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Creato da: claudio_tiny il 19/02/2009
Storia e memoria della Maruska

 

 

La Maruska

Post n°4 pubblicato il 28 Ottobre 2015 da claudio_tiny

A parlare di quegli anni sembra non solo di raccontare di un'altra epoca, ma addirittura di un altro mondo, se non di un altro universo. Le cose erano tutte più semplici e chiare, le passioni più grandi, le differenze più nette. Non si poteva stare in mezzo al guado: o stavi da una parte o stavi dall'altra.

Sto parlando dei primi anni settanta, naturalmente, gli anni delle grandi speranze che precedettero gli anni di piombo. Anni in cui sembrava che tutto fosse possibile, anche le utopie più assurde ed insensate. Anni in cui si viveva di politica, la si respirava in ogni atto della propria giornata, nello studio, nel lavoro, nel divertimento.

Forse eravamo solo degli ingenui idealisti, ma molti di noi avevano una visione della politica come servizio, ci si impegnava senza immaginare alcun tornaconto personale, con molto altruismo e generosità. Si dedicava il proprio tempo e le proprie energie ad attività che immaginavamo avrebbero contribuito a migliorare il mondo.

Ma sto divagando, non intendevo parlare di politica. Volevo solo provare a ricordare i bei tempi della Maruska.

Già, la Maruska.

Sono passati tanti anni dalla chiusura di quel locale/circolo/ritrovo, ma per molti gropellesi (e certamente per tutti quelli che l'hanno conosciuta da vicino partecipando alle sue attività) quel nome evoca ricordi molto forti. Probabilmente anche in molti che non l'hanno conosciuta e che per motivi puramente ideologici la criticavano senza nemmeno provare a capirne la natura. Per me è difficile da spiegare, ancora oggi non ne capisco il motivo, ma c'era molto odio nei suoi confronti, molto astio e disprezzo. Ma certamente chi ha avuto la fortuna di vivere il suo periodo d'oro porta nel cuore un grande rimpianto. Perché quello che è stato ormai non è più, e difficilmente si riproporrà qualcosa di simile.

Ripensando a quegli anni mi passano per la mente i nomi e i volti dei tanti che vi ho conosciuto, e che purtroppo ci hanno lasciato prima di quanto sarebbe stato giusto. Persone la cui conoscenza mi ha arricchito e insegnato molto più di quel che io abbia insegnato loro.

Ho deciso di provare a mettere per iscritto i miei ricordi sulla Maruska, e di chiedere ai tanti o pochi che come me rimpiangono quegli anni di fare altrettanto. Vorrei in questo modo tramandare a chi verrà dopo di noi la memoria di un'esperienza unica e probabilmente irripetibile, e allo stesso tempo rendere onore ai tanti che dedicarono il loro tempo e le loro migliori energie per dare vita a un sogno.

Non si tratterà di una storia completa ed esaustiva, ma di una serie di ricordi di eventi e persone che io e chi vorrà aiutarmi tenteremo di recuperare dalla nostra memoria.

 
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La prima volta

Post n°5 pubblicato il 28 Ottobre 2015 da claudio_tiny

Può sembrare strano, ma la prima volta in cui entrai alla Maruska fu per giocare a ping-pong.

Andò così: era il 1972, io all'epoca non uscivo spesso di sera (andavo a scuola alle superiori, al Bordoni di Pavia, e dovevo alzarmi presto tutte le mattine); quando uscivo, di solito andavo all'Oratorio con mio fratello Dario, a giocare a biliardino o a ping-pong. All'epoca, il tavolo da ping-pong si trovava nell'atrio antistante il teatro, in un locale spazioso dove tutto rimbombava, e il rumore della pallina veniva come amplificato all'ennesima potenza. Nei locali del piano di sopra c'erano le sedi di Azione Cattolica e di altre associazioni legate alla Chiesa. Quella sera, sfortunatamente, c'era un riunione.

Per farla breve: iniziammo a giocare, ma dopo pochi secondi scese qualcuno (sinceramente, non ricordo chi fosse) a intimarci di smetterla, in quanto disturbavamo la riunione.

Fummo costretti a interrompere la nostra partita, ma la voglia di giocare si fece più forte. Pensammo a dove potevamo trovare un altro locale con un tavolo da ping-pong e ci venne in mente che qualcuno ci aveva detto che alla Maruska ce n'era uno. Decidemmo di andarci.

Entrammo e trovammo un'atmosfera cordiale e amichevole: c'era gente che giocava a carte, altri che chiacchieravano, altri che erano semplicemente lì a bere qualcosa. Chiedemmo se si poteva giocare: ci mostrarono dov'erano le racchette e la pallina, senza nemmeno informarsi su chi eravamo.

Giocammo, e quando ci fummo stancati di giocare andammo al bar.

La prima cosa che mi colpì fu la semplicità delle persone: nessuno si dava delle arie, nessuno ti chiedeva chi fossi e come la pensassi. Facemmo qualche domanda su come funzionassero le cose, e subito ci mostrarono quello che c'era.

Il locale non era nulla di speciale, era una vecchia stalla ristrutturata con il lavoro volontario dei soci. C'era la stanza del bar, con il bancone e un po' di tavolini per sedersi a giocare alle carte, un salone dove si trovava il tavolo da ping-pong, un biliardino, un juke-box, dei divani recuperati da chissà dove, e uno stanzino (più avanti ne parlerò diffusamente) contenente una piccola libreria, dove si poteva andare a leggere o a parlare di tutto (di politica, di cultura, di attualità, di progetti da realizzare).

Fuori c'era un ampio cortile, con una balera, un palco per l'orchestra e diversi giochi per bambini (altalene, scivolo, un giostrino).

Il salone, oltre che come zona ricreativa, veniva utilizzato per le riunioni, per i pranzi, e la domenica sera si trasformava in un cinema: il buon Gino Ferrari andava a Pavia e noleggiava una pellicola (16 mm), che poi veniva proiettata gratuitamente per i soci e per i frequentatori del circolo.

Lo stanzino veniva affettuosamente chiamato “la stalla”, ed era il luogo più caratteristico della Maruska: era un locale lungo e stretto, con un tavolo centrale che lo occupava quasi per intero; per sedersi erano state costruite delle panche in muratura, attaccate alle pareti; in fondo c'era una libreria contenente un buon numero di libri di vario genere, da testi politici a romanzi o raccolte di poesie, a fumetti. In quella stanza ogni tanto portavamo una chitarra e si suonava e cantava. La chitarra poi (una vecchia Eko, un rudere con delle corde di metallo di una durezza assurda) la lasciammo lì, e onestamente non so che fine abbia fatto (forse la portammo in Biblioteca anni più tardi, ma non ne sono sicuro).

