Avasinis -UD- 2.5.45

AVASINIS E IL DIBATTITO SULLA RESISTENZA: IL PARERE DI PAOLA D'AGARO


Paola D'Agaro, autrice di uno struggente "Requiem per i morti del 2 maggio", ha esposto sul sito dell'Aned alcune considerazioni sulle vicende di Avasinis e, in generale, sulle problematiche del dibattito storiografico sulla Resistenza che si ritiene utile e interessante riproporre anche qui,  in concomitanza della ricorrenza del 25 aprile. "Penso che, oggi, chi si occupa di storia ( e soprattutto chi si occupa di un periodo così complesso della nostra storia qual è stata la Resistenza), non possa prescindere da quelle che sono le relazioni e le proporzioni tra fatti e responsabilità. Le recenti fatiche di Pansa e dei suoi nuovi amici, nonché l'interesse di una certa magistratura per gli esiti della guerra di liberazione alimentano il timore che si vada ad un ribaltamento di prospettiva per cui il vero crimine è quello avvenuto dopo, nel momento della resa dei conti.  Sull'onda di questa deriva revisionista (seppur legittima in termini storiografici purché attenta nell'individuare le responsabilità di fondo) c'è il rischio che si giunga all'equazione: tutti colpevoli=nessun colpevole. E ciò in base a principi come: il buono come il cattivo c'è dappertutto, in amore e in guerra tutto è legittimo, la guerra abbrutisce chiunque, quando uno è provocato reagisce e altre amenità di questo genere. Ho vissuto da vicino, in quanto figlia di una sopravvissuta, allora tredicenne, il dramma di una strage nazista nell'Alto Friuli della quale si dà testimonianza nel sito  http://blog.libero.it/2diMaj/ . Il 2 maggio del 1945, un gruppo di sbandati  composto da tedeschi, altoatesini e friulani collaborazionisti si staccò dal lungo serpentone umano che percorreva la Pedemontana diretto al confine con l'Austria, entrò nel paese di Avasinis e decise di lavare con il sangue l'onta della sconfitta. Ci furono 51 morti tra vecchi, donne, bambini. La reazione non si fece attendere. Scesi dalla montagna che sovrasta il paese, i partigiani inseguirono e uccisero, in modo brutale, i tedeschi isolati che incontrarono durante la loro furiosa marcia in cerca dei responsabili della strage. Va detto, ai signori di cui sopra, a quanti vanno col bilancino a fare la conta delle atrocità dall'una e dall'altra parte, a chi ha vissuto sulla propria pelle l'orrore della guerra civile così come ai tanti giovani e meno giovani che ne hanno appena sentito parlare, che questa rappresenta il gradino più basso dell'agire umano ed è di per sé terreno di barbarie e di assenza totale di qualsiasi punto di riferimento etico. È infatti una guerra senza prigionieri in cui al dovere di combattente si sommano l'odio prima e il rancore poi nell'affrontare il nemico. Le guerre tra eserciti finiscono con una stretta di mano e una bevuta collettiva in osteria, le guerre civili no. Si può dire che una guerra civile non finisce mai veramente, o perlomeno non con una firma. Una volta detto questo, però, non va dimenticato che quella guerra non l'hanno voluta i partigiani. A monte di tutto c'è una responsabilità precisa e questa ricade inesorabilmente su chi ha voluto fortissimamente che si arrivasse a quel punto. Non si può tirar su i bambini a pane e moschetto e poi indignarsi quando quegli stessi bambini, con addosso una divisa della repubblica di Salò, vanno a farsi massacrare da bambini come loro in nome di un ideale sbagliato (perché se assumiamo la democrazia come valore non possiamo considerare giusti gli ideali per cui combattevano). Un conto è la pena che posso (devo) provare per entrambi, un conto è il giudizio storico e politico che non posso esimermi dal formulare. E il più valido giudizio storico e politico poggia sugli esiti degli schieramenti ideali e politico-militari. Gli uni - i fascisti e i repubblichini - non hanno mai dismesso le divise e i simboli di morte, non hanno mai rinnegato la violenza e le forme proprie del disprezzo delle norme civili (disprezzo fatto di viltà, prepotenza, sopraffazione ecc.), gli altri, appena hanno potuto esercitare il potere attraverso il governo delle popolazioni, si sono innanzitutto dati una costituzione e, comunque, hanno dato luogo ad una pratica democratica. In Friuli, poi, nessun De Felice, nessun Carnier, nessun Pansa può stravolgere questa documentata verità: la Libera Repubblica di Carnia, la cui costituzione è esemplare già nella eliminazione della pena di morte e nel voto alle donne. Le cadute dei partigiani si sono consumate in una zona psicologica, ancor prima che storica o politica, creata dallo stravolgimento delle regole che presiedono alla vita civile in tempi normali ancorché nei regimi totalitari. Sono le zone di anarchia in cui esplodono le miserie umane, quando il momento eccezionale viene sfruttato per regolamenti di conti o per dare libero sfogo a un odio covato ora per antica invidia di classe, ora per rancore di classe, ora per pesanti limiti culturali e psicologici. E questo senza mettere nel conto la zona d'ombra degli opportunisti e delle ignobili figure che strumentalizzavano a loro fine le battaglie di libertà. Una volta rificcati bene al suolo i paletti che ci consentono di mantenere un giudizio sufficientemente sereno e distaccato e allo stesso tempo non opportunistico, né piegato alle esigenze del momento, degli errori-orrori che la storia ci ha tramandato, possiamo serenamente pensare di onorarne le vittime. Dell'una e dell'altra parte, sia chiaro. Soprattutto  quando queste vittime sono incolpevoli. È  ingiusto, oltre che sbagliato, a mio avviso, operare dei distinguo. È una rimozione che lascia spazio a pericolose revanches  di destra. Dev'essere la consapevolezza  che nulla può seriamente infangare un percorso storico-politico che, al di là di ogni retorica, ci ha dato la democrazia e l'ha difesa dall'interno delle istituzioni a consentirci di esercitare il nostro diritto-dovere alla pietas". Paola D'Agaro