Creato da diamanti_diamanti il 04/02/2007
Progetto "Le storie infinite", romanzi a più mani in libreria

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Renato Fiorito è laureato a Napoli in Economia e attualmente è dirigente in un ente pubblico.

Ha pubblicato un coinvolgente giallo dal titolo "Tradimenti"
(2006, Edizioni Il Melograno)

 

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DIAMANTI - Romanzi a più mani - codice progetto AV.07.004 - Avventura, Spy story

Post n°1 pubblicato il 04 Febbraio 2007 da diamanti_diamanti
 

[Inizio del racconto]

Cosa volete che succeda in una cittadina di provincia, trentamila abitanti, le strade ben squadrate, pulite, ordinate, i lunghi portici, il vento che soffia l’aria fredda dalle vicine montagne? Per il giornale locale è un dramma trovare notizie interessanti: qualche incidente stradale, qualche ragazzata di paese, pochi furti, niente rapine, nessun omicidio. La gente esce per l’usuale passeggiata, si incontra, si saluta, un pettegolezzo sottovoce, il tintinnio delle tazze nel bar centrale, un dolcetto per i bambini. Poi, come una campanula alla fine del giorno, la città si rinserra su sé stessa, i marciapiedi si avvolgono intorno alle case ed i fanali tornano ad osservare le strade lucide e vuote, il borbottare sconnesso degli ubriachi, i discorsi incomprensibili dei pochi immigrati che non si rassegnano a quella vita reclusa e si trattengono a parlare tra loro, come se fossero ancora nelle strade dense di profumi e colori della lontana terra d’Africa.  

Per Vallechiara d’Alpe, però, quest’ultima settimana di febbraio è stata diversa dal solito. Non uno ma ben due fatti di cronaca, imprevisti, sconvolgenti hanno  messo a soqquadro la città, tanto che i giornali nazionali hanno perfino mandato i loro inviati per indagare, conoscere i particolari e chiunque abbia qualcosa da raccontare, per insignificante che sia, finisce per essere intervistato ed apparire  in televisone.

Al principio è sembrato divertente. Una piccola ventata di celebrità ha smosso l’eterno pantano del tran tran quotidiano. Ma poi sono cominciate le prime insofferenze. I fatti della gente sono finiti sui giornali ed il rimestare nel torbido ha fatto salire in superficie il fango posato sul fondo. I tanti piccoli segreti, le cose riservate sono state tirate fuori e manipolate dai giornali. Piccole storie, magari insignificanti per chi le legge, ma importanti per chi le vive.

Su Vallechiara insomma si è improvvisamente acceso il grande faro dell’informazione e la gente, sorpresa nelle attività quotidiane, ha dovuto spiegare, giustificarsi e magari essere giudicata. E questo non è stato affatto piacevole. Le persone hanno potuto così spiare la vita dei loro vicini direttamente dal buco della televisione. Non la vita vera però ma quella trasfigurata dalla luce dei riflettori.

