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Ferecide di Siro

Post n°12 pubblicato il 23 Ottobre 2009 da profilorossi

Da La sapienza greca, I, di G. Colli

2. Ferecide di Siro

 

Unità e polarità tra Apollo e Dioniso: tale è ancora la chiave per tentare un avvicinamento a un altro sapiente misterioso, Ferecide di Siro. Attraverso una differente commistione di doti naturali, anche lui, come Epimenide, si presenta a pri­ma vista come personaggio apollineo. Di Ferecide infatti viene testimoniata l'eccellenza divinatoria, e Aristotele stesso gli attribuisce una miracolosa pratica di magia, qualità ricorrente nello sciamanesimo iperboreo. Nello stesso qua­dro rientrano le testimonianze, secondo cui Pitagora sarebbe stato discepolo di Ferecide: Pitagora invero è personalità decisamente apollinea. Infine la celebre enigmaticità di Fere­cide, ossia l'uso della parola per accennare - nasconden­dolo - a un messaggio che viene dagli dèi, è un carattere che lo accosta ancora una volta ad Apollo: la carica reli­giosa dell'enigma rimanda difatti a questo dio.

Quello che ha conosciuto, del resto, Ferecide lo esprime attraverso un mito culminante. Ci furono sempre Zas, Ctonie e Tempo; ma ecco che Zas si congiunge con Ctonie, e dandole in dono la Terra, ella prende questo nome. C‘è una novità rispetto a Orfeo, a Museo, a Epimenide: il mito non si espri­me in un canto, bensì in parole scritte, in prosa. La bel­lezza dell'apparenza non è più sostitutiva, evocativa, di una mistica esperienza interiore: Apollo sembra ora sopraffatto. Forse è il lampeggiamento, l'intensità della conoscenza istantanea, a spezzare il flusso dell'espressione. Quest'ultima rimane inchiodata alla pura immagine simbolica, dove il quadro stesso del mito deve alludere al distacco dall'indi­cibile, deve dichiarare la nullità di ogni figura sensibile. Manca qui quella sciolta inversione dall'interiorità alla poe­sia, che era toccata a Orfeo: ogni spinta vitale che si conce­desse all'apparenza attenuerebbe la comunicazione di ciò che più preme, dell'al di là dell'apparenza.

Alla base si deve perciò presupporre un evento dionisiaco. Di Ferecide Plotino esalta la dote intuitiva, noetica;  e Aristotele ci spiega che la folgorazione noetica sgorga - come passione - nell'estasi misterica di Eleusi.  Ma l'esperienza eleusina si fonda su Dioniso, è l'identificazione con lui. Il mito ferecideo, tuttavia, non riproduce direttamente il lam­peggiamento misterico, è soltanto l'inaudita propagazione visionaria di un'esperienza senza nome né figura. È un Apollo subalterno, che plasma il mito ferecideo: l'Apollo Dioni­sodote, che restituisce Dioniso. Un matrimonio sacro, uno hieros gamos, questa è l'immagine del mito. La concentra­zione della grande esperienza mistica - che in sé raccoglie e scioglie tutta la realtà - si traduce, si manifesta in questo supremo quadro metafisico, con un irradiamento di impli­cazioni suscitate da un'unica immagine. Così del resto si comunica la più alta sapienza di Dioniso, col rappresentare l'arresto di un'azione in un'istantaneità sconvolgente, in un quadro culminante.

