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Epimenide di Creta

Post n°11 pubblicato il 23 Ottobre 2009 da profilorossi

Da La sapienza greca, I, di G. Colli

1. Epimenide di Creta

 

Epimenide porta entro di sé entrambi gli dèi della sapienza, e quando si analizzino sotto questa luce le testimonianze, apparentemente sconnesse, che lo riguardano, si possono rintracciare, attraverso espressioni conoscitive individuali, i caratteri di Dioniso e di Apollo, ora congiunti ora posti isolatamente in evidenza. Un primo sguardo su questo per­sonaggio suggerisce un'interpretazione apollinea: del resto un sapiente emerge come individuo proprio attraverso la parola, che gli giunge da Apollo. E a Cnosso Apollo aveva un santuario. Ma questa parola appartiene anzitutto alla divinazione, e difatti è ampiamente attestata la capacità mantica di Epimenide. Non solo, ma con lui si mostra per la prima volta nella sua maturità conoscitiva il feno­meno della divinazione, attraverso il confluire in una sola persona delle due componenti del mantis e del prophetes, su cui ci ammaestra Platone: oltre a pronunciare lui stesso, e follemente, responsi oracolari, Epimenide è un interprete, con il distacco dalla sacralità di un individuo raziocinante intorno, alla parola del dio, quasi contrapponendosi al dio stesso in una gara della sottigliezza, dove comincia a pla­smarsi l’arma del logos. Ma anche qui, nella sfera della divinazione che sembra propria di Apollo, Epimenide lascia trasparire un’anomalia: una buona fonte ci informa che la sua eccellenza divinatoria non era rivolta al futuro, bensì al passato.  Viene in mente il mondo misterico, di cui la poesia orfica è un riflesso, e la sua accentuazione della memoria come potenza catartica: nel recupero del passato è la nostra salvezza, perché nel passato svanisce l'apparenza, ci è concesso di vedere il dio, di essere noi stessi divini.  E questo dio è Dioniso: ta1e è l'allusione della profezia all'indietro di Epimenide. Apollo rivolge invece il nostro sguardo verso il futuro, perché la parola è il suo strumento, e la parola porta alla luce qualcosa di nascosto, attraverso una propagazione chiarificante - dove la parola che inter­preta, diventa a sua volta interpretata - e secondo la dire­zione espressiva dell'astratto. Ma per Epimenide - e per i Greci che conobbero - tutto l'avvenire è già contenuto in quel passato primordiale, cosicché la lontananza del futuro che si può cogliere dipende dalla visione del passato divino, che quello manifesta.

Altre notizie su Epimènide ne danno una raffigurazione sciamanica che si riporta ad Apollo Iperboreo. In questo quadro entrano la sua vita ascetica, il vitto vegetariano, anzi quasi un favoloso distacco da1la necessità della nutri­zione.  È chiaro che la leggenda su Epimenide cominciò a formarsi già nel tempo della sua vita, e che le miracolose qualità di tale personaggio furono amplificate, ma non in­ventate dalla leggenda. Sembra quasi che, lungo il corso dei suoi anni, egli abbia vissuto una vita separata, beffandosi della condizione umana. Il fatto è che lui non raccontava storie sugli dèi, ma viveva, con gli dèi. Il suo sonno durato cinquantasette anni - se è stato lui stesso a parlarne - voleva dire questo. L'immagine certo allude alla letargica posses­sione da parte del dio, e i sogni che visitarono quel lungo sonno richiamano la sfera divinatoria. Ma nei sogni egli incontrò gli dèi, e tra questi una dea che forse nessuno aveva visto prima, Verità. Il lungo sonno, d'altra parte, era avvenuto in una caverna cretese, e ciò riporta ancora una volta a Dioniso: in una caverna - elemento appari­scente della religione cretese - si dice fosse allevato Zeus Ideo, dio orgiastico assimilabile a Dioniso, connesso al culto misterico dei Cureti. Si spiega allora perché nelle nostre fonti Epimenide venga anche chiamato “il giovane Curete”,  e perché lo si dica “sapiente intorno alle cose divine, rispetto alla sapienza entusiastica e iniziatica”.  L'appariscente figura apollinea emerge da un velato fondo dionisiaco, e già la patria cretese di Epimenide basta a susci­tare questa prospettiva: da Creta infatti prende origine la molteplice ramificazione dionisiaca, attraverso i meandri orfici ed eleusini.