Prendete ad esempio il portiere di notte di quell’alberghetto a due stelle, l’Hotel della Pace, nascosto in fondo ad un vicoletto del centro storico. Nessuno avrebbe dovuto sapere di quel lavoretto fatto in nero durante la notte, ed invece i riflettori si erano accesi su di lui quando si era saputo che aveva visto arrivare quell’uomo, con quel capello nero a falde larghe, quasi calato sugli occhi, e quel lungo cappotto, taglio vecchio, fuori moda. L’uomo aveva bussato alla porta dell’albergo e lui, che era andato a sdraiarsi in una delle stanze libere, aveva dovuto vestirsi in fretta ed andare ad aprire nel cuore della notte. Ma quelli volevano sapere di più. Che aspetto aveva, cosa aveva detto, che aveva fatto? Domande ripetute mille volte dalla polizia, dai giornalisti, dalla televisione, a cui avrebbe risposto volentieri se non fosse stato per quella faccenda del  doppio lavoro, che aveva accettato perché tanto, dormire a casa o in albergo per lui era la stessa cosa, visto che non aveva una donna, almeno non una stabile, e che, quando  gli capitava una ragazza, poteva benissimo portarsela lì nell’albergo. Ma questa è un’altra storia e ci farebbe divagare. Ad ogni modo non aveva molto da raccontare, dato che quell’uomo non l’aveva mai visto prima e, anche quella sera, non è che lo avesse guardato molto bene in faccia, nascosto com’era da quel suo capello nero. Per il resto era stato di poche parole. Gli aveva solo chiesto una stanza e messo il documento sul banco, senza neanche aspettare che glielo chiedesse. Se la polizia aveva poi scoperto che era falso, lui al momento non se n’era accorto. No, segni particolari non ne aveva, ma, a pensarci bene, aveva uno sguardo gelido, vuoto, come senza pensieri. Valige? No, non aveva valige. Solo una borsa di pelle, quella che la polizia aveva poi trovato nella stanza. Quando era arrivato? Martedì notte, aveva preso la chiave ed era salito in camera, la 118 al primo piano. Il giorno dopo era uscito ed era rientrato verso le dieci di sera. Quando gli aveva chiesto se tutto andava bene non gli aveva neppure risposto. No non era agitato, però era pallido come un cencio. E poi la mattina dopo, era giovedì grasso,  l’avevano trovato come sapete, con quel lungo coltello conficcato nel cuore. E’ entrato qualcuno durante la notte? No nessuno, ne sono sicuro. Per entrare dopo mezzanotte occorre bussare. La polizia non ha trovato tracce di altre persone nella stanza. Del resto l’uomo era arrivato solo il giorno prima ed era nuovo del posto. Chi poteva sapere che era qui? Ha chiesto qualcosa? No, niente. Come ho detto, parlava pochissimo e non mostrava alcun interesse. Parliamo del coltello. Già il coltello, davvero strano. Un sottile affilatissimo coltello, quasi uno spadino, con l’impugnatura di madreperla ed una specie di diamante incastonato nel manico. E poi quella strana incisione nera “Unicuque suum”. Cosa significava? Non lo so. 

 

Come se non bastasse questa morte violenta, un altro strano evento doveva  sconvolgere la piccola cittadina di Vallechiara d’Alpe in quell’incongruo giovedì di carnevale. Si era già alla vigilia della campagna elettorale quando il sindaco della cittadina, nel tornare a casa, si accorse con sua grande sorpresa che la moglie non era in casa. Non si erano sentiti tutto il giorno, preso com’era dai suoi impegni, ma l’assenza della donna era davvero inusuale di sera.  Il sindaco fece un giro di prudenti telefonate tra parenti e amici senza risultato. Poi sempre più preoccupato si risolse a chiamare il comandante dei vigili urbani per incaricarlo di svolgere con la dovuta cautela ricerche su eventuali incidenti che si fossero verificati nel circondario. Quando anche queste si rivelarono vane il sindaco decise di chiedere aiuto alla polizia, nonostante che le elezioni fossero alle porte e rischiava così di alzare un inutile vespaio, Infatti a quel punto il segreto non poté più essere mantenuto e la notizia della scomparsa della signora Amelia dilagò nella città. Sebbene fino ad allora fosse stato impossibile esercitare sul conto della donna l’arte del pettegolezzo, la sua scomparsa si trasformò presto in una scappatella d’amore, o, alternativamente, in una fuga per i maltrattamenti del marito, o, ancora meglio, nel suo assassinio, commesso nell’ordine, da zingari di passaggio, da rapinatori rumeni penetrati in casa ed, infine, dallo stesso marito che ne avrebbe occultato il cadavere nel giardino di casa, come aveva confidato alla sua parrucchiera una giovane cameriera, licenziata due anni prima ma a conoscenza di molte cose.

 

Dopo questo ulteriore fatto gli alberghi di Villachiara registrarono il tutto esaurito e perfino le case private furono prese d’assalto da troupes televisive, giornalisti, curiosi e turisti della domenica. La polizia da parte sua annotava voci, verificava indizi, cercava prove. Aveva preso denaro? Aveva con sé i documenti? Era andata via con la sua automobile? Domande di routine da cui sempre bisogna partire per riprendere in mano i disordinati fili che ci si lascia dietro mentre si vive.

Infine la mattina  del sabato, un vigile urbano segnalò che la macchina della signora era parcheggiata nei pressi della stazione ferroviaria. In un lampo arrivarono polizia e carabinieri, il sindaco e parte della giunta, i parenti, gli amici, i curiosi ed i giornalisti che erano in città a causa dell’omicidio del giovedì grasso, come adesso veniva chiamato. Della donna naturalmente nessuna traccia, ma un negoziante di abbigliamento affermò di aver visto la signora scendere dalla macchina e dirigersi verso la stazione ferroviaria.