La stessa rivelazione si ritrova nella poesia orfica, ma avvolta nelle pieghe del canto, nascosta nel suo flusso, da cui bisogna saper estrarre la gemma. Un esempio è la descrizione del­l'attimo in cui Core fu rapita.  Verso un narciso di miraco­losa bellezza si precipita sbigottita “la fanciulla il cui sguardo è un fiore sbocciante”, protendendosi: “ed ecco, mentre essa vuole strapparlo con le mani, proprio allora si dice che la terra si spalancasse” e Aidoneo balza fuori ad afferrarla. Nell’istante si manifesta allo sguardo la contraddizione meta­fisica di Dioniso: bellezza e violenza coincidono.  La con­templazione esaltante è una cosa sola con lo strazio per l'assalto della potenza: la suprema antitesi è vissuta senza incrinatura. Così si spiega la ciclicità dell'evento eleusino: l'immagine che traduce l'estasi epoptica - il possesso di Dioniso - è la stessa destinata a suscitare una nuova estasi, nella futura esperienza: l'attimo del ratto di Core - nelle rappresentazioni mimiche di Eleusi - doveva manifestare immediatamente il vertice conoscitivo, e doveva per contro costituire l'ultimo stadio dell'iniziazione che lo preparava . Altrove ho parlato di una seconda immagine culminante, quella di Dioniso trucidato dai Titani mentre si guarda allo specchio, e vi vede riflesso il mondo.  C'è una profonda affinità con il caso precedente, per l'identica indicazione di una coincidenza tra conoscenza estasiata e atto di violenza: proprio perché è immerso e rapito nella contemplazione, i Titani possono assalire il fanciullo divino. Quest'immagine orfica per contro si accosta anche al mito di Ferecide nel riferimento all'illusorietà del mondo. Ciò che avvince Dio­niso difatti, nel contemplarsi, è il vedere che la fantasma­goria di forme e di colori, nelle cose del mondo, non è che la parvenza di sé riflessa in uno specchio.

In Ferecide l'immagine culminante non emerge dal tessuto poetico di miti, è fornita nel suo isolamento, da principio. Per contro la mancanza di suggestioni progressive poteva far apparire più impervio il simbolismo da lui usato. Il tema stesso delle nozze sacre conferma l'indicazione dionisiaca. L'iniziale presentarsi dell'antitesi tra Zas celeste e Ctonie sotterranea si addice peraltro a una formulazione enigma­tica. L'attimo culminante è quello del rito nuziale: Ctonie si toglie il velo e Zas la riveste con il mantello che lui stesso ha ricamato. Ciò risponde all'uso nuziale greco, secondo cui, quando la sposa si toglie il velo, lo sposo le offre i suoi regali. Ma con il mantello Zas ricopre colei che si è spogliata: denu­dandosi, la Sotterranea ha mostrato le sue profondità. E si ricordi che in greco il risultato del “disvelamento” si dice aletheia, “verità”. È la verità, dunque, l'abissale, la nudità di Ctonie, che non possono mostrarsi. Ma in quest'attimo Zas si è congiunto con Ctonie: “e tu con me congiungiti”. Nel ricevere il manto, infatti, il rito è già compiuto, e la congiunzione avvenuta. Tre elementi convergono nell'attimo: la profonda non può rimanere nuda e il mantello la ricopre mentre si disvela, ma in mezzo c'è già stata la congiunzione. Zas precipita nell'abisso che si apre, e il due diventa uno; se la sotterranea perde il suo velo, il cielo più non se ne distingue, e nell'abisso cade anche la conoscenza, che sul due e sul distinto si regge. Ma attenzione: sul mantello sono ricamati Terra e Ogeno e il palazzo di Ogeno, cioè il mondo che ci circonda, monti e valli e mari e città degli dèi e degli uomini. Nello hieros gamos è caduta la dualità e la cono­scenza, ma ciò che ne rimane - per Tempo che continua la sua corsa - è soltanto il mantello, cioè un'altra conoscenza, la conoscenza dal di fuori. La conoscenza e la vita come semplici illusioni, perché noi non riconosciamo il man­tello, ma pensiamo che si tratti di montagne e di fiumi e di palazzi. Questo, e non altro, è quello che vediamo noi. Pure, dietro quel mantello c'è ancora Ctonie. È ciò che Ferecide dice graziosamente, ed enigmaticamente assieme: “ma a Ctonie toccò il nome di Terra, dopo che Zas la onorò dandole la terra in dono”.

 

 
 
 
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