In quello stanzino furono elaborati un gran numero di progetti, molti dei quali irrealizzabili e irrealizzati. E sempre in quello stanzino si formò il gruppo musicale “La Conca Rossa”. Ma di questo parlerò in un capitolo specifico.

 
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Autogestione

Post n°6 pubblicato il 28 Ottobre 2015 da claudio_tiny

Cos'è che rendeva speciale la Maruska? Voglio dire, appena entravi sentivi che c'era un'aria diversa, non era come entrare in un qualsiasi bar, e nemmeno come entrare all'Oratorio.

Per esempio: ogni giorno c'era un barista diverso. E non un barista come gli altri, che se ne stava dietro al banco e cercava di invogliare i clienti a consumare. No: spesso lo vedevi seduto a un tavolino a giocare a carte; quando qualcuno aveva bisogno, gridava: “Barista!”, lui si alzava, andava a servirlo e poi tornava al suo posto per continuare la partita.

Come funzionava la cosa? Non c'era un gestore che si occupava di tutte le incombenze, come in tutti gli altri circoli analoghi?

In verità non c'era. Il circolo si reggeva su una parola che ai più potrebbe risultare sconosciuta: AUTOGESTIONE.

In poche parole, i soci stilavano dei turni, e una sera a settimana una o due persone (due per i week-end, mentre per i giorni lavorativi ne bastava una) erano di servizio al bar.

Questo faceva sì che tutti si sentissero participi delle attività del circolo, anche chi (perché non aveva tempo, oppure perché semplicemente non se la sentiva) non faceva i turni al bar. Non c'era nessuno che era lì per guadagnarci, ma i soldi incassati andavano tutti nelle casse del circolo, e servivano per migliorarlo e renderlo più funzionale.

L'autogestione sarebbe poi stata applicata anche nella gestione del Cinema Teatro Ferri, che fu preso in carico dal Circolo ARCI (cioè dalla Maruska) a partire dal 1974.

Io stesso ho fatto non so quanti turni al cinema, in grigie serate invernali in cui magari entravano una decina di persone, e bisognava dividersi fra la biglietteria e il bar, e i film sembravano non finire mai.

Poi quando veniva la bella stagione si potevano fare le feste all'aperto. Ogni anno si faceva la Festa dell'Unità (ballo liscio & salamelle & frittate con cipolle per tutti!), ma oltre a questa si facevano altre serate di autofinanziamento. Ogni volta, i soci che ne avevano voglia (cioè quasi tutti) si davano da fare gratuitamente, chi in cucina, chi a servire ai tavoli o al bar, chi alla cassa (il mio luogo preferito…). E alla fine di ogni serata si faceva il conto: se era andata bene, la Maruska aveva qualche soldo in più per le sue attività, altrimenti bisognava tirarli fuori dalle casse per pagare le spese.

Lavoravamo tutti, ognuno a modo suo, perché le attività della Maruska avessero successo, senza che nessuno di noi mettesse in tasca anche una sola lira. E la cosa più sorprendente per me, almeno all'inizio, è che anche le persone con incarichi pubblici (sindaco, assessori, segretari di sezione) si davano da fare insieme a tutti gli altri, si mettevano il grembiule per servire ai tavoli, oppure andavano in cucina a sbucciare le patate, e non cercavano mai di mettersi in mostra.

 
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La Conca Rossa

Post n°7 pubblicato il 29 Ottobre 2015 da claudio_tiny

Alla Maruska si cantava spesso. Per i giovani di oggi sarà difficile da credere, a loro che stanno sempre attaccati a smartphone, tablet o lettori mp3 con le cuffie sulle orecchie sembrerà una cosa assurda. Invece era proprio così.

Si faceva un pranzo. Al termine qualcuno diceva: “Dài, prendete la chitarra”, e noi (io e Dario, voglio dire) ci facevamo un po' pregare, ma poi la prendevamo e cominciavamo a suonare. Per parafrasare la celebre canzone di Petrolini, “La voce era poca ma intonata”, per di più non eravamo i soli a cantare, le canzoni le conoscevano tutti, e molte voci si univano alla nostra.

O anche la sera: si finiva di giocare a carte e si vedeva che era ancora un po' presto. Che si fa? “Su, prendi la chitarra”. E via con la musica.

Ma oltre a noi due, c'erano altri che suonavano: innanzitutto, Paolo Ventura (che conosceva tutti gli accordi ma non ne ricordava mai il nome, per cui si verificavano situazioni esilaranti, come questa: “Con che accordo si comincia?” chiedeva lui. “Con il mi minore”, rispondevo io. “E com'è il mi minore?”. Glielo facevo vedere. “Ah!”, faceva lui); poi il mitico Jerry (al secolo Claudio Canevari, veniva da Pavia ed era compagno di scuola di Paolo Ventura; lui era un genio degli strumenti a fiato, soprattutto di quelli antichi; sapeva suonare diversi tipi di flauto dolce, più alcuni strumenti rinascimentali dai nomi improbabili, come ad esempio il cornamuto torto, una specie di trombetta ricurva che suonata da lui aveva un bel timbro nasale; e con l'ancia sapeva far suonare di tutto; una volta – per scommessa – fece suonare anche un cavatappi!); e il cugino di Ventura, Walter Fontana (oggi autore televisivo, fra gli anche per la Gialappa's, nonché scrittore di libri comici e di fiction; lui aveva un vezzo: usava i biglietti ferroviari – quelli di una volta, rettangolari in cartone spesso – a mo' di plettro; in effetti funzionavano, davano un bel suono vellutato alla chitarra…).

Oltre ai musici (o presunti tali!) vi erano i cantanti, e il loro numero è troppo alto perché li possa elencare tutti; rischierei di dimenticarne qualcuno.

In definitiva, divenne naturale mettere in piedi un gruppo musicale, per andare a suonare nelle Feste dell'Unità, o nei comizi, o dovunque ci fosse bisogno di qualcuno che facesse musica popolare a buon mercato. Non andavamo in giro per soldi (in effetti, ben poche volte fummo pagati, in genere il nostro era un compenso in natura – un piatto di pastasciutta, una frittata, una bottiglia di vino). Il gruppo inoltre non aveva una composizione fissa. La regola era: chi c'era, veniva. Per cui poteva capitare che fossimo in due, o in tre, o in dieci.