Il vero colpo di teatro si ebbe però la domenica mattina quando alla centrale di polizia si presentò un certo Giovanni, barbone senza casa che viveva in una baracca di lamiera sugli argini del fiume. La gente lo tollerava e a volte lo aiutava perfino, perché era del posto e non dava alcun fastidio. La sera forse si riscaldava con un bicchiere di vino di troppo, ma non era un alcolizzato. Le donne di una certa età raccontavano che, da giovane, era stato molto bello e che aveva avuto momenti di fortuna sia col denaro che con le donne. Anzi qualcuna di loro, ricordava ancora, nel segreto del cuore, la dolcezza delle sue carezze. Poi doveva essergli capitato qualcosa di terribile, perché, dopo essere stato molti anni lontano, era tornato a Vallechiara  senza un soldo e con la testa un po’ in disordine. Così si era lasciato portare a fondo dalla vita, riducendosi in quel misero stato.

Ecco dunque Giovanni che bussa alla porta della caserma dei carabinieri e dice al piantone di avere qualcosa di importante da dire. Questi gli risponde di ripassare l’indomani ma il barbone insiste che la cosa è urgente e che riguarda la moglie del sindaco. Allora il piantone chiama il maresciallo che chiama il tenente che si precipita alla stazione. - Se mi hai fatto muovere per niente - gli sibila il tenente - ti tengo dentro  una settimana. -

Ma Giovanni non l’ha fatto venire per niente, perché lui, mercoledì pomeriggio, la signora Amelia l’aveva vista arrivare con la sua macchina e scendere sul greto del fiume e fermarsi proprio lì, sotto il ponte, vicino alla baracca dove viveva. Stava per  uscire per chiederle qualche soldo o magari per sapere se fosse lei ad aver bisogno di qualcosa, dato che sembrava piuttosto agitata, quando vide  arrivare quell’uomo, con il lungo cappotto nero ed il cappello a falde larghe, pure nero. I due si erano andati incontro e si erano subito abbracciati, ed erano rimasti lì a lungo, stretti l’uno all’altra, ma senza baciarsi. Poi si erano seduti sul greto del fiume ed avevano cominciato a parlare anche se dalla baracca non si sentiva quello che dicevano. Qualche volta lui si interrompeva e si copriva il viso con le mani come se fosse disperato o si vergognasse. Lei ascoltava e piangeva, non con i singhiozzi però, ma di un pianto silenzioso e inconsolabile. Poi l’uomo le aveva dato un sacchetto, grande quanto due mani chiuse a pugno che lei non voleva. Alla fine però l’uomo è riuscito a darglielo, poi l’ha abbracciata ed è andato via senza voltarsi. Ecco cosa ho visto.             

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Utente non iscritto alla Community di Libero
Anonimo il 10/03/07 alle 19:26 via WEB
Un piccolo lago rosso aveva invaso le bianche lenzuola, gocciolando poi sul pavimento polveroso. E’ così che la vita scivola via. Senza rumore, senza parole. In silenzio, misteriosamente. Vanno i giorni, vanno le passioni, si perdono nel nulla le ambizioni che un giorno hanno gonfiato le vele dell’orgoglio. Si vive immaginandoci eterni, ma un piccolo lago rosso è già abbastanza grande perché la vita di un uomo facilmente vi anneghi. Il Commissario aveva guardato a lungo la scena del delitto, quella squallida stanza d’albergo di terz’ordine e quell’uomo venuto dal mistero ed ora morto. Tutto appariva in ordine perfetto come se la camera non fosse stata ancora occupata, il letto appariva intatto, fatto salvo il posto preciso dove l’uomo si era steso prima di morire. Nessun segno di lotta, nessuna traccia di altre persone, nessun oggetto spostato o solamente toccato. Solo il morto con indosso ancora la giacca ed il cappotto nero aperto sul petto come una nera ala ed il dolore allucinato dipinto sul volto. Unicuque suum. A ciascuno il suo. Ma cosa era toccato a quest’uomo se non una lama conficcata nel petto a portar via la luce, le passioni e la vita. E se pure qualcosa un tempo aveva ricevuto, era stato solo un prestito provvisorio che troppo in fretta aveva dovuto restituire. Unicuque suum era scritto su quello strano, sottilissimo pugnale conficcato nella carne ed affondato fin giù nel cuore per interromperne la tumultuosa corsa. Quella scritta nera, dipinta sull’elegante manico di madreperla, era dunque come una vecchia minaccia arrivata a compimento, una punizione che l’uomo non aveva saputo evitare. Ragionava il Commissario sul rebus di quel messaggio, non avendo altro al momento su cui ragionare. I documenti dell’uomo erano chiaramente falsi e lì a Villachiara nessuno l’aveva mai visto. Tranne una persona forse, se era vero quello che aveva raccontato Giovanni, il barbone, se il vino quella sera non gli aveva giocato un brutto scherzo e non gli aveva fatto immaginare fantasmi, vivi solo nella sua fantasia.
(Rispondi)
 
