Truncare sas cadenascun sa limba e sa cultura sarda - de Frantziscu Casula. |
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Messaggi di Novembre 2015
Post n°846 pubblicato il 20 Novembre 2015 da asu1000
Università della terza Età di Quartu sesta Lezione 25-11-2015 Presentazione del testo [...] Tengu finzas bregungia Note |
Post n°845 pubblicato il 13 Novembre 2015 da asu1000
Università della Terza Età di Quartu 5° Lezione di Francesco Casula SIGISMONDO ARQUER Lo scrittore vittima dell'Inquisizione e condannato al rogo in Spagna (1530-1571) Sigismondo Arquer nasce a Cagliari nel 1530, studia teologia e legge nell'università di Pisa dove nel maggio del 1547 consegue la laurea in Diritto civile e canonico, mentre nell'università di Siena si laurea in Teologia. Tornato in Sardegna diviene avvocato del fisco a Cagliari. Nel settembre del 1548 lascia di nuovo l'Isola per recarsi presso il re Carlo I (Carlo V imperatore) a Bruxelles, a perorare la causa della sua famiglia alla quale erano stati posti sotto sequestro i beni. Durante un breve soggiorno a Basilea, su invito di Sebastian Münster, geografo, cartografo e di fede luterana presso il quale era ospite, scrive una monografia sulla Sardegna Sardiniae brevis historia et descriptio, cui era allegata una carta dell'isola e una veduta di Cagliari (Tabula corographica insulae ac metropolis illustrata), che viene inserita nella Cosmografia scritta dallo stesso Münster. La parte composta dall'Arquer fu pubblicata nell'edizione del 1550, ma la stesura più nota in Italia è quella del 1558, riportata nelle Antiquitates Italicae Medii Evi di Ludovico Muratori. Il libro dell'Arquer sulla Sardegna fu inserito anche da Domenico Simon, insigne giurista e letterato algherese del secolo XVIII, nel suo Rerum Sardoarum Scxiptores, stampato a Torino nel 1778. Sulla figura dell'Arquer scrissero, tra gli altri, anche gli storici sardi Pasquale Tola, Pietro Martini e Giuseppe Manno. La Breve storia della Sardegna, rappresenta la più antica descrizione dello stato e dei problemi dell'Isola in cui l'Arquer traccia anche un ritratto censorio del corrotto clero del tempo. La descrizione che egli presenta della condizione dei religiosi cagliaritani dell'epoca non è diversa da quella che espose nel 1562 l'Arcivescovo Antonio Parragues de Castillejo, ma per tale censura l'Arquer incorse nelle ire dell'Inquisizione spagnola, è accusato di luteranesimo e incarcerato a Toledo nello stesso anno 1562. Riesce ad evadere, ma non può uscire dalla Spagna perché vengono inviate a tutte le frontiere le indicazioni sulla sua persona, per cui è imprigionato una seconda volta. L'Arquer sostiene appassionatamente la sua innocenza ed in carcere scrive un'autodifesa in lingua castigliana, la Passione. Il poema -che segna l'inizio della drammaturgia religiosa in Sardegna- si compone di 45 strofe, ognuna delle quali comprende dieci versi ottosillabi con rima assonante mista, ossia baciata e alternata. Il manoscritto del poema sulla Passione fu rinvenuto nel 1953 fra le carte del processo a carico di Arquer presso "l'Archvio Historico Nacional" di Madrid da Francesco Loddo e Alberto Boscolo, studiosi di storia sarda, durante un loro viaggio nella capitale spagnola, che lo pubblicarono nel volume XXIV dell'Archivio storico sardo. Nel poema l'Arquer esalta la passione di Gesù Cristo così simile alla sua, ma i suoi nemici cagliaritani, tra i quali vi erano gli Aymerich e gli Zapata, intrigheranno contro di lui raccogliendo prove tali da accelerarne la fine. Egli sosterrà sempre la propria innocenza ed anzi si dichiarerà martire della vera fede, schernendo quegli stessi ministri del culto che lo esortavano al pentimento. Per questo, durante il terribile "auto da fé" (l'espressione deriva dal portoghese e