Di tanto in tanto tentavamo di fare le cose seriamente: facevamo le prove, mettevamo giù una scaletta di canzoni e ci ripromettevamo di seguirla. Ma in genere poi l'anarchia aveva la meglio. Dopo un paio di canzoni cominciavamo a improvvisare, inserendo dei brani che non erano previsti, saltandone altri che invece avevamo provato e riprovato. Devo purtroppo ammettere che il principale responsabile di quell'anarchia ero io, che non amavo seguire alla lettera un canovaccio predefinito, ma preferivo affidarmi all'istinto del momento e inventarmi sempre qualcosa di nuovo. Del resto, ero molto giovane e immaturo…

Sono tanti gli episodi divertenti che ricordo. Ad esempio, una sera andammo alla Garbana (frazione di Gambolò), dove si teneva un comizio per la campagna elettorale di elezioni non so più se politiche o amministrative. Partimmo in una fila compatta di Fiat 500 (tutti i ragazzi a quell'epoca ne avevano una!), arrivammo al paesino e quasi non trovavamo la piazza (in effetti più che una piazza ero uno slargo, di fianco a una curva della via principale). Mettemmo giù gli strumenti, cominciammo a suonare e subito, di punto in bianco, il prete fece suonare le campane, per disturbare il nostro concerto. Non è che fece molti danni, più che altro perché non c'era molta gente (forse, a stare larghi, una decina di persone).

Un'altra volta andammo a Trivolzio, per la Festa dell'Unità. Facemmo qualche canzone, poi durante una pausa venne un tipo a dirci che lui suonava il banjo e ci chiese se poteva suonare con noi. Glielo concedemmo, commettendo un errore clamoroso: lui cominciò a suonare per conto suo, facendo canzoni diverse dalle nostre, e non si riusciva a farlo smettere. Poi venne anche un altro, lui suonava il trombone. Salì sul palco e cominciò a suonare a ripetizione “Il carnevale di Venezia” (l'unico brano che conosceva, evidentemente), e anche lui non voleva smetterla. Insomma, alla fine di tutto quel cancan c'era più gente sopra il palco che giù ad ascoltare. Del resto, con la cacofonia che si era creata, le orecchie erano messe a dura prova…

Un'altra volta ancora, Paolo Ventura si accordò per andare a fare una serata in Lomellina (a Cilavegna, mi pare, ma non ne sono sicuro), dove c'era anche un comizio del senatore Renato Cebrelli. Dovevamo andare in un buon gruppo, ma pochi giorni prima della data iniziarono le defezioni. Mio fratello Dario partì per andare in Calabria in vacanza. Paolo Ventura si ricordò che aveva un appuntamento con la morosa. Tutti gli altri diedero forfait. Per farla breve mi ritrovai da solo. Raggiunsi il luogo solo grazie al buon cuore dell'amico Fulvio Baldo (non avevo la patente, e senza il suo aiuto non avrei potuto andarci). La cosa ironica è che fui presentato come “gruppo corale La Conca Rossa”. Ci fu un attimo di sgomento quando si resero conto che ero da solo… Dovetti spiegare la situazione, dopodiché suonai con una comodità che non avevo mai sperimentato: quattro microfoni tutti per me… Una vera pacchia!

Ma a parte queste uscite estemporanee (che comunque non furono mai molto numerose), la Conca Rossa rappresentò la colonna sonora degli anni d'oro della Maruska, e anche se oggi forse in pochi la ricordano, in me evoca gradevoli ricordi, e un pizzico di nostalgia.

 

 
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I risotti di Muciòn

Post n°8 pubblicato il 29 Ottobre 2015 da claudio_tiny

Luigi Gatti, detto Muciòn, era un finto burbero. Di corporatura tozza, il volto rubizzo e lo sguardo che di tanto in tanto “sparava”, dava l'impressione a chi non lo conosceva di essere un uomo aggressivo e potenzialmente violento, invece era fondamentalmente un buono. Se c'era bisogno di una mano, potevi star sicuro che te la dava. Magari imprecando e bestemmiando, ma lui c'era sempre. Tranne quando si incazzava davvero, allora spariva per qualche settimana o qualche mese. Poi tornava come niente fosse e riprendeva a fare le cose di prima.

Anche se, negli anni, ebbe diversi incarichi (per un breve periodo fu anche il Presidente del circolo ARCI Maruska), il suo posto ideale era la cucina. I suoi risotti erano famosi in tutta la provincia, c'era gente che veniva anche da fuori (da Pavia, da Vigevano, dall'Oltrepò) solo per assaggiare quelle prelibatezze.

Muciòn, come tutti gli artisti, non amava esibirsi a comando. Faceva i suoi risotti solo quando ne aveva voglia, se gli chiedevi di farlo quando aveva la luna storta era capace di mandarti al diavolo (per non dire di peggio!), e poi si offendeva pure.

Quando il risotto gli riusciva particolarmente buono (più buono del solito, perlomeno), e tutti gli facevano i complimenti, si scherniva e rispondeva sgarbatamente, come se non gli piacesse ricevere apprezzamenti. In cuor suo, però, sono sicuro che fosse felice di aver soddisfatto tutta quella gente.

Alla fine del pranzo poi gli si dedicava una canzoncina:

E Luigi Gatti lo vogliamo sì!

E Luigi Gatti lo vogliamo sì!

Lui ci prepara dei gustosi piatti

Luigi Gatti lo vogliamo sì!

Lui mandava tutti a cagare e se ne tornava in cucina apparentemente imbronciato, ma gli occhi gli ridevano.

 
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Il lavoro manuale

Post n°9 pubblicato il 30 Ottobre 2015 da claudio_tiny

La maggior parte dei frequentatori della Maruska erano persone umili, operai e piccoli artigiani, gente che aveva iniziato a lavorare molto giovane e che non aveva paura di sporcarsi le mani. Se c'era bisogno di faticare non si tiravano certo indietro. E di cose da fare ce n'erano sempre tante.

Per noi giovani, invece, il discorso era un po' diverso. Soprattutto noi che studiavamo (prima alle superiori, poi all'università) e che eravamo cresciuti senza dovere mai sudare troppo per ottenere quello che desideravamo, non eravamo abituati a certi sforzi. Anche in questo, però, la Maruska fu per noi scuola di vita, insegnandoci una regola fondamentale: che se vuoi costruire qualcosa, il lavoro lo devi fare tu in prima persona.

Nei primi tempi la Maruska era carente in diverse strutture: la balera era vecchia, il palco per l'orchestra scalcinato e con un un impianto luce al limite del criminale, il cortile era un disastro.

Visto che c'erano sempre più frequentatori, si decise così di dare una sistemata all'intera struttura. Per prima cosa si decise di rifare la balera e sistemare l'impianto luce. La vecchia balera in cemento venne rimossa a colpi di piccone e sostituita con una rivestita di piastrelle (non ricordo più se recuperate da qualche occasione o acquistate appositamente). Ovviamente, dovettero intervenire dei muratori che sapevano fare il lavoro, ma una mano la diedero un po' tutti.