bridge.j
bridge.j il 15/03/07 alle 20:21 via WEB
Che cosa legava quell'uomo misterioso alla bella, all'elegante signora Alessia? E il suo allontanamento era stato volontario o causato dalla stessa persona che aveva ucciso l'uomo? Il commissario rifletteva, mentre i tecnici della scientifica facevano i loro rilievi. L'unica speranza era che il dna dell'uomo fosse presente negli archivi giudiziari in modo tale da permetterne il riconoscimento e il proseguimento delle indagini. Certo, il commissario non s’aspettava di non dover aspettare tutto questo. La svolta accadde in modo casuale. Un fascicolo che cade dalla sua scrivania mentre sta sentendo per l’ennesima volta il sindaco, una foto che scivola fuori e Alfonsi che dice: “ma io quest’uomo lo conosco!” “Lo conosce?” chiede il commissario stupito. “Sì, è un ex compagno d’università di mia moglie, in casa abbiamo una foto che li ritrae insieme ad un altro amico, ma non ricordo il nome, bisognerebbe chiedere a mia suocera”. E così i due s’erano diretti a casa della madre della signora Alessia, non prima d’essere passati a recuperare la foto di cui parlava il sindaco. “Si ricorda il nome di quest’uom?” aveva chiesto il commissario alla donna, indicando il morto. “Certo,” rispose lei. “ E’ Carlo Pinna. Era innamorato di Alessia, ma lei aveva scelto l’altro, Daniele Pecci. Poi però dopo la laurea sono partiti tutti e due e non sono più tornati.” Un mistero s’era risolto, ma se n’era affacciato subito un altro. Cos’era tornato a fare Carlo Pinna in Italia, cos’aveva dato ad Alessia e perché Era sparita lei?
(Rispondi)
 