significa atto della fede), ossia la proclamazione pubblica della sentenza, lo si metterà alla sbarra prima che venisse addossato al palo, ed i carnefici vedendo che non solo non si pentiva ma che anzi esaltava il suo martirio, lo trafiggeranno con le lance e lo getteranno poi nel rogo degli eretici. Così morirà nel il 4 Giugno del 1571 a Toledo, dopo sette anni e otto mesi di detenzione. La sua figura "assai complessa e conflittiva e di dimensione europea" -la definisce Marcello Maria Cocco, studioso dell'Arquer- e la sua opera, ignorata dagli scrittori sardi contemporanei e pressoché sconosciuta fino alla metà del '700, quando ne parlerà Ludovico Muratori- verrà riscoperta e riproposta nell'800 con un triplice atteggiamento nei suoi confronti: di compassione per la sua tragica fine; di indispettita disapprovazione per le sue critiche impietose formulate nella Sardiniae brevis istoria; di ammirazione per la incisività e la concisione della sua prosa ma soprattutto per il sacrificio della sua vita che segna il trionfo della libertà di coscienza. Lo storico Dionigi Scano, autore dello studio più ampio sull'Arquer, sostiene che il luteranesimo non fu che un pretesto di cui si servì la classe nobiliare cagliaritana per disfarsi di un terribile avversario. E sarebbe dunque la Cagliari della prima metà del '500, con i suoi odi e le lotte intestine a segnare la fine drammatica di Sigismondo Arquer.
Presentazione del testo [tratto dal cap. VII dell'opera Sardiniae brevis historia et descriptio, testi, traduzione e note a cura di Cenza Thermes, Ed. Gianni Trois, Cagliari 1987, pag.30]. L'opera scritta da Sigismondo durante il soggiorno basileense dal 21 Aprile al 5 Giugno del 1549, è un brevissimo saggio di 12 pagine articolato in sette paragrafi, redatto in un latino di rara raffinatezza, chiaro, semplice ed elegante. Si tratta di un'opera informativa più che storica da cui emerge un agile ritratto della Sardegna del tempo, corredato da buone illustrazioni quali la carta dell'Isola, la riproduzione del muflone e la pianta schematica di Cagliari. Poche pagine ma fitte di notizie, spesso di prima mano, di giudizi critici su alcune credenze superstiziose, di indagini sui problemi della lingua dei sardi, che confronta con il catalano e il latino, portando ad esempio una trascrizione del Pater Noster in queste tre lingue. Particolarmente interessanti il quadro che offre della fauna della Sardegna, le informazioni sulle terme, sulle miniere, sulle saline. Più discutibili invece le brevi note sulle antiche vicende storiche che si rifanno alle fonti classiche, che affondano abbondantemente le loro radici nelle leggende e nei miti. Non manca un accenno alla validità e bontà della Carta de Logu di Eleonora d'Arborea, la Costituzione della Sardegna in vigore dal 1392 e nel capitolo VII, un quadro, riportato nel testo, che riguarda le magistrature, le condizioni della religione, della cultura, della morale in genere nonché delle condizioni economiche che si riflettono nell'uso del vestiario più o meno di lusso. Il "librillo" -così lo chiama l'autore- è privo di organicità e anche piuttosto frammentario tanto che l'Arquer, conscio dell'incompletezza, ci fa sapere che nutre il proposito di scrivere una più completa storia dei Sardi, "Si dominus requiem e ocium dederit" (Se il Signore ci darà pace e tempo libero). Pace e tempo libero che purtroppo gli mancarono. In ogni caso La qualità intrinseca dell'opera, unita al prestigio della collocazione nella quale apparve, fanno della Sardiniae brevis historia et descriptio una pietra miliare nel panorama delle lettere isolane, anche perché si tratta dell'archetipo di una serie di scritti del genere letterario storico-descrittivo, destinato ad affermarsi con i secoli nella cultura isolana.