Noi giovani invece fummo incaricati di sistemare il cortile, e in particolare le strutture sportive. Fu così che a colpi di badile (io che non ne avevo mai preso in mano uno!) sradicammo la vecchia pavimentazione del cortile, spianammo il tutto e costruimmo un campo da pallavolo, con tanto di pali per la rete e di segni per delimitarlo. Poi non contenti ci dedicammo a una delle opere più inutili che fosse mai stata concepita: scavammo una buca profonda e la riempimmo di sabbia, e in questo modo ci creammo una pista per il salto in lungo. Poco importa che per la rincorsa si dovesse passare sotto allo scivolo e rischiare uno scontro con le altalene. Intanto la buca per il salto in lungo era pronta. A dire il vero, non è che venisse molto usata (a differenza del campo di pallavolo, che vide svolgersi interminabili sfide fra i nostri e gruppi di giovinastri che arrivavano a volte da Dorno, altre da Garlasco; oppure ancora sfide fratricide fra frequentatori della Maruska; il livello tecnico era assai modesto, ma l'impegno e la grinta non venivano mai meno).

Riporto qui quanto mi ha scritto Gabriella Messori: Ti ricordi quando è stata creata la squadra di pallovolo alla Maruska? E dopo 15 giorni che c'era la squadra abbiamo fatto una partita con quelli di Tromello... che avevano vinto i campionati Regionali! Ricordo che noi vedevamo la palla... ma non siamo riuscite prenderne nemmeno una!!!! Loro hanno avuto compassione di noi e ci hanno regalato 3 punti e la squadra è finita quella sera. Ricordo che c'era la Loredana Ferrari, Luciana e Luisella Malagoli, Eva Calabrese, Giovanna Messori e ovviamente io!!!

Per completare il tutto, furono anche issati due tabelloni da basket nuovi (quelli vecchi erano di panforte, e la pioggia e il freddo li avevano fatti marcire – anche se a dire il vero io avevo dato il mio contributo alla distruzione, con tutti i tiri troppo corti che avevo fatto e che finivano sul ferro contribuendo allo sgretolamento del panforte).

Personalmente, ritengo quell'esperienza molto formativa: noi studentelli con il badile o il piccone in mano, che nonostante la goffaggine dei gesti (che strappava risate sarcastiche a ci invece sapeva usare quegli attrezzi) riuscivamo a costruire qualcosa di concreto: per noi era un grande insegnamento. Certo, uno con un po' di pratica avrebbe fatto in un giorno quello che noi facevamo in una settimana. Ma anche così, vedere un lavoro fatto con le nostre mani ci dava una grande soddisfazione.

Poi naturalmente c'erano i lavori in preparazione delle Feste dell'Unità. Nei giorni precedenti l'inaugurazione, le attività si facevano frenetiche. Tutti si davano da fare, ma il coordinamento non era il nostro forte e si faceva molta confusione. Regolarmente, sembrava che non fosse possibile completare i lavori in tempo, ma poi miracolosamente le cose si incastravano e all'apertura della Festa tutto o quasi era a posto.

Ricordo ancora distintamente il profumo di salamelle che si alzava dal barbecue a inizio serata, e che era come un richiamo irresistibile per gli amanti delle feste e del ballo liscio. La gente iniziava ad arrivare a frotte, l'orchestra attaccava a suonare, il sole tramontava lentamente e si faceva buio, e col buio la festa si accendeva. Ma questa è materia di un altro capitolo, e ne parlerò diffusamente più avanti.

 

 
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L'impresa del geometra Burroni

Post n°10 pubblicato il 03 Novembre 2015 da claudio_tiny

Tra i tanti avvenimenti degni di nota che conservo nella memoria, non posso non citare l'epica impresa di cui si rese protagonista il geometra Enzo Burroni durante un cenone di Capodanno svoltosi nel salone della Maruska.

Non ricordo con precisione l'anno (mi pare fossimo già negli Ottanta, ma non ne sono sicuro). Ricordo solo che si era mangiato alla stragrande, si era bevuto il giusto (e forse qualcosina di più…), si era festeggiato e brindato, e insomma la serata stava andando benissimo.

Ormai il cenone era finito, mezzanotte passata da un pezzo, ma era Capodanno e non si poteva andare a casa così presto. Naturalmente, saltarono fuori le chitarre. Si cominciò a cantare, e fra una canzone e l'altra si scherzava, si beveva un sorso di vino, e chi ce la faceva ancora mangiava qualcosa.

I panettoni erano stati aperti e divotati, ma se n'era avanzato qualcuno, per cui Enzo, che evidentemente aveva ancora dello spazio libero nello stomaco, ne preso uno ancora intatto e ne tagliò una fetta.

Riprendemmo a cantare, e poi a bere. Lui intanto si tagliava la seconda fetta. Poi la terza. E poi la quarta.

Per farla breve, a un'ora imprecisata della notte (ma già piuttosto tardi) sul tavolo rimase una sola fetta: quasi senza volerlo, Enzo la prese, vide che non ce n'era più e si lasciò scappare, in tono stupito: “Toeu, all'o finì!”

Dopo un attimo di sbigottimento, tutti quelli che erano lì attorno si misero ad applaudire freneticamente. Un intero panettone divorato in poco meno di un'ora da una sola persona! Un'impresa da Guiness dei primati!

La cosa più divertente è che l'anno successivo Enzo tentò di ripetere la prova, ma fallì miseramente. Non arrivò neanche a metà.

Certi numeri riescono una sola volta nella vita. Ci vogliono le condizioni giuste e il momento adatto. Sono come un'improvvisazione di Paganini: irripetibili!

 

 
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Il Cinema Teatro Ferri

Post n°11 pubblicato il 04 Novembre 2015 da claudio_tiny

Nel 1974 accadde un fatto che mutò profondamente la natura della Maruska: ci fu offerto di prendere in gestione il Cinema Teatro Ferri (uno dei due teatri storici di Gropello, l'altro era quello dell'Oratorio), e noi, dopo molte discussioni e assemblee degli iscritti, decidemmo di accettare.

I motivi per farlo erano più d'uno: innanzitutto per non far sparire per sempre uno dei pochi luoghi idonei a ospitare attività pubbliche (fossero spettacoli teatrali, riunioni o altro); inoltre, per avere la possibilità di organizzare eventi anche durante la cattiva stagione (d'inverno il cortile della Maruska non era utilizzabile); infine, per avere uno spazio più vicino al centro del paese, e quindi più accessibile a tutti.