Utente non iscritto alla Community di Libero
Anonimo il 19/03/07 alle 18:08 via WEB
Per risolverlo il Commissario aveva bisogno di saper tutto di quella vecchia storia. Lara Baier, questo era il nome della madre di Alessia, era in uno stato di comprensibile agitazione per la scomparsa della figlia, ma era certo in grado di fornire le notizie di cui il Commissario aveva bisogno. Il Commissario però non voleva interrogarla in presenza del genero, perché non voleva che la presenza dell’uomo ne condizionasse il racconto. Così le chiese solo se sapesse dove erano diretti i due ragazzi e perché erano partiti, ripromettendosi di tornare sull’argomento in un secondo tempo. Lara Servini aggrottò le ciglia, come per cercare di capire meglio il senso della domanda; poi, con la voce rotta dall’emozione per i ricordi che la domanda evocava in quel momento di angoscia, raccontò che Daniele e Carlo, dopo essersi laureati, erano stati assunti da una compagnia mineraria che operava in Congo e si erano trasferiti laggiù. Al principio i due Alessia e Daniele si erano mantenuti in stretto contatto, ma poi, col passare dei mesi, lettere e telefonate si erano diradati fino a cessare del tutto. Alessia era caduta allora in uno stato di prostrazione dal quale sembrava non sapersi riprendere. Poi però, lentamente, grazie anche all’affetto di Giacomo che aveva conosciuto le frattempo, era riuscita a superare il momento difficile, tanto che dopo qualche tempo i due avevano anche deciso di sposarsi. - Alessia in tutti questi anni è stata sempre serena e tranquilla e, per quanto ne so io, non sarebbe mai andata via da casa volontariamente. – aggiunse la donna - E’ per questo, Commissario, che ho una grande paura.” Il Commissario tornò la sera stessa dalla signora Lara. La preoccupazione per la sorte della figlia l’aveva come invecchiata nel giro di poche ore. I capelli scarmigliati, gli occhi rossi di pianto, l’assenza totale di trucco ed una vecchia vestaglia fiori, indossata senza cura, le conferivano un’aria triste e trasandata. - C’è qualche novità – chiese ansiosa la donna. - Purtroppo non ancora. Ma avrei bisogno di sapere qualcosa di più su sua figlia e sulla storia di quei due ragazzi. Mi dica, ha per caso ancora qualcuna delle lettere che Daniele scrisse a sua figlia? – - No Alessia le distrusse tutte. Ma una cartolina è rimasta. Ci sono i saluti di entrambi i ragazzi. ora gliela vado a prendere. – La donna aprì un cassetto e tirò fuori una vecchia cartolina. Vi era fotografato l’ingresso di una miniera. Era una specie di buco aperto nella terra. Un pozzo ai bordi del quale i due giovani si tenevano abbracciati facendo il segno della vittoria. Intorno la terra era arida ed in lontananza si intravedeva un piccolo insediamento. Sul retro era scritto il posto: Lubumbashi, e sotto, a penna: “Presto diventeremo ricchi…”.
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bridge.j
bridge.j il 19/03/07 alle 21:06 via WEB
Lubumbashi. Al Commissario bastò una piccola ricerca in internet per scoprire tutto quello che aveva bisogno di sapere su quella città. La seconda più grande del Congo, la capitale della provincia del Katanga. Ma questo non era abbastanza. Doveva essere sicuro che l'uomo morto fosse veramente chi credevano fosse. Ma come fare ora? Mica potevano digitare "società mineraria Lubumbashi" su Google e sperare che saltasse fuori proprio quella dove erano stati assunti i due uomini. In quel momento si sentì bussare. "Avanti." disse il commissario scocciato che qualcuno lo interrompesse mentre cercava di venire a capo dell'enigma. "Commissario, abbiamo novità." disse Abbiati, un suo giovane sottoposto. "E' appena arrivato questo fax dall'Interpol. E' una segnalazione, per la scomparsa di un uomo. Carlo Pinna. La denuncia è stata fatta dalla società per cui lavorava, la Mining Company. Pinna non è scomparso, in realtà. E’ scappato. Con un sacchetto pieno di diamanti.”
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Anonimo il 09/04/07 alle 17:41 via WEB
