Queste idee partivano dalla considerazione che il mercato se lasciato libero è un sistema che si autoregola, in grado da solo di trovare il giusto equilibrio tra la domanda e l’offerta, e che le problematiche emerse con lo sviluppo del capitalismo non sono, come ad esempio diceva Marx, connaturate al capitalismo stesso, bensì frutto delle continue interferenze statali, delle politiche di welfare e di prevvidenza sociale, in sintesi egli propose di eliminare tutte quelle forme di tutela che i lavoratori erano faticosamente riusciti ad ottenere, tutti quei servizi che lo Stato forniva per smussare le asperità del mercato. Senz’ombra di dubbio, simili proposte non possono che essere tacciate di impopolarità, e salvo quella piccola fetta di grandi imprenditori che possono trarre profitto dall’acquisizione delle imprese statali, l’attuazione di questo piano economico verrebbe senza dubbio accolta con grandi manifestazioni di dissenso. E’ su tali considerazioni che la teoria dello shock and Awe trova senso, infatti Friedman capì fin da subito (e non lesinò consigli in tal senso a criminali quali Pinochet) che il sistema migliore per promuovere una svolta liberista nelle economie avviate sulla strada dello sviluppo keynesiano, fosse quello di approfittare delle situazioni di crisi, golpe, dittature militari sanguinarie come quelle della junta argentina o del generale Pinochet, che terrorizzassero a tal punto la popolazione da renderla incapace di promuovere qualsivoglia tipo di rivendicazione sociale e politica. A rincarare la dose di shock la deregolamentazione dell’economia che produceva svaluta fiscale e disoccupazione creò sacche talmente estese di povertà da permettere a pochi imprenditori di rientrare in una bolla di acquisizione del capitale tale da eliminare la classe media,e dividere le società in due poli l’uno fatto di super ricchi (come gli oligarchi in Russia) e l’altro di fame e miseria. In tal senso và ricordato come la commissione per i diritti umani,che ebbe il compito di giudicare i crimini commessi dalle dittature militari del cono del sud, (campi di tortura, la straziante storia dei desaparecidos e delle madri di plaza de Mayo), descrisse sempre tragedie a se stanti, perpetrate a scapito di dissidenti politici, senza mai farle rientrare in una logica di shock and Awe che permise ai governi stessi di promuovere politiche di capitalismo puro approfittando dello sgomento generale (cosa che invece fece Rodolfo Walsh che per questo fu costretto a vivere in uno stato di latitanza fino al giorno del suo assassinio); che sia stato un errore dovuto all’ingenuità o meno, va detto che l’organizzazione stessa venne sostenuta con i finanziamenti della Ford foundation, che ora è un organo a se stante ma che al tempo era legata intrinsecamente alla Ford motors, la stessa che trasse profitto e che fu parte attiva nella politica di terrore portata avanti dalla junta argentina, e che probabilmente ebbe tutto l’interesse ad insabbiare la questione. Se però è vero che la dottrina della scuola di Chicago venne imposta in America Latina e in Indonesia grazie all’autoritarismo dittatoriale è anche vero che in paesi come la Polonia di Solidarnosc e il Sudafrica dell’Anc hanno visto una svolta liberista della loro economia a dispetto delle prerogative stesse dei movimenti (divenuti poi partiti politici) che hanno fatto del socialismo e delle politiche di redistribuzione delle ricchezze e di equità sociale i manifesti delle loro lotte per la libertà. Il ruolo della Banca mondiale e del Fmi, in queste paradossali situazioni è stato però determinante, la possibilità di dare aiuti ai paesi richiedenti infatti, pose questi due organi nella posizione di poter dettare le leggi del mercato, in una sorta di rapporto clientelare gli stati che a caro prezzo ottennero le libertà civili si ritrovarono a dover fare i conti con le politiche economiche imposte da Washington, che rispondendo con svalutazioni monetarie e blocco dei sovvenzionamenti ad ogni rivendicazione da parte dei movimenti neoeletti, spinse gli stessi ad adottare la strategia del libero mercato portato avanti dagli adepti della scuola di Chicago, aprendo i mercati a compratori stranieri e svendendo di fatto le aziende statali, rendendo quel sogno di libertà, di una terza via democratica esterna alla logica del capitalismo e del comunismo autoritario mera utopia, una Carta delle Libertà senza alcun valore. Dagli attacchi al world trade center in cui il down jhones perse 684punti ad oggi l’economia mondiale sembra aver cambiato totalmente fisionomia, invece di produrre inflazione le situazioni di crisi sembrano giovare ai mercati, si registrarono così impennate record il giorno degli attentati alla metropolitana di Londra, e così fu anche il giorno in cui vennero arrestati dei presunti appartenenti alla rete di Alquaeda in Europa, il fatto è che nel frattempo si è creata una vera e propria economia della sicurezza, che trae profitto dal mantenimento del terrore, la sicurezza interna degli Stati Uniti oggi è gestita quasi interamente da ditte private, così come la guerra in Iraq ha permesso a società di arricchirsi con la ricostruzione e con i servizi di ordine pubblico, il tutto