Ma l'interiorizzazione estrema di questa esperienza, il con­tatto visionario con gli dèi, l'estasi emergente da una varie­gata tecnica conoscitiva di tipo sciamanico, tutta questa pienezza si scioglie a un tratto in un rigurgito espressivo - come già era accaduto a Orfeo - dove l'urgere del vissuto si scarica e si ribalta nella magia del canto. Ancora una volta Apollo riacquista il predominio, ed Epimenide racconta i suoi miti, variando, innovando, inventando poeticamente. Le notizie tramandate su questi miti sono assai scarse e frammentarie: colpisce l'introduzione di divinità inedite e inquietanti, come Tracotanza e Svergognatezza,  e l'ispira­zione cretese si tradisce nella comparsa di esseri mostruosi, dove la figura del dio si intreccia a quella dell'animale. Soltanto in un caso si può tentare la ricostruzione, almeno parziale, di un mito: la complementarità della testimonianza con un passo omerico fa pensare che qui Epimenide attinga a una tradizione molto antica.

Si tratta del mito di Arianna e di Dioniso.  Dioniso vuol sedurre Arianna, e ci riesce con il dono insidioso di una corona rilucente, fatta di gioielli indiani: Arianna viene ingannata. Ma Arianna ricambia l'inganno, perché quella corona la dà a Teseo: con la sua luce le tenebre del Labi­rinto sono sconfitte, e ucciso il Minotauro (cioè l'apparenza di Dioniso!). Ma Dioniso non è morto, e sopra l'isola di Dia fissa in cielo la corona dell'inganno, perché illumini, di fronte agli dèi, Teseo e Arianna. È la loro passione che viene svelata, con il nuovo inganno, e la freccia di Artemide uccide Arianna. Questo mito, anteriore al settimo secolo a.C., presuppone tuttavia un mito cretese ancora più antico, perché Arianna, che qui è donna, nei documenti più remoti appare come una grande dea. Il mito primitivo, non è possi­bile ricostruirlo: però il racconto di Epimenide, da cui la relazione fra Dioniso e Arianna risulta fondata sulla pura violenza, allude a un'origine ancora più fosca. Tre elementi ci sono noti, di questo mito primordiale: la “Signora del Labirinto”, identificata con Arianna, la quale a Creta era anche chiamata Aridela, la “Luminosissima”; il Minotauro­-Dioniso, l'animale-dio, che era chiamato lo “Stellante”; in­fine il Labirinto, il buio artificio della potenza. Questo qua­dro, se si vuole azzardare un'ipotesi, non suggerisce un'azione per il mito, ma un equilibrio statico, fondato su una situa­zione di crudeltà. E poiché nella religione minoica si nota un predominio delle grandi divinità femminili, l'ipotesi può estendersi all'immagine della “Luminosissima” che tiene imprigionato lo “Stellante”, della “Signora del Labirinto” che piega ai suoi voleri l'animale-dio, rinchiudendolo nella tenebra. Ma qui ci interessa il mito di Epimenide, dove evidentemente è avvenuta un'inversione delle parti. Il dio sovrasta la donna, e nel Labirinto i ruoli vengono scam­biati. Quest'ultima è un'ipotesi, per integrare l'unica lacuna del racconto. Difatti la fonte di luce non appartiene ora ai protagonisti, ma giunge dall'esterno. E la luce è lo stru­mento dell'inganno. Ma perché la luce produce l'inganno? Perché fornisce una conoscenza, attraverso cui qualcuno subisce uno scacco. La luce rischiara il Labirinto per Teseo, e il danno cade sul Minotauro, l'apparenza di Dioniso. In cielo la corona illumina gli amanti, e questa conoscenza arma la mano di Artemide contro Arianna. E così nel primo in­ganno - quello lacunoso - forse Dioniso, dando ad Arianna la corona, l'avrà indotta a entrare con quella fiaccola nel Labirinto, dove lei sarà stata alla mercè dell'apparenza del dio, il Minotauro. Ma allora ogni conoscenza sottile, che si ripercuote con un'insidia fatale al di là del suo impatto immediato, è necessariamente un inganno, e la luce sfolgo­rante che disserra i segreti è davvero portatrice di morte e di schiavitù? È questo che Epimenide voleva dire, che la sapienza è un inganno?

 

 
 
 
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