Arrivarono al tramonto. La miniera di Lubumbashi era a dieci chilometri dall’abitato. Dieci chilometri di buche e fango da percorrere a venti all’ora su una vecchia jeep, con le sospensioni irrigidite dal lungo uso e dall’assenza di manutenzione. Quando arrivarono al campo base restarono sbigottiti. Quella non era Africa, era l’ingresso dell’inferno. Tutt’intorno non c’era né un albero né un filo d’erba. Solo fango grigio a perdita d’occhio, sputato fuori dalle bocche dei cunicoli che portavano alla miniera. Terra passata al setaccio, sottile e sterile. Tonnellate e tonnellate di terra agitata da macchine rumorose e da mani consunte alla ricerca di rare piccole gocce di purissimo carbonio, eruttate milioni di anni prima dalle profondità della terra attraverso condotti vulcanici esplosivi lunghi centinaia di chilometri. Il cuore segreto della terra è un cuore di durissima pietra.
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Anonimo il 06/05/07 alle 09:13 via WEB
Filo spinato e garitte tutto intorno. Uomini armati sorvegliavano le uscite. Nessuno poteva entrare o uscire senza permesso, ma chi usciva doveva essere sottoposto ad una specie di ispezione. Li facevano spogliare, così per istrada senza nessun riguardo, li ispezionavano la bocca, guardavano nelle tasche. – Perché li guardano in bocca? – chiese Daniele all’autista.- Ah, è per via dei diamanti, - rispose l’uomo al volante - a volte qualcuno tenta di nasconderne uno in bocca. – In fondo al campo, un edificio in pietra rossiccia di un solo piano era già illuminato da alcuni fari, nonostante fosse ancora giorno. Una porta di legno massiccio era vigilata da due uomini armati. La jeep si fermò li davanti. - Sono i due ingegneri nuovi che vengono dall’Italia. – disse l’autista. Le due guardie li lasciarono passare dopo averli scrutati, senza dire una parola. Entrarono in una specie di sala d’attesa, ma senza sedie. L’autista bussò ad una porta socchiusa. Da dietro arrivò un invito ad entrare. Un uomo era seduto dietro una scrivania con i piedi sul tavolo. L’autista ripeté la presentazione che già aveva fatto alla guardia. L’uomo li guardò e fece loro cenno di entrare. Sempre senza parlare feve un gesto con la mano per chiedere di chiudere la porta. Daniele si girò per farlo e vide che dietro di sé c’era una donna seduta u una poltrona di pelle nera. Le gambe accavallate, i capelli biondi, un’aria insieme ironica e sfrontata. Fumava un sigarillo e sorrideva. Che ci faceva una donna così in una miniera?
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Anonimo il 13/05/07 alle 20:05 via WEB
Daniel e Carlo si presentarono. L’uomo dietro la scrivania disse: - Mi chiamo Adam Fergusson e sono il responsabile di questo campo. Benvenuti. Questa è Ruth Millware, ed è la mia vice. Non fate caso alla sua bellezza, le serve solo per nascondere la crudeltà. È più dura di due uomini messi insieme. – Ruth rise compiaciuta della presentazione. Si vedeva che le piaceva essere considerata così. – Non sono io ad essere dura, - disse - è la vita che è dura qui, cazzo. I boy scout e i delicati di stomaco non durano a lungo in una miniera di diamanti.- – Ora non li spaventare – la rimproverò ridendo Adam Fergusson – dà loro il tempo di abituarsi alla nuova vita. – e poi rivolto ai due giovani: - Non fateci caso, vuole solo fare colpo su di voi. Sono sicuro che ve la caverete bene. Ora se volete, potete andare a riposare. Penso che siate esausti I vostri alloggi sono ai numeri 16 e 17. Si trovano in fondo al viale. Gli appartamenti dal’ 8 al 15 sono occupati dagli altri responsabili della miniera. Ve li presenterò domani. Al numero uno invece ci sono io, ed al due c’è Ruth. Se avete bisogno di qualcosa non avete che da bussare. Ora se non avete bisogno di altro, potete andare, ci rivedremo domani mattina alle 8. La guardia che sta fuori vi accompagnerà alle vostre stanze. Beh, buon riposo. – Daniel e Carlo uscirono. Ognuno lesse negli occhi dell’altro un lampo di inquietudine. L’uomo guardò Ruth che era restata in silenzio a fare cerchi di fumo col suo sigarillo. – Che ne pensi? – domandò. – Sono due ragazzini, Adam. Avrebbero dovuto mandarci gente più esperta. – - Erano i migliori del loro corso. Spero che sappiano il fatto loro. – obiettò Adam. - Hanno solo imparato qualche libro a memoria. Non sanno niente di una miniera. Il mio istinto dice che ci causeranno guai. – - Loro devono solo aiutarci a trovare nuovi filoni di kimberlite. A gestire la miniera ci pensiamo noi. Stai tranquilla, Ruth.- La donna si alzò dalla poltrona. – Speriamo che hai ragione – disse, ed andò via senza voltarsi Dalla sua poltrona Adam lanciò uno sguardo alle belle gambe di Ruth mentre usciva. Poi si mise a guardare il viottolo grigio e deserto che convergeva in un punto lontano, illuminato dalla luna ed attese finché non vide le luci delle baracche 16 e 17 accendersi.