Di contro, era evidente che la gestione di quella struttura richiedeva un impegno supplementare a tutti: si dovevano coprire più turni, si aveva bisogno di più gente. Inoltre, dal punto di vista economico era una scommessa non facile da vincere. Ma era un momento di grande crescita, c'era sempre più gente che partecipava alle attività e avevamo molta fiducia nelle nostre forze, così si decise di rischiare.

All'epoca, il Ferri (come comunemente veniva chiamato) era più che altro un cinematografo. Tre o quattro sere a settimana si proiettava un film (anche la domenica pomeriggio, mi pare, ma non ne sono del tutto sicuro). Nella cabina di proiezione sedevano a turno Bruno Giuliani e Renato Ferrari, a quanto ricordo. Oltre a uno di loro, il turno prevedeva un addetto alla cassa e uno o due al bar (a seconda delle serate).

Il livello dei film era quello che era, anche perché le pellicole si noleggiavano a gruppi: magari ti capitava un bel film insieme a tre o quattro boiate, e bisognava proiettarli tutti.

Già in quei tempi non è che ci fosse un grande afflusso (un po' in tutta Italia i cinema stavano entrando in crisi – ad eccezione di quelli a luci rosse…), se poi si proponevano dei film inguardabili si finiva per vedere due o tre persone sala, che si addormentavano oppure uscivano di soppiatto alla fine del primo tempo.

Ma a parte le proiezioni dei film, il teatro veniva utilizzato anche per serate da ballo (solitamente molto frequentate, erano quelle che alla fine rendevano di più) o per altre manifestazioni. Ne voglio qui ricordare un paio, che mi sono rimaste impresse nella memoria:

La mostra faunistica del 1975. In occasione della festa patronale, organizzata principalmente da Luciano Repetto, venne allestita una mostra faunistica, in cui vennero esporti centinaia o forse migliaia di uccelli impagliati, di tutte le specie immaginabili. La cosa straordinaria è che la mostra fu allestita nel corso della notte, al termine di una serata danzante. Terminate le danze, all'una di notte, la sala fu rapidamente sgombrata grazie al lavoro di decine di volontari, i tavolini e le sedie vennero riposti nel deposito laterale e sostituiti da bancali su cui poi vennero posati gli uccelli imbalsamati, ognuno con la sua targhetta esplicativa. Un lavoro certosino, che si concluse ben dopo l'alba. Il mattino seguente, alle dieci, la mostra venne inaugurata, e ancora oggi mi chiedo come facessero tutti quelli che avevano lavorato l'intera notte a essere presenti. Io, da parte mia, diedi una mano fin verso le tre o le quattro di notte, poi andai a dormire per potermi svegliare in tempo (eh sì, sono un dormiglione!)

Gli spettacoli della Befana. Per due anni consecutivi, il 1976 e il 1977, il giorno dell'Epifania organizzammo uno spettacolo teatrale, con scenette, monologhi e canzoni, il tutto eseguito da noi. Artefice degli spettacoli fu ovviamente (e non poteva essere altri che lui!) il Maestro Sergio Ventura, da sempre appassionato di teatro e che aveva alle spalle già molte esperienze simili. Buona parte delle scenette erano scritte da lui o da suo nipote, il già citato Walter Fontana. Gli attori o pseudo-tali erano parecchi, tutti frequentatori della Maruska. Avevamo persino l'orchestra, composta da (vado a memoria, potrei sbagliarmi su qualcuno di loro): Fulvio Maldifassi alla tastiera, Fabrizio Bernardotti alla batteria, Graziano Accomando alla chitarra solista, Giorgio Farina alla chitarra ritmica e non so più chi al basso (forse Martella, ma non ci giurerei). Oltre a loro, anche io, Dario e altri che non ricordo si esibimmo con la chitarra, eseguendo qualche canzone.

Di quegli spettacoli ricordo molti episodi divertenti (a dire il vero, l'intera preparazione – due mesi di prove – era uno spasso, non ci si annoiava mai, ogni prova era come ricominciare da zero). Ma due in particolare sono i ricordi che voglio riportare.

Il primo riguarda il noto duo comico Burroni-Lazzarin (al secolo, il geometra Enzo Burroni e Pierluigi Lazzarin detto Gigia), che in entrambi gli spettacoli decisero di organizzarsi da soli una scenetta in dialetto gropellese. Detto fatto, passarono settimane a scrivere e riscrivere il testo della scenetta, a limare e aggiungere, e ogni volta che la provavano la scenetta era diversa. Alla fine riuscirono a mettere giù un testo più o meno definitivo. La serata dello spettacolo, però, il buon Enzo era un po' teso e per aiutarsi bevve un whisky o due. Risultato: appena salì sul palco fu colto da un'amnesia totale. Del testo che avevano scritto con tanta cura non ricordò più nulla. Così si mise a improvvisare, e in poche parole i due inventarono una scenetta che non aveva nulla a che fare con quello che avevano scritto. Ma nessuno (a parte noi) se ne accorse, e la gente si divertì ugualmente.

Su questo episodio, lascio la parola allo stesso Enzo Burroni: La scenetta preparata con il buon Gigia fu da me completamente dimenticata, dietro le quinte feci in tempo a svuotare quasi una bottiglia di "Vecchia Romagna"; da lì l'amnesia che mi colpì... Mi ricordo anche una scena dove entravamo io e Gigia in bicicletta; lui faceva la donna e aveva uno scialle di lana in cui rimase impigliato il bottone del mio cappotto, al momento di scendere dalla bici fu un dramma. Il bello era che sembrava tutto preparato mentre l'effetto comico che ne sortì era del tutto imprevisto, il pubblico rideva di gusto e questo era quello che volevamo...

L'altro ricordo è riferito direttamente al Maestro Ventura. Nel primo spettacolo, nell'introduzione doveva apparire sul palco vestito da Befana, con una scopa tra le gambe, e cantare una canzoncina. Lui cantava la strofa, poi il ritornello lo facevamo tutti in coro.

Sì sa che il Maestro Ventura era un amante del Vecchia Romagna. Quella sera probabilmente esagerò, così quando salì sul palco era più di là che di qua. Maldifassi suonò l'introduzione, poi lui attaccò a cantare. Completamente fuori tonalità. Mentre lui cantava imperterrito in una tonalità tutta sua, il buon Fulvio tentava disperatamente di trovare quale tonalità fosse, ma senza riuscirci. Per fortuna sul ritornello entrammo noi e salvammo in corner la situazione.