si inserisce perfettamente nella politica di alleggerimento promossa da Bush (e dall’ex primo ministro della Difesa Rumsfield per quanto riguarda l’esercito) che vede il governo non come un esecutore bensì come un appaltatore delle prprie funzioni al settore privato, visto come più efficiente e complessivamente superiore, dimenticando quanto gli interessi economici possono influenzare profondamente le azioni di ditte che devono rendere conto dei voleri di chi le finanzia, e non degli interessi nazionali. Il metodo privilegiato per imporre gli obiettivi della grandi imprese oggi è quello di approfittare di momenti di trauma collettivo per dedicarsi a misure radicali di ingegneria sociale ed economica. Ciò pare evidente nella SriLanka post tsunami, dove gli investitori stranieri e i prestatori internazionali si unirono allo scopo di sfruttare l’atmosfera di panico per consegnare l’intero litorale a imprenditori che vi costruirono villaggi turistici, impedendo a migliaia di pescatori di ricostruirsi le case, o nella pletora di politici conservatori, think tanks e imprenditori edili che iniziarono a parlare di tabula rasa e opportunità a seguito della distruzione di NewOrleans ad opera dell’uragano Katrina. I fautori del capitalismo dei disastri non hanno interesse a restaurare ciò che era prima. In Iraq, nello Sri Lanka e a New Orleans, la “ricostruzione” iniziò portando a termine il lavoro svolto dal disastro,spazando via ciò che rimaneva della sfera pubblica, per rimpiazzarlo in tutta fretta con una nuova Gerusalemme aziendale:il tutto prima che le vittime del disastro naturale fossero in grado di coalizzarsi e reclamare ciò che spettava loro di diritto. E’ questa la vera storia dell’ascesa del libero mercato, che non nacque, come spesso si vuol far credere, nella libertà e nella democrazia, bensì nel terrore, nella capacità di pochi uomini potenti di sfruttare gli stati di shock di intere nazioni. La terza via, quella dell’economia ibrida, fatta sì di libero mercato, ma anche di economie gestite e sostenute dallo stato, il modello keynesiano, che ha permesso la crescita dell’Europa post bellica incentivando l’attuazione del piano Marshall, lo stesso modello che intrapresero gli stati del cono del sud prima dell’interferenza Americana e delle think tanks della scuola di Chicago, pare essere la via migliore ed auspicabile per il miglioramento delle condizioni di vita di stati pesantemente colpiti dal debito e da anni di sfruttamento perpetrato dalle multinazionali con il benestare degli Stati Uniti d’America. Segnali positivi arrivano dall’America Latina, da quei paesi che portano ancora sulle spalle il fardello della sperimentazione del capitalismo puro, e che cercano di risollevarsi con dignità, promuovendo un sistema alternativo a quello dei sovvenzionamenti del Fmi, e una politica di sostegno reciproco resa possibile dalla consapevolezza di condividere una coscienza storica comune, la stessa identità di sfruttati, per porre la parola MAI PIù (nunca mas!!)sugli orrendi crimini commessi in quegli anni, sulle migliaia di desaparecidos, sulla miseria dilagante che ha permesso a capitali stranieri ed elittè locali di arricchirsi a scapito di intere popolazioni.
 
progettoaffari
progettoaffari il 09/04/08 alle 17:42 via WEB
No logo è un saggio della giornalista canadese Naomi Klein, pubblicato nel gennaio del 2000. Il libro si occupa principalmente del fenomeno del branding e del movimento no-global, del quale No logo viene considerato uno dei testi di riferimento principali. Il libro ha avuto molto successo ed ha vinto il premio National Business Book Award canadese del 2000. Riassunto La prima parte del saggio è dedicata principalmente a un'analisi della storia del fenomeno del branding e alle sue ripercussioni sulle dinamiche del lavoro. Nello specifico, Naomi Klein afferma che negli ultimi vent'anni avrebbe avuto luogo un radicale cambiamento nel capitalismo: se prima era centrale la fase della produzione di merci, ora quest'ultima diventa marginale e trascurabile, mentre si impiegano sempre più forze e denaro sul marchio e sulla proposta di una serie di valori immateriali ed ideali da collegare ad esso, con lo scopo di crearsi una propria fetta di monopolio. Le ingenti risorse monetarie che queste strategie richiedono derivano dal risparmio sulla produzione, che viene dislocata nei paesi del Terzo mondo dove l'azienda può sfruttare impunemente la manodopera operaia. In questo contesto viene presentata un'analisi approfondita della realtà delle Export Processing Zones dell'Asia e dell'America latina (incluso un resoconto di una visita della giornalista nell'EPZ di Cavite), in cui gran parte delle imprese a cui i grandi marchi internazionali (Nike, Reebok, Adidas, Disney ecc.) subappaltano gran parte della loro attività produttiva. La seconda parte del saggio descrive numerosi movimenti di reazione alle politiche applicate dai grandi marchi, da "Reclaim the Streets" alle pratiche del culture jamming. In questo contesto vengono tratteggiate le "storie di successo" relative agli attacchi volti da questi movimenti ad alcuni marchi (come Nike, McDonald's, Nestlè e Shell).
 
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