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Anonimo il 20/05/07 alle 20:35 via WEB
- Questa Ruth Millware è una donna inquietante – Disse Daniel sottovoce mentre si avviavano ai loro alloggi, accompagnati da un inserviente. - Pensi che sia l’amante di Adam Fergusson? – chiese Carlo. - Non lo so. Come fai a dire una cosa del genere? – - Beh, sembravano molto intimi. Lei era lì su quella poltrona a chiacchierare con un’aria da padrona. Hai visto che grinta? – - Si l’ho vista e non mi è piaciuta. – disse Carlo. - Io invece, se mi capitasse l’occasione, una ripassatina gliela darei. Mi piacerebbe metterla sotto, con quelle arie da dura che si dà… – - Stai attento che non sia lei a mettere sotto te. – - Vedremo. Per ora andiamo a riposare. – Erano arrivati all’ingresso del primo dei due alloggi. Una casa in legno, dipinta di bianco. Su un piccolo patio vecchie poltrone di vimini facevano pensare a lunghi pomeriggi da passare a guardare il tramonto. Il giorno dopo Daniel fu svegliato da un colpo sordo di arma da fuoco. Si alzò di corsa alla finestra per guardare cosa fosse successo. In fondo al piazzale una piccola folla di uomini in divisa era raccolta in circolo intorno ad una macchia nera distesa per terra. Cos’era? Uscì a vedere. La piccola folla di aprì al suo arrivo. Per terra un uomo seminudo giaceva in una pissola pozza di sangue. - Cos’è accaduto? – chiese. - E’ un ladro – rispose uno degli uomini in divisa. - E i ladri qui si uccidono sul posto? – - Si. Sono gli ordini. – rispose l’uomo. - E chi lo ha dato quest’ordine. – - E’ stato sempre così. Chi ruba sa che se viene scoperto verrà ucciso. – - E cosa avrebbe rubato quest’uomo? – - Un piccolo diamante. -
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Anonimo il 26/05/07 alle 08:38 via WEB
Daniele si allontanò. Aveva i crampi allo stomaco. Aveva visto a terra un uomo ucciso nell’indifferenza generale. Aveva visto gli uomini armati che ridevano intorno al morto aspettando che qualcuno lo portasse via ed aveva capito che a quel tipo di spettacolo la gente era abituata. Cercò Carlo. Bussò alla sua porta. Quando aprì gli disse di un fiato: - Qui fuori hanno ucciso un uomo con un colpo alla testa ma a nessuno gliene frega niente. Ma che posto è questo! - - Chi l’ha ucciso? – - le guardie del campo. Dicono che aveva rubato un diamante e che qui queste sono le regole. Chi ruba deve essere giustiziato sul posto. – Carlo corse fuori a vedere cosa era successo ma quando arrivò sul piazzale non c’era più traccia del cadavere. C’era solo una fila disordinata di uomini che si dirigeva verso l’ingresso delle miniere. Nessuno lo guardò. Nessuno lo salutò. Era un bianco, un padrone da temere, uno da cui stare lontani perché poteva disporre del loro stesso destino per un semplice capriccio. - Andiamo a chiedere a Fergusson – disse Daniele - Meglio di no. Non sappiamo ancora nulla di dove siamo capitati. Non facciamo troppe domande. Piano piano capiremo da soli o ci dirà lui qualcosa spontaneamente.- Ma Fergusson non disse nulla del morto. Disse solo che in miniera ritrovavano sempre meno diamanti e che se non si trovava una nuova vena la miniera sarebbe stata chiusa. Era per questo che li avevano chiamati. Per studiare il terreno, ricercare altri siti da esplorare, dare nuova linfa all’attività di estrazione. I diamanti portati dal fiume in superficie ormai erano rarissimi e sempre più piccoli. Tonnellate di terra passata al setaccio davano risultati irrisori. La compagnia pensava che scavando gallerie più profonde nei posti adatti si poteva rendere di nuovo remunerativa l’attività. - Perciò datevi da fare ragazzi il nostro lavoro, la sopravvivenza di tutta questa gente, l’avvenire di questo posto dipendono da voi. Vi darò tutti gli uomini e i mezzi necessari quando me li chiederete, ma cercate di fare in fretta. Ah, mi raccomando, siate prudenti, non andate in giro senza essere accompagnati da una guardia armata e, soprattutto, mai di notte. Potreste non tornare più al campo. -
(Rispondi)
 