DE MAGISTRATIBUS, INCOLARUM NATURA, MORIBUS, LEGIBUS ET RELIGIONE "[...] Ecclesiastici magistratus in Sardinia sunt constituti iuxta papae decreta. Nam sunt in ea tres archiepiscopi, nempe Calaritanus, Arborensis et Turritanensis seu Sassarensis, qui et nonnullos sub se habent episcopos. Est quoque ibi inquisitor generalis contra haereticos, apostatas et maleficos, secundum Hispaniae mores et constitutiones, ultra ea quae iure communi Imperatorum et pontificum inquisitoribus sunt concessa. Habet iste immensa privilegia, nec quenquam praeter Hispaniae supremum inquisitorem, cuius est delegatus, agnoscit superiorem in Sardinia. Constituit ipse quoque sub se alios inquisitores et ministros, quorum omnium iudex ipse est, qui tanta severitate contra suspectos procedunt, ut paucis verbis exprimi nequeat. Nam miseros homines multis annis in carcere detinent, examinant et torquent priusquam eos vel damnent vel absolvant. Habent autem de his rebus libros impressos, ut Malleum maleficarum, Directorium inquisitorum et nonnullos alios, item instructiones secretas et multa alia quae ex ipsorum pendent arbitrio. Habent praeterea Sardi et Cruciatae commissarium, qui nullum praeter Romanum pontificem agnoscit superiorem, etc. Caeterum quantum attinet ad mores et naturam Sardorum, noveris eos esse corpore robustos, agrestes et laboribus assuetos, praeter paucos luxui deditos: literarum studio parum sunt intenti, venationi autem deditissimi sunt. Multi pecuariam faciunt rem, agresti cibo et .aqua contenti. Qui in oppidi et villis habitant, pacifice inter se vivunt, advenas amant, et humaniter tractant. Vivunt in diem, vilissimoque vestiuntur panno. Bella nulla habent, neque multa arma. Et quod mirandum est, nullum habent artificem in tam ampia insula, qui enses, pugiones et alia fabricet arma, sed haec petunt ex Hispania et Italia. Utuntur plerunque balistis, maxime in venationibus. Et si quando piratae, Turcae aut Afri illuc veniunt praedam abacturi, facile a Sardis in fugam vertuntur aut captivi detinentur. Sunt Sardi optimi equites, sunt ob solis ardorem subfusci coloris, vivunt bene secundum legem naturae, optime victuri, si sinceros haberent verbi Dei praecones. Cum rustici diem festum alicuius sancti celebrant, audita missa in ipsius sancti templo, tota reliqua die et nocte saltant in templo, prophana cantant, choreas viri cum foeminis ducunt, porcos, arietes et armenta mactant, magnaque laetitia in honorem sancti vescuntur carnibus illis. Sunt etiam multi qui pecus aliquod saginant in honorem certi alicuius sancti, ut illud in fano eius potissimum in sylvis extructo, et festa die devorent. Et si familia minor fuerit ad esum pecoris, convocant et alios ad convivium illud quod in fano celebrant, ne quid residui maneat. Foeminae rusticorum valde honestae sunt in vestitu, omnem escludentes pompam at urbanae divitiis abundantes, abutuntur illis in magnam superbiam. Sacerdotes indoctissimi sunt, ut raros inter eos, sicut et apud monachos, inveniatur, qui latinam intelligat linguam. Habent suas concubinas, maioremque dant operam procreandis filiis quam legendis libris".