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Ma sono tanti i ricordi divertenti che mi tornano alla mente. Ne cito alcuni (non è detto che più avanti non ne aggiunga altri, magari su suggerimento di qualcuno degli “interpreti” di allora).

I pompieri di Viggiù. Una celebre canzoncina che risaliva agli anni d'oro della rivista, e che interpretammo in coro, con dei copricapo da pompiere in cartone costruiti da Bruno Muzzi (questa me l'ha ricordata Gabriella Messori).

Il cavallo Panigali. Era uno dei protagonisti di una celebre scenetta del Maestro Ventura (tutta in rima baciata). Fu interpretato da Bruno Muzzi e Claudio Maran (se la memoria non mi inganna), che dopo estenuanti prove riuscirono a muoversi all'unisono sotto al manto del cavallo.

Gli spettacoli si chiamavano “Viene viene la Befana” (il primo) e “Siam tornati dopo un anno (senza fare nessun danno)” (il secondo), e ci divertimmo tantissimo a farli. Il teatro in entrambe le occasioni era pieno, e la gente se ne andò soddisfatta per aver trascorso una serata diversa dalle solite.


 
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I murales di Pino Napoli

Post n°12 pubblicato il 05 Novembre 2015 da claudio_tiny

Pino Napoli era un pittore che lavorava a Pavia, anche se era di origine meridionale (calabrese, mi pare). Non so come sia capitato alla Maruska, forse vi fu portato da un amico di amici, oppure vi arrivò per caso.

Comunque sia, una sera era lì con noi e si parlò di tante cose, di politica, di cultura, di possibili iniziative da organizzare. In breve saltò fuori l'idea di organizzare la realizzazione di un murale. Lo spazio prescelto fu quello della parete esterna che delimitava il cortile e lo divideva dagli orti che si trovavano al di là.

L'idea inizialmente parve fin troppo ambiziosa. Non è che fra di noi abbondassero gli artisti del pennello. Ma Pino Napoli conosceva delle tecniche facilitare il lavoro di pittura, serviva solo un po' di buona volontà e di abilità manuale.

Si decise di organizzare la cosa per una domenica. Nei giorni precedenti la parete prescelta fu intonacata e ridipinta di bianco, in modo di essere pronta per accogliere il murale.

Quel giorno si pranzò alla Maruska, tutti insieme, ma già dal mattino iniziarono i lavori preparativi. Lentamente il dipinto prese forma (c'era, se non ricordo male, anche una riproduzione parziale di Guernica di Picasso), e rimase in bella mostra per diversi anni, finché il tempo e le intemperie lo fecero sbiadire.

Galvanizzati dall'ottimo esito di quell'iniziativa, si decise allora di ripeterla, ma più in grande. Venne quindi organizzata un nuovo evento, ma stavolta non più dentro alla Maruska, bensì in Piazza Zanotti, al centro del paese.

Venne montato un grande palco, sopra al quale fu issato un enorme pannello di compensato o di panforte, imbiancato ad arte, sul quale sarebbe stato dipinto un nuovo murale. Una decina di artisti improvvisati, sotto la supervisione di Pino Napoli, trascorse l'intero pomeriggio e buona parte della sera a dipingere e a stendere i colori su quella tela gigantesca.

Nel frattempo, il gruppo della Conca Rossa allietava i presenti con canti ed esibizioni di arte varia. Quella sera il gruppo era composto da: Claudio Tinivella al guitar-banjo, Dario Tinivella alla fisarmonica, Paolo Ventura alla chitarra, Walter Fontana alla chitarra a 12 corde, Claudio Canevari detto Jerry al flauto dolce. Le voci era di tutti, a turno, coadiuvati anche da Claudio Muzzi (in tenuta da Picasso, con un basco che gli dava un'aria molto artistica).

Di quella sera devo avere ancora da qualche parte un buon numero di fotografie (spero di ritrovarle e di poterle pubblicare). Quella che mi è rimasta impressa nella mente è la foto di gruppo finale, con una ventina o forse più di persone orgogliosamente in piedi sul palco, con alle spalle il magnifico murale ancora fresco di pittura.

Quel dipinto fu poi portato alla Maruska, e resto diversi anni appoggiato sul fondo del palco per l'orchestra. Poi fu spostato in qualche ripostiglio. Non so che fine abbia fatto, ma mi piace pensare che, nascosto da qualche parte, sia ancora intatto.

 

 
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Le pedalate nel Parco

Post n°13 pubblicato il 06 Novembre 2015 da claudio_tiny

Le attività della Maruska erano varie, di tanto in tanto saltava fuori qualche idea nuova e, se c'erano abbastanza persone interessate, le si metteva in pratica.

Tra le tante cose fatte, mi tornano alla mente alcune gite in bicicletta nel Parco del Ticino, che nei volantini di invito veniva chiamate "PedalARCI" (un banale gioco di parole per indicare che erano organizzate del Circolo ARCI "Maruska").

Si partiva in buon numero a metà mattina, portando con sè panini, bevande e tutto quello che poteva servire per un pranzo al sacco. Si scendeva dalla costa in direzione Zerbolò, poi da qui si andava a Parasacco e infine ci si inoltrava nei sentieri del Parco.

Ci faceva da guida Giuseppe Bogliani di Garlasco, botanico e profondo conoscitore della flora e della fauna della valle del Ticino.

Ricordo come le chiacchiere e le risate si smorzavano non appena ci addentravamo nel bosco, con Giuseppe che si fermava di tanto in tanto a mostrarci un certo tipo di felce, oppure un fiore tipico del Parco, e come ci si sentiva inebriati al respirare l'aria pura e incontaminata di quei luoghi.

Si proseguiva per qualche ora nei sentieri, poi ci si fermava in qualche spiaggia isolata del Ticino a riposarsi. Qualcuno particolarmente coraggioso faceva anche il bagno nel fiume, ma i più si limitavano a immergervi i piedi per rinfrescarli.

E poi via di nuovo, fiancheggiando lanche dall'acqua cristallina (c'erano zone ricchi di sorgenti), fino a che si arrivava alla Venara, dove ci si fermava a mangiare e a chiacchiere.

Nel pomeriggio si ritornava alla spicciolata, stanchi e felici per aver trascorso una giornata immersi nella natura.

 

 
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Ricordo di chi non c'è più

Post n°14 pubblicato il 06 Novembre 2015 da claudio_tiny

Voglio qui inserire un breve ricordo di alcune persone che animavano la Maruska e che ci hanno lasciato, in molti casi prematuramente.

