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I pilastrini nell'Appennino faentino: geografia del sacro e spazio della memoria

Post n°7 pubblicato il 02 Dicembre 2008 da foschir

L’appennino tosco-romagnolo, è uno spazio
connotato dalla peculiare distribuzione di testimonianze di religiosità
e sacralità spesso semplicisticamente bollate come religiosità
popolare. Se ad un primo sguardo le aree di montagna, appaiono povere
di tutte quelle testimonianze monumentali che siamo soliti associare al
sentimento religioso, e che divengono facili tappe di percorsi
storico-artistici, una osservazione più attenta ci mostra un ambiente
ricchissimo di tracce individuali e collettive del complesso rapporto
con il sacro.


Diffusi solo in modo apparentemente caotico,
edicole, maestà, pilastrini, madonnelle e croci isolate, portatrici di
epigrafi, dedicazioni, icone, fotografie, simboli sacri, tramano e
raccontano una realtà fatta relazioni, memorie, leggende di fondazione,
eventi, ed azioni rituali, di estremo valore. Se da una prospettiva
artistica appaiono elementi poveri e di scarso valore, nell’ottica di
una lettura etno-storica ed antropologica si pongono come testimoni
irrinunciabili di un costruzione del territorio al contempo individuale
e collettiva, e catalizzatori di una serie complessa di beni culturali
di tipo immateriale afferenti alle categorie etno-antropologiche. Spazi
umili, distribuiti tra campagne e piccoli borghi, tra strade e
sentieri, solo apparentemente abbandonati, ad un secondo sguardo,
appaiono al visitatore come tracce misteriose di un legame intimo e
viscerale con il territorio.

L’area dell’Appennino faentino è un
territorio connotato da una estrema frammentazione abitativa,
costituito da una miriadi di piccoli insediamenti: parrocchie, borghi,
casali isolati, che sebbene riuniti sotto il medesimo comune, si
ritrovano indipendenti sotto molti aspetti festivi e rituali, fino ad
arrivare ad una moltiplicazione persino degli spazi cimiteriali. In
questo spazio privo di un vero centro, anche le testimonianze del sacro
appaiono moltiplicarsi in tanti piccoli spazi poco appariscenti e
concretizzarsi attraverso l’esposizione e l’apposizione di targhe ed
immagini dal molteplice significato e valore. Targhe di Madonne e di
santi dalle varie iconografie (1) , si trovano abbondanti sopra le
porte d’ingresso o all’interno delle case, nelle stalle e negli
stalletti, poste a protezione degli animali, a carattere propiziatorio;
ma soprattutto in campagna, negli spazi di lavoro, esterni all’abitato,
atte a propiziare il soccorso della vergine o dei santi. E’ qui che in
modo particolare con la loro presenza ritmano l’apparenze uniformità
dello spazio: commemorano e tracciano memoria delle vie processionali o
pellegrinali di vecchi o nuovi santuari, ricordano particolari eventi
miracolosi o epifanici, esorcizzano il luogo di una mala-morte, si
pongono a confine dei territori (2) o lungo vie percorse dai rituali
legati alle rogazioni (3) .