MAGISTRATURE, NATURA DEGLI ABITANTI, LORO COSTUME, LEGGI E RELIGION [...] Le cariche ecclesiastiche in Sardegna sono regolate secondo i decreti del Papa. Infatti vi si trovano tre arcivescovi, a Cagliari, Arborea e Torres o Sassari, i quali hanno sotto di sé alcuni vescovi. Vi è pure un inquisitore generale contro gli eretici, gli apostati e gli stregoni, come avviene in Spagna, al quale sono concessi altri diritti, oltre quelli che, per norma generale voluta dai re e dai papi, sono concessi agli altri inquisitori. Gode di grandissimi privilegi e non ha sopra di sé nessuno all'infuori del supremo inquisitore di Spagna, del quale è delegato. Nessuno in Sardegna può contare più di lui. Egli, per suo conto, nomina, come suoi dipendenti, altri inquisitori e funzionari, dei quali è giudice; costoro agiscono contro chi è sospettato, con tanta durezza che non è possibile accennarne solo con poche parole. Infatti, tengono in carcere per molti anni dei poveri infelici, e li interrogano e li sottopongono a torture prima di decidere se devono condannarli o assolverli. Hanno anche, per esercitare le loro funzioni, dei libri, come ilMalleum maleficarum, il Directorium inquisitorum e alcuni altri volumi. Inoltre hanno delle istruzioni segrete e molte altre disposizioni che interpretano secondo il loro personale giudizio. I Sardi hanno anche unCommissarium Crociatae, che non ha alcun superiore, oltre il pontefice, ecc. Infine, per quanto riguarda i costumi e la natura dei Sardi, dirò che essi son robusti, per lo più rudi e avvezzi alla fatica, all'infuori di pochi che si abbandonano al lusso; son poco dediti allo studio delle lettere, mentre amano moltissimo la caccia. Molti sono pastori e a loro bastano cibo agreste e acqua. Quelli che abitano nei borghi e nei villaggi, vivono tranquilli e sono ospitali e gentili; vivono alla giornata e vanno vestiti di poverissimo panno; non conoscono guerra ed hanno anche poche armi; ciò che è ancora più straordinario è il fatto che, in un'isola così vasta, non vi è chi fabbrichi spade, pugnali e altre armi; ma queste vengono dalla Spagna e dall'Italia. I Sardi si servono invece di frecce, soprattutto quando vanno a caccia. Ma se talvolta sbarcano nell'isola, per far preda, pirati turchi o africani, vengono subito volti in fuga dai Sardi o son fatti prigionieri. Gli isolani son ottimi cavalieri e di colorito bruno a causa del sole ardente; vivono onestamente, secondo le leggi di natura, e meglio vivrebbero se avessero degli onesti predicatori della parola di Dio. Quando i contadini celebrano qualche festa, dopo la Messa, per tutto il resto della giornata e della notte ballano -uomini e donne- dentro la chiesa del Santo, cantando canzoni profane; inoltre uccidono maiali, montoni e buoi e mangiano allegramente di queste carni in onore del Santo. Vi sono anche di quelli che ingrassano qualche maiale in onore di un santo, per poterlo poi mangiare durante la festa, spesso in una chiesina costruita fra i boschi. E se la famiglia non è tanto numerosa da poter consumare tutta quella carne, perché non ne avanzi, invitano altre persone al banchetto che si fa dentro la chiesa stessa. Le donne campagnole sono modestissime nel vestire che non ostenta lussi; ma le signore delle città, che son ricchissime, abusano del fasto e del lusso, ostentandoli superbamente. I sacerdoti sono ignorantissimi al punto che è raro trovarne tra essi, come tra i monaci, uno che conosca il latino. Vivono con le loro concubine e si danno con più impegno a mettere al mondo figli che a dedicarsi alla lettura. -De Sardorum lingua [testo tratto da Sardiniae brevis istoria et descriptio di Sigsmondo Arquer a cura di Cenza Thermes, Gianni Trois editore, Cagliari 1987, pag. 29] "Habuerunt quidem Sardi olim linguam propriam; sed quum diversi populi immigraverint in Insulam atque ab exteris principibus eius imperium usurpatum fuerit, nempe Latinis, Pisanis, Genuensibus, Hispanis et Afris, corrupta fuit multum lingua eorum, relictis, tamen plurimis vocabulis; quae in nullo inveniuntur idiomate. Latini sermonis aduc multa tenet vocabula, praesertim in Barbariae montibus, ubi Romani Imperatores militum habebant praesidia, ut L.ij.C. de officio praefecti prae. Afric. Hinc est quod Sardi in diversis locis tam diverse loquuntur, iuxta quod tam varium habuerunt imperium; etiamsi ipsi mutuo sese recte intelligant. Sunt autem duae praecipuae in ea Insula linguae, una. qua utuntur in civitatibus, et altera qua extra civitates. Oppidani loquuntur fere lingua Hispanica, Tarraconensi seu Catalana, quam. didicerunt ab Hispanis, qui plerumque magistratum in eisdem gerunt civitatibus: alii vero genuinam retinent Sardorum linguam,
La lingua dei Sardi Un tempo i Sardi ebbero una lingua propria, ma poiché nell'isola sopraggiunsero diversi popoli e la terra sarda fu dominio di signorie straniere, come quelle dei Latini, dei Pisani, dei Genovesi, degli Ispanici e degli Africani, la lingua ne rimase corrotta, sebbene tuttora vi si trovino moltissimi vocaboli che non esistono in nessun'altra lingua. Ci restano molte parole latine, soprattutto nei monti della Barbagia, dove gli imperatori romani stanziarono i loro presidi, come è detto nel libro II C. De officio prae. Afric. Da quanto ho detto precedentemente, ne è derivato il fatto che i Sardi, nei diversi luoghi, parlano lingue tanto diverse, a seconda dei dominatori; ma fra di loro si intendono bene. Nell'isola, due sono le lingue principali: una è quella usata nelle città, l'altra è quella usata fuori di esse. Infatti, nelle città si parla quasi dovunque la lingua spagnola, tarragonense o catalana, che gli abitanti hanno appreso dagli Spagnoli, che quasi sempre vi tengono i posti di comando; gli altri mantengono intatta la lingua sarda.