Inizio con il grande Angelo Giuserini, con cui ho combattuto epiche sfide a Truco,innumerevoli cantate e tante occasioni di divertimento. Di lui mi torna spesso in mente la canzoncina che cantava:

Tutti mi dicon Mario ma son Marino

vivo di cortesia ma son sincero

ho combattuto tanto sul Monte Nero

per liberar la Patria dallo straniero,

Chissà dove l'aveva pescata, quella canzone. Ho tentato varie volte di ritrovarne il testo completo, ma le mie ricerche non hanno dato esito. Anche su Internet non se ne trova traccia.

Ricordo poi fra i fondatori della Maruska: Luigi Ferrari detto Puskas, un finto burbero che a prima vista incuteva anche un po' di timore, ma che in realtà era un uomo buono e generoso, grande organizzatore e sempre pronto a darsi da fare per gli altri; per molti anni fu l'autentica colonna portante della Maruska, era lui che si occupava di trovare le orchestre, di pagare la SIAE, di andare a prendere le pellicole per il cinema, e in genere si occupava di tutte le faccebde burocratiche.

E poi c'era Ottavio Piran, detto Tato. Con lui non ho avuta una frequentazione assidua, ma lo ricordo in quanto fu colui (da quel che mi raccontarono) che trovò il nome "Maruska".

Poi il già citato Luigi Gatti detto Muciòn. Lui e i suoi risotti fecero la storia (culinaria) della Maruska,

E ancora: Ercole Bottiroli, che organizzava le Feste dell'Unità prima che ci fosse la Maruska, e che anche in seguito dopo contribuì significativamente all'organizzazione degli eventi..

Maurizio Zaninello, che per alcuni anni fu il presidente del Circolo ARCI.

Angelino Centenari, produttore dell'Amaro Centenari, che attentò alla vita di alcuni di noi nel corso di settimane invernali durante le quali inventaò cockail mai visti. Si dovette costringerlo a smetterla, dopo che iniziarono ad apparire macchie preoccupanti sulla pelle di coloro che assaggiavano quei cocktail.

L'Elvira (non serve il cognome per ricordarla, chi l'ha conosciuta non può confonderla con nessun altra...). Abitava proprio accanto alla Maruska, ed era sempre la prima ad entrare: non appena chi era di turno apriva il bar, lei si presentava alla porta ed entrava. Sembrava fosse lì ad aspettare solo di sentire il rumore della chiave nella toppa...

Infine, mio fratello Dario Tinivella, grande musicista e ricercatore spirituale, che una tremenda malattia ci ha portato via quando aveva ancora tanto da dare alla vita. Con lui è come se fosse morta una parte di me. Mi manca ogni giorno di più, e anche se di tanto in tanto ricomincio a suonare la chitarra, non riesco più a farlo con la stessa gioia che provavo un tempo.

Sicuramente dimentico molti altri, ma questi sono quelli che mi tornano in mente con più forza. Se qualcun altro vorrà integrare questo elenco, può suggerirmi i nomi da aggiungere, e io lo farò.

 

 
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La Festa Nazionale dell'Unità

Post n°15 pubblicato il 07 Novembre 2015 da claudio_tiny

Un appuntamento fisso del calendario annuale della Maruska era la gita alla Festa Nazionale dell'Unità, che si teneva ogni anno in una città diversa (ma quasi sempre al centro-nort, Emilia o Toscana) nei primi quindici giorni di settembre.

In genere si organizzava un pullman, che partiva da Gropello la domenica mattina molto presto, e si arrivava alla festa quando ancora non era del tutto aperta. Siccome il sabato sera gli spettacoli e le altre attività proseguivano a fino a notte inoltrata, i compagni che vi lavoravano (gratuitamente, è bene ricordarlo: molti di loro prendevano le ferie apposta per poter dare una mano a far funzionare la festa), alla domenica mattina gli addetti agli stands se la prendevano comoda, e aprivano dopo le dieci.

Noi arrivavamo in compagnia, ma subito ci sparpagliavamo. C'era chi, preoccupato di dover fare la fila ai ristoranti, andava a piazzarsi davanti agli ingressi quando ancora le cucine non erano state accese (chissà perché, c'era sempre chi aveva paura di non trovare posto per il pranzo…). Altri invece iniziavano a esplorare gli stands, approfittando del fatto che essendoci ancora poca gente si poteva vedere tutto con più tranquillità.

Per chi non avesse mai avuto l'occasione di partecipare a una di queste feste, ricordo come era organizzata: c'erano stands specializzati (ristoranti, sia italiani – suddivisi per cucina regionale – che stranieri, in genere collegati ai paesi “fratelli”, quelli che all'epoca venivano chiamati “paesi socialisti”); poi c'erano gli stands che vendevano dei prodotti specifici (in particolare, era sempre presente una libreria enorme, dove si trovavano libri che difficilmente si potevano trovare nelle librerie cittadine), spazi dedicati ai dibattiti, e altri per attività all'aria aperta (concerti, oppure attività sportive). Il tutto era gestito da volontari, ovviamente tutti militanti del PCI.

Di quelle gite, ricordo molti episodi curiosi e divertenti. E molti di questi riguardano, immancabilmente, il buon Enzo Burroni.

Una volta, si andava a Modena, e mia sorella Laura (sua moglie) aveva preparato un thermos pieno di caffè da bere durante il viaggio. Ci fermammo in un autogrill, e non so come avvenne ma Enzo si versò addosso buona parte del contenuto di quel thermos. Arrivati alla festa, la prima cosa che fu cercare uno stand che vendesse delle magliette. Trovò quello dove vendevano magliette del Cile, con scritto “Venceremos!” e con l'immagine del pugno chiuso. La comprò e la indossò subito, e per tutto il giorno girò con quella maglietta.

La cosa ancora più divertente è che, tornati a casa, mia sorella lavò la maglietta, che essendo di qualità perlomeno discutibile si restrinse di parecchio, così che Enzo non ci entrava più. Allora la fece indossare alla loro figlia Marta, che andò all'asilo (dalle suore!) con addosso la maglietta con scritto “Venceremos!”.

Un altro episodio raccontatomi da mia sorella (purtroppo non ero presente di persona, mi son perso una scena divertentissima) ha come protagonista Claudio Muzzi. Erano insieme Muzzi con sua moglie Clara, Enzo e Laura. Arrivarono a uno stand preparato per i dibattiti, ma in quel momento deserto. Visto che erano stanchi, si sedettero per riposare. Muzzi ebbe la geniale idea di andarsi a piazzare dietro al banco dell'oratore. Si sedette e iniziò a parlare in una specie di spagnolo maccheronico. La gente che passava si fermava incuriosita, molti entrarono e si sedettero ad ascoltare, ma poi si guardavano attorno attoniti, perché non riuscivano a capire cosa diavolo stesse dicendo quel tizio dietro al banco. In tutto questo, Muzzi continuava imperterrito il suo comizio in italiano spagnoleggiante, in tono serio, come se stesse veramente dicendo delle cose importanti. Peccato non esser stato presente.