In modo silenzioso lo spazio extra-urbano appare quindi tramato da una
particolare geografia del sacro, in cui i confini dei campi, gli
incroci, i ponti, alcuni alberi monumentali (4), sono contraddistinti e
protetti da queste piccole costruzioni dalle molteplici denominazioni:
edicole, maestà, altarini, verginelle, pilastrini, tabernacoli,
cappelle, mistadelli. Una tale geografia, fatto di piccole spazi sacri
è in parte da ricondursi alla peculiare economia mezzadrile che da
alcuni secoli connota queste zone, e che ha in passato radicato e
legato il mezzadro ad una dimensione fatta di micro-spazi. In tal senso
la vitalità di questi piccoli tabernacoli appare direttamente legata in
modo simbiotico alla cura di chi vi abita vicino; la targa o il
pilastro ha significato in quanto partecipa ad un rapporto di biunivoca
attenzione. Deve essere curato, tenuto, vi si piantano fiori, aiuole,
vi si appongono immagini, santini, offerte, in cambio questo si pone
come baluardo, spazio di comunicazione, ponte sacro, in un rapporto
privilegiato e quasi personale con il divino. Uno spazio altro dove
alberga una propria personale fetta di memoria e di devozione, ma che
partecipa al contempo ad una devozione pubblica, aperta verso il mondo,
legata ai pellegrinaggi o alle rogazioni(5) . Spesso frutto di una
volontà personale, di un voto o di una devozione, una volta eretto il
pilastro, entra a far parte di uno spazio pubblico e moltiplica il suo
valore ed i suoi significati. Una struttura architettonica,
testimoniata a prescindere dalle iconografie presenti, almeno dalle
seconda metà del 1500, che si lega a doppio filo con le sorti della
produzioni ceramiche (6) proprie del faentino, e rispetto alle quali si
pone come spazio valorizzante e cornice. Non si può fare a meno di
rilevare come la stessa fortunata storia delle produzioni ceramiche di
queste targhe si leghi in modo reciproco alla moltiplicazione di questi
spazi dell’immagine; le rappresentazioni iconografiche mariane e dei
santi si diffondono poi ad opera di frati questuanti, o del migrare dei
braccianti, che trasportando con sé le proprie immagini tutelari,
moltiplicano le devozioni intrecciandone i destini. Le testimonianze
storiche in questo senso sono emblematiche. Quasi tutti i santuari
della zona costruiti durante il ‘700 hanno per oggetto di devozione,
una di queste targhe ceramiche, che in origine erano poste su un
pilastrino o su di un albero lungo una via. E’ così per la Madonna del
Piratello di Imola, per il santuario della Madonna del Monticino di
Brisighella, o per il santuario di Rivacciola a Casola. Posti in
origine su pilastri, fuori dal paese, presso gli incroci, o su alberi,
queste immagini assommano su di loro una molteplicità di significati e
valori divenendo centro di particolari devozioni, spazi taumaturgici,
fino a trasformarsi in santuari. Spazi che finiscono per raccogliere su
di sé e definirsi in una miriade di storie ed eventi testimoniati e
rappresentati anche dalle raccolte degli ex-voto. Nonostante i molti
cambiamenti sociali verificatisi negli ultimi decenni, questa rete di
piccoli spazi sacri, sembra in buona parte ancora vitale, assolvendo
molte delle vecchie funzioni, e forse rispondendo anche a nuove
necessità. Dopo l’abbandono e la spoliazione di questi tabernacoli
avvenuta durante gli anni ‘60-’80, si assiste infatti oggi ad una
notevole opera di rifondazione e di nuove dedicazioni(7) . Le targhe
devozionali quando sono poste sulle case, hanno ancora un significato
di protezione e di aiuto per le persone che vi abitano; sugli alberi
molto spesso testimoniano una grazia ricevuta, uno scampato pericolo o
servono per invocare protezione sul sempre incerto frutto dei campi.
Nei pilastrini, in prossimità degli incroci, assicurano protezione a
pellegrini e viandanti, nell’ottica di una lettura del reale che vede
nell’incrocio di molte vie, uno spazio altro ed ambiguo, luogo dove si
danno ritrovo forze ambigue e notturne(8) , anime imprigionate sulla
terra a causa di una mala morte, morti che ritornano, stranieri dalla
natura ambigua(9) . I crocicchi sono in tal senso un topos classico
dello smarrimento, del disorientare, un pericolo di spaesamento dove il
perdersi assume valenze morali, e come tali moltissimi orizzonti
culturali hanno elaborato strategie che permettessero di superare
questa empasse dello spazio; l’apporre croci e pilastri nell’ottica
tradizionale cristiana, assume presso i crocicchi, questa funzione,
sacralizzando la scelta e l’ambiguità. In alcuni casi ricordano pure
avvenimenti miracolosi o pericoli scongiurati, o superati, sia in senso
individuale che collettivo, come nel caso della guerra. Altrettanto
viva è la pratica della dedicazione di spazi legati ad eventi luttuosi
improvvisi, in modo da creare un luogo di memoria e dialettica tra i
vivi ed i morti (10). Durante il mese di maggio è ancora uso recitare
il rosario e le litanie davanti a queste immagini della vergine adorne
per l’occasione di piccoli mazzi di fiori o di lumini. Gruppi di donne,
bambini, ma anche giovani, si riuniscono loro attorno e sono ancora
molti i ‘pilastrini’ o ‘maestà’ che mantengono viva la loro funzione di
luoghi aggreganti, ed anzi sono molti i segnali che sembrano indicare
un ritorno ad un uso sacrale di questi spazi eccentrici. Spesso anche
gli alberi ospitano sacre immagini o hanno una parte determinante nelle
leggende di fondazione correlate; solitamente si tratta di alberi
secolari, dove la presenza fisica diviene continuità metastorica,
aggancio con l’origine mitica del culto medesimo, simboli emergenti di
una natura che partecipa alla presenza etica e salvifica dei messaggi
epifanici. Grandi querce, castagni, aceri, sono portatori del ricordo
di antiche devozioni o contengono ancora fisicamente le effigi;
prestandosi a formare nicchie naturali, la cui stessa ‘naturalità’ si
pone ad ulteriore simbolo sacrale, proteggono e porgono al contempo le
immagini allo sguardo del viandante. Elementi quindi portatori di molte
memorie, proprio in quanto operanti un continuo rifluire tra pubblico e
privato, tra centro e periferia, e dove eventi rituali e motivi mitici
si intrecciano, dando vita e corpo ad uno spazio della memoria.