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Post n°844 pubblicato il 01 Novembre 2015 da asu1000
Ricordando, a 40 anni dalla sua morte, Salvatore Satta 1 novembre 2015 Francesco CasulaRicorre quest'anno il quarantesimo anniversario della morte di Salvatore Satta, accademico, giurista e narratore di vaglia, segnatamente per il suo capolavoro: Il giorno del giudizio. Esso pubblicato postumo, nell'anno stesso della sua morte, nel 1975, susciterà sconcerto e malcontento, soprattutto a Nuoro: in realtà si rivelerà una delle opere di più alto livello letterario che si siano mai state registrate in Sardegna. In pochi mesi venderà 60.000 copie e conoscerà subito decine di edizioni, sarà tradotto in 19 lingue e gli procurerà una vasta fama. Il romanzo ha finito così per rappresentare un caso letterario, una specie di Gattopardo sardo, come è stato definito, proprio perché maturato accanto e al di fuori delle tendenze narrative correnti. È infatti il prodotto di una scrittura letteraria raffinatissima e di una straordinaria libertà espressiva che traggono origine da una cultura umanistica e filosofica profonda e vastissima, un'opera che rappresenta davvero una grande e drammatica metafora dell'esistenza. Il progetto originario del romanzo prevedeva due parti: la prima in 22 capitoli è stata portata a termine, la seconda invece è rimasta incompiuta, conta appena una pagina. Nella prima parte ricapitola i termini di una storia individuale e collettiva mentre nell'unica pagina della seconda parte racchiude il breve ma compiuto monologo del narratore che traccia l'inventario dei motivi dai quali è stato spinto a evocare le vite dei personaggi e ripensa a ciò che quell'atto ha prodotto. Una sintesi da giudizio conclusivo, appunto, che coincide col racconto del dramma interiore di chi si è distaccato da un mondo con cui sente il bisogno di fare i conti nel tentativo, vano, di riappropriarsene. Il romanzo nasce - è lui stesso a scriverlo in alcune lettere - come "storia della famiglia che è la storia di Nuoro e della Sardegna, un'isola di demoniaca tristezza". Con questo romanzo Satta ha inteso narrare, in voce individuale, l'autobiografia collettiva di Nuoro nel passaggio fatale dall'arcaismo alla modernità. E la famiglia Sanna Carboni, nel passaggio da una generazione all'altra, fa da filo conduttore dell'intero romanzo. Una famiglia che, pur se rustica e a volte indistinguibile da quella dei pastori e dei contadini, costituisce pur sempre una borghesia in ascesa e straniata dalla vera realtà sarda (si pensi al fatto che Satta stesso trascorse quasi tutta la sua vita adulta in Continente). Ambienti e personaggi sono raffigurati con puntigliosità analitica e ogni asserzione ha il timbro di autenticità dell'esperienza vissuta anche se tutto è reinventato, reinterpretato, trasceso attraverso la memoria: che non è solo una ricostruzione del passato, e tanto meno l'allestimento di un museo di reliquie, ma piuttosto un ponte con il presente e con la propria coscienza del presente. Per prendere coscienza della propria identità è necessario infatti riconoscere il proprio coinvolgimento nel sistema di cui si fa parte. La morte effimera e insieme eterna: è il tema che attraversa tutto il romanzo ed è presente fin dall'incipit: con due dei suoi icastici, lapidari e fulminanti aforismi, "Nulla è più eterno a Nuoro, nulla più effimero della morte" e "La morte è eterna ed effimera in Sardegna non solo per gli uomini ma anche per le cose" Satta entra subito, per così dire, in medias res. Sono parole che