In quelle feste, un punto di ritrovo praticamente obbligato era lo stand della DDR (Germania Est, ormai – fortunatamente – scomparsa): ci si andava perché avevano della birra dannatamente buona, e te la davano in boccali abbondanti. A servire i clienti c'erano sia dei compagni italiani che dei tedeschi arrivati appositamente dalla DDR, e che per noi si chiamavano tutti Helmut! Quanta birra abbiamo bevuto in quello stand! E posso tranquillamente assicurare che a quei tempi di birra così buona in Italia non se ne trovava.

Quando veniva l'ora di pranzo, poi, era un dramma. Tutti i ristoranti erano presi d'assalto da mandrie di affamati capaci di divorare qualsiasi cosa fosse anche solo vagamente commestibile. Ovviamente, i ristoranti italiani erano quelli più affollati (se volevi mangiare a un'ora decente dovevi metterti in fila alle undici del mattino!), così si finiva spesso per mangiare in ristoranti tipo quello ungherese (dove servivano dei gulash che a me non facevano impazzire!) o quello tedesco (bistecche alla Turingia per tutti!). I più coraggiosi si avventuravano nel ristorante cubano, oppure in qualcuno ancora più esotico.

Al pomeriggio si faceva un breve riposino (magari sdraiati su un prato, a godersi il sole settembrino), poi via di nuovo a camminare. Si arrivava alla sera con le gambe che dolevano per la stanchezza. Verso le otto si raggiungeva il parcheggio dei pullman per il rientro, stanchi ma felici.

Alcune volte invece di andarci in autobus ci andammo in campeggio, partendo il venerdì e tornando la sera. In quegli anni si aveva più tempo per godersi la festa, la si girava con più calma, e la si gustava di più. Ma si perdeva il piacere dell'andare in gruppo, di condividere l'esperienza con tutti i compagni.

 

 
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I tempi della Maruska

Post n°16 pubblicato il 09 Novembre 2015 da claudio_tiny

Quanto tempo durò la Maruska? Circa una ventina d'anni: venne aperta fra il 1971 e il 1972 (ma su questo non ho certezze: se qualcuno ha informazioni più precise può comunicarmele, e io aggiornerò questo testo) e chiusa nel 1991.

Ironia della sorte, la persona che materialmente chiuse per l'ultima volta la porta del locale fu un democristiano che non l'aveva mai frequentato (se non negli ultimissimi giorni): Maurizio Comelli. Fu lui stesso a chiedere di aver l'onore di quel gesto simbolico, che metteva fine a un'epoca.

Ma già da diversi anni la Maruska aveva perso (come si diceva allora in perfetto "politichese") la sua spinta propulsiva. Sopravviveva, con sempre meno gente a frequentarla e facendo due o tre attività all'anno. Le energie dei vecchi iscritti (quei pochi rimasti) si erano quasi esaurite, e di giovani non se ne vedevano. Era mancato il ricambio generazionale, per ragioni non tutte imputabili a chi aveva gestito il circolo.

Cos'era successo dunque? Per prima cosa, gli anni Settanta erano finiti come peggio non si poteva: prima le BR e gli Anni di Piombo, con il loro carico insopportabile di morti innocenti; poi il riflusso, il ritorno al privato che aveva allontanato molti dall'impegno sociale; infine, l'avanzare di un ceto politico composto da faccendieri e arrampicatori che lentamente, come un cancro, si diffuse un po' in tutti i partiti, trasformandone la natura e le finalità. A ciò si aggiunga la stanchezza di molti che avevano tirato la carretta per anni, e altri che si erano ritrovati con impegni di lavoro o familiari che gli lasciavano sempre meno tempo per altre attività.

Il risultato fu che a poco a poco la Maruska divenne un circolo esclusivo di poche persone, sempre quelle, con sempre meno entusiasmo e voglia di fare.

Ma credo che in fondo sia il percorso naturale di ogni entità vivente: dapprima una crescita rapida e rigogliosa, cui segue un periodo di stagnazione, poi un lento declino e infine la morte.

La Maruska seguì alla lettera questo percorso: dagli anni d'oro in cui gli iscritti e i frequentatori aumentavano continuamente, fino a farci credere di poter sopportare carichi di lavoro troppo gravosi per le nostre spalle, a una lenta stagnazione, e poi a un declino inesorabile che si concluse nella chiusura del locale (va comunque detto che la chiusura non fu per scelta, ma in quanto i proprietari del terreno avevano deciso di venderlo; non fosse stato per quello, però, la chiusura sarebbe stata solo rimandata di poco).

Quando ripenso a quei vent'anni, i ricordi mi sommergono, e faccio fatica a metterli in ordine. Sembra che in quegli anni siano successe così tante cose che è impossibile ricordarle tutte. Eppure ricordo anche molte serate di noia, pomeriggi domenicali in cui il tempo non passava mai e non si trovava nulla da fare.

Forse è solo la memoria che confonde tempi e luoghi, abbellisce dei ricordi e ne nasconde altri. O forse è il rimpianto di un'epoca che non ritornerà, l'epoca dei nostri vent'anni, quando noi e l'Italia eravamo più giovani e avevamo (o pensavamo di avere) un milione di opportunità da esplorare.

Poi la vita ci ha costretto a fare delle scelte, e ben poco di quello che speravamo si è realizzato. Ma in fondo è giusto così, la vita è una maestra severa ma imparziale, e le sue lezioni ci costringono ad affrontare la realtà e i nostri limiti.

È passato quasi un quarto di secolo dalla chiusura della Maruska, c'è un'intera generazione che non l'ha vissuta e probabilmente non ne sa nulla. Magari conoscono soltanto il nome della via che un tempo portava fino a lei, e che è stata chiamata (in suo onore, presumo) Vicolo Maruska. Leggendo quel nome chissà quante volte si saranno chiesti cosa significa, e da dove arrivi. Ecco, queste poche pagine di ricordi tentano di comunicare a loro, e ad altri che all'epoca non vivevano a Gropello, almeno una vaga idea di cosa sia stato e cosa abbia rappresentato per molti di noi quel locale.

E per quelli che invece hanno avuto la fortuna di conoscerlo e frequentarlo, questi ricordi serviranno forse per riportare alla memoria frammenti di vita ormai irrecuperabili, i volti e i nomi delle persone che se ne sono andate, e almeno una pallida eco delle passioni e degli ideali che in quegli anni ci fecero battere forte il cuore.

 

 
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