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Anonimo il 30/05/07 alle 16:38 via WEB
Ai due giovani sembrava di essere stati abbandonati a sé stessi. Nessuno faceva caso a loro. Nessuno si attendeva niente. Era come se non ci fossero, come se nessuno credesse veramente che altri filoni di diamanti potessero essere trovati. L’atmosfera che si respirava era di una triste disperata routine al fondo della quale c’era solo terra sventrata, alberi sradicati, fango grigio e caldo asfissiante. La terra era puntellata di buche, alcune grandissime come bocche di un vulcano, altre piccole e mal puntellate. In ognuna di queste buche uomini seminudi si calavano e riemergevano ciclicamente. Carlo e Daniele, non essendo chiamati da nessuno, decisero di prendere l’iniziativa ed andarono in direzione a chiedere le mappe delle vecchie miniere, ed i dati estrattivi, suddivisi per singole escavazioni. Furono trovate delle vecchie mappe, risalenti a due anni prima e niente affatto aggiornate, ma nessuno fu in grado di fornire i dati delle estrazioni. Carlo andò a bussare alla porta di Fergusson. – Entra pure, ragazzo. – disse l’uomo. Fergusson era sdraiato su una grande poltrona di vimini, accanto al ventilatore. Portava un vestito bianco, che forse una volta doveva forse essere elegante, ma che ora era sgualcito e sporco e trasmetteva una sensazione di decadimento e di abbandono. - Cosa c’è ragazzo? – disse l’uomo. - Mr. Fergusson, vorremmo iniziare i rilievi ma avremmo bisogno di fare il punto della situazione, conoscere i risultati dei rilievi precedenti, avere le statistiche estrattive, ma finora siamo riusciti solo a recuperare delle vecchi mappe. – Fergusson sospirò, tirò una boccata di sigaro e sparse il fumo azzurrino tutto intorno. Solo allora Carlo si accorse che accucciata ai piedi di Fergusson, in parte nascosta dalla scrivania, stava immobile una ragazzina nera di tredici, quattordici anni con un braccio appoggiata su una gamba dell’uomo. Fergusson lesse la sorpresa negli occhi del giovane e stancamente gli disse: - La vita è molto triste qui, caro amico. Te ne accorgerai col tempo. – Carlo non trovò le parole per rispondergli, non avendo ben capito il senso di quella frase o forse, capendolo, avendo scelto di ignorarlo. - Insomma volevo chiederle se ci può aiutare? – - Ragazzo, qui non abbiamo niente di organizzato. Quando si trovano dei diamanti si portano in amministrazione, ma nessuno tiene traccia del punto preciso da cui sono stati estratti. Al più Ruth Millware si annota lo scavo da cui proviene il diamante, poiché ha l’ordine di chiudere quelli improduttivi per più di tre settimane. Prova da lei. – - Sarebbe importante per il nostro lavoro sapere la direzione e la ricchezza delle vene di Kimberlite finora sfruttate, perché questi dati potrebbero metterci in grado di fare ipotesi più fondate sulle zone dove concentrare le nuove escavazioni. – - Amico mio, apprezzo il tuo entusiasmo. Ma voglio dirti una cosa in gran segreto. Sto qui da venti anni e sono sicuro che da questo posto del cazzo abbiamo già preso tutto quello che c’era da prendere. E quello che non abbiamo preso è perché ce lo hanno fregato i negri, che poi vanno di notte in città e lo vendono di contrabbando, per quattro soldi, agli olandesi, ai sud africani o agli inglesi. E quei figli di puttana stanno lì come corvi ad aspettare, senza far altro che aspettare che qualcuno porti loro ciò che ha rubato a noi. Perciò, non dannarti l’anima. Se avremo fortuna troveremo un altro po’ di pietre e poi ce ne torniamo a casa, sempre che qualcuno non ci ammazzi prima. – - Allora perché ci avete chiamato? – - Non siamo stati noi, amico mio. Noi non abbiamo nulla contro di voi e vi avremmo lasciati volentieri ini Italia. Hanno deciso loro, i papaveri di New York. Hanno pensato che prima di lasciare questa terra sventrata a questi miserabili, un ultimo tentativo andava fatto. –
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Anonimo il 04/06/07 alle 13:07 via WEB
Daniele quella sera era fuori dal cottage a guardare le stelle. Abbandonato su una vecchia sedia di vimini, vedeva le garitte illuminate dalle luci gialle dei riflettori e, lontano gli alberi neri e immobili nella notte. Fuori dal campo brulicava un mondo sconosciuto e violento, da cui era prudente tenersi lontano, almeno così gli avevano raccomandato. Sentiva forte la nostalgia di Alessia. L’aveva lasciata, credendo di partire per una grande avventura e invece si era ritrovato in una specie di campo di concentramento, controllato giorno e notte da uomini armati e dal quale era quasi impossibile allontanarsi,. Ricordava la sera della sua partenza dall’Italia, le lacrime di Alessia, il piccolo appartamento nel quale si erano rifugiati, e gli sembrava di sentire ancora il corpo caldo di lei che lo cercava, il suo profumo e la promessa che lo avrebbe aspettato. Aveva voglia della sua casa, delle strade illuminate, dei bei ristoranti, degli amici perduti, della sua famiglia, di tutto quanto insomma aveva perduto e che ora gli sembrava così irrimediabilmente lontano. Carlo gli aveva raccontato del suo colloquio con Fergusson, delle sue richieste e del fatto che Fergusson lo aveva quasi deriso. Ruth Millware, dal canto suo, neanche lo aveva ascoltato. Vecchie carte, rilevamenti approssimativi ed episodici, recuperati con fatica e quasi segretamente negli uffici amministrativi, si erano rivelati di nessuna utilità. Cosa fare? Daniele decise di partire ugualmente, senza contare sull’aiuto di quei due. Così il giorno dopo attaccò alla parete della sua stanza una grande planimetria della miniera, che era riuscito a recuperare tra le carte in magazzino e andò a chiedere a John Baez, economo della società, pennarelli e spilli dalle capocchie colorate. John li recuperò dal materiale didattico di un seminario fatto anni prima e glieli consegnò con un sorrisetto ironico. Nel pomeriggio Ruth Millware gli chiese beffarda se i pennarelli erano funzionanti, giusto per fargli sapere che qualsiasi cosa avveniva nel campo lei lo avrebbe saputo.
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