colpiscono per la loro paradossale contraddittorietà, per quei due predicati fortemente antitetici, per gli ossimori che formano. Il romanzo è pervaso dunque dal senso della caducità che toglie ai personaggi consistenza, vigore, vitalità. Per Satta, uomini e cose, eventi e storia sono e devono rimanere effimeri e fuggevoli, transitori, precari e labili. La vita e la morte hanno questa tragica connotazione. C'è di più: il morire di un individuo è inteso non solamente come un distacco dalla sua fisicità, ma anche come una sua cancellazione definitiva dalla memoria dei vivi. La non presenza del defunto comporta e implica, più o meno progressivamente ma inesorabilmente, la sua non ricordanza da parte dei superstiti. E l'autore cita in questo passo, come esempio, la sorte delle sue nonne, quella paterna, di cui soltanto il cognome era rimasto nel timbro notarile di don Sebastiano e quella materna, il cui unico ricordo era un ritratto, scomparso poco dopo la sua morte, ma ormai nessuno sapeva più che fosse esistente. Nell'aforisma "la morte è eterna ed effimera..." sembra di avvertire qualcosa di cupo e di misterioso, un cupio dissolvi perentorio e oscuro: neanche la morte può avere un significato, o meglio deve deperire nel suo significato. Si delinea così una prospettiva infinita di caducità, in un tragico e chiuso orizzonte, senza speranza: "Donna Vincenza era una donna senza speranza". L'autore impiega il discorso indiretto uniformemente attraverso tutto il romanzo, con l'esclusione di alcune iniezioni autoriflessive su cui in prima persona si sofferma, quasi per rallentare il flusso della narrazione. Il discorso assume allora un andamento divagatorio e digressivo con un ricorso frequente a prolessi e analessi. Nel Giorno non c'è dunque che la voce del Satta, tutto il resto è silenzio. Silenzio assoluto dei personaggi e quindi assoluta mancanza di uno scambio di voci, di interazione di due espressioni, di sovrapporsi di due stili. L'io narrante volontariamente si sostituisce alle voci degli altri. In questo romanzo infatti l'interlocutore non esiste e di conseguenza non esiste la sua volontà. Allegoricamente, in un'operazione metalinguistica all'interno del testo, troviamo esemplificato quest'atto repressivo come una pratica comune nella vita dei Sanna-Carboni e dei nuoresi, si pensi alla sorte di Donna Vincenza, zittita ripetutamente da Don Sebastiano che fa leva sulla inutilità e ridondanza della voce della moglie. La caratteristica dominante del suo linguaggio è il nitore e la profondità della parola, l'asciutezza dello stile aforistico, degli enunciati sentenziosi, proferiti con l'assertività di chi ribadisce verità indiscutibili.
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Questo blog, bilingue ( in Sardo e in Italiano) a disposizione, in modo particolare, di tutti i Sardi - residenti o comunque nati in Sardegna - pubblicherà soprattutto articoli, interventi, saggi sui problemi dell'Identità, ad iniziare da quelli riguardanti la Lingua, la Storia, la Cultura sarda.
Ecco il primo saggio sull'Identità, pubblicato recentemente (in Sardegna, university press, antropologia, Editore CUEC/ISRE, Cagliari 2007) e su Lingua e cultura sarda nella storia e oggi (pubblicato nel volume Pro un'iscola prus sarda, Ed. CUEC, Cagliari 2004). Seguirà la versione in Italiano della Monografia su Gramsci (di prossima pubblicazione) mentre quella in lingua sarda è stata pubblicata dall'Alfa editrice di Quartu nel 2006 (a firma mia e di Matteo Porru).
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