 
 

Note

 
(1) Le iconografie maggiormente diffuse nel territorio preso in
esame, cioè quello delle tre vallate del Lamone, Senio e Marzeno, sono:
Madonna delle Grazie (Faenza), Madonna del Monticino (Brisighelle),
Madonna del Buon Consiglio, Madonna del Piratello (Imola), Madonna del
Fuoco (Imola), Madonna di S. Luca (Bologna), S. Antonio Abate, S.
Vincenzo Ferreni, S. Antonio da Padova, S. Cristoforo, S. Martino.


(2) L’importanza del termine – terminus o pietra di fede, nel senso
latino di riferimento, (funzione che spesso i pilastrini assolvono nei
confronti dei confini di poderi o del territorio dei comuni), appare in
tutta la sua drammaticità in una credenza riferita da Michele Placucci
nella sua opera del 1818 : “In caso di lunga agonia di un moribondo, è
opinione scioccamente che mentr’egli era sano abbia levato un termine,
ossia un segnale di confine nel fondo del padrone e che in pena di tale
mancanza non possa morire…”


(3) Segno multisemantico, questo spazio traccia al contempo via e
confine restando anche faro di protezione individuale. Un medesimo
topos spaziale si trova così ad assumersi ed assolvere una molteplicità
di funzioni protettive sia pubbliche che private, ritma lo spazio
indistinto e si preoccupa di configurarsi come polo della memoria
collettiva. E’ un orientamento tout court. E’ espediente per evitare
l’incontro con il male percepito come disordine, un disordine che
potrebbe impigliarsi presso il crocicchio, l’incrocio delle strade; ma
è proprio grazie a questo elemento architettonico che li si sedimentano
vissuti e memorie.


(4) Il pilastro stesso si pone come il luogo dove traslare l’immagine
dall’originale sistemazione arborea, e si configura come albero
artificiale, costruito, e che in quanto tale, frutto del lavoro
congiunto della mano umana e dell’intervento divino, sancisce un ordine
metastorico e diviene terminus fidelis.


(5) Sorta di axis mundi, il pilastro trafigge lo spazio e si pone come
centro della cellula territoriale che sottende, invisibile polo che
unisce il cielo alla terra: il mondo dei vivi con il mondo dei morti,
diviene valvola di emersione di queste emergenze, diviene una certezza
di riuscire a padroneggiare il divenire.


(6) Faenza ha fornito targhe devozionali a tutta la romagna dal XVII al
XIX secolo. A tutt’oggi molte cooperative sia a Faenza che ad Imola ne
producono ampio campionario mantenendo anche gli antichi stampi ed
incaricandosi della sostituzione nel territorio le effigi trafugate.

(7) “Una tradizione si rinnova a Zello: in occasione della
annuale processione il parroco di Zello ha inaugurato e benedetto il
cippo con l’immagine della Madonna del Buon Consiglio venerata nella
chiesa di Zello. Si tratta di un vecchio tronco cavo posto in via
Montevecchi, i cui residenti hanno incastonato una ceramica
raggigurante la beata vergine. Il parroco nel complimentarsi con coloro
che hanno realizzato l’opera si è augurato che simili iniziative
possano diffondersi per rinnovare vecchie tradizioni delle nostre
campagne”: Nuovo diario Messaggero, Imola, 31 maggio 2003.


(8) Molte sono in tal senso le testimonianze entrate nell’immaginario
della zona. Come quelle raccolte da V. Tonelli per l’area di Sarsina:
“Non molto lontano a Tombette di Linaro, una donna vestita di nero
sbarrò la strada a un garzone di nome Scrichet, che incautamente aveva
nominato il diavolo; ma rinunciò ad inseguirlo, volando oltre la siepe,
quando la vittima si rifugiò, col segno della croce, dietro una edicola
della Madonna. Successivamente, il garzone veniva di tanto in tanto
impaurito, sulla strada di S. Romana, da un cagnolino, che lo
accompagnava diventando sempre più grosso, sino a scomparire del tutto
preso le chiese e al mistedi.” V. Tonelli, Il diavolo e l’acqua santa,
La Mandragora, Imola, 1989, pp.111-112


(9) la notte in modo particolare è il tempo incoerente dove l’ordine
morale della luce, e dell’orientamento viene meno, quindi tempo della
visione, dove le sfere tra i vivi ed i morti sono più prossime.


(10) Un luogo dove l’affermarsi della resurrezione del corpo permetta
di superare lo scandalo di una morte improvvisa che potrebbe connotare
negativamente quel luogo.

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