La farfalla di ferro

Post n°111 pubblicato il 29 Febbraio 2016 da Larbo
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Serena notte mi disse Ivan, voltandosi verso la finestra per scorgere oltre la tenda le prime luci del mattino.

Serena notte a te risposi io a quel piccolo soldato di piombo, col suo fucile diagonale, consapevole che il buio, avrebbe solo accentuato le mie percezioni, impedendomi di dormire. Ero al mio posto come al solito, tra le due penne a sfera simmetricamente equidistanti tra di loro. A farmi compagnia un magnete sbiadito, ricordo di una vacanza lontana e il profilo di un capo indiano chiamato Gerry, anche lui collocato nella sua riserva didattica, tra fogli, vecchi libri, souvenir, macchie di caffè e mozziconi di sigaretta, piegati sul fondo di una bicchiere di vetro.

Ricordo il giorno in cui feci il mio ingresso in questa casa, dentro una scatola di colore bianco, rattrappita dallo spazio angusto ed in attesa di una forma da ridefinire.

Sono nata in una via di mestieranti, di saltimbanco, di musici da strada,di instancabili modellatori di fantasia; la, su quella strada, tra le strette pietre di un vicolo, ho iniziato a conoscere la vita, le corse dei bambini al mattino, l'odore del pane dalla bottega all'angolo, le bucce di mandarino seccate dal sole, il piacevole tintinnìo della pioggia e le calde serate estive, in cui venivo sollevata, spolverata con cura e riposizionata sul mio banco, in attesa di una famiglia da incontrare.

Attesa e sogno, desiderio e sensazioni, striature lontane di vicoli nuovi oltre al mio, il profumo delle giacche dei viandanti, provenienti chissà da quale altro banco di questo mondo.

Fù Nero a coinvolgermi, una rondine vagabonda, attirata dalle briciole di pane di quel forno; Aveva viaggiato in ogni dove, sopra spruzzi di mare limpidi più del cielo, tra le dita delle chiome degli alberi, cavalcato il vento nelle notti di tempesta, ed ora era qui, come ogni anno, poggiata accanto a me a raccontarmi dei suoi viaggi. Le chiesi del sole, del mistero della luna, le chiesi che sapore avesse la pioggia o se dentro le onde ci fosse un invisibile ingranaggio, e ad ogni mia domanda, ogni sua risposta sapeva di mistero, di colori inimagginabili dal mio vicolo, di brivido e di avventura; poi... le chiesi del volo.

“Che cos'è il volo?” Le chiesi, e Nero, sul bordo del mio banco, pronto al suo ennesimo viaggio si girò concedendomi per l'ennesima volta le sue parole :” Volo è solo una piccola parola di quattro lettere, mia cara... peccato gli uomini abbiano speso così poco tempo per definirlo, forse un muto sguardo al cielo sarebbe stato più nobile... è l'aria che ti irrompe nelle costole, stringendoti il petto come il bacio mattutino della rugiada sulle foglie, è il fiato che ti manca quando cambi direzione, è la corrente che scegli, annusando i cristalli di sale che salgono dal mare... volo è la paura di toccare terra per sempre, di non poter più sfiorare il lembo di una nuvola; se ti accadrà di volare un giorno, distendi le tue ali il più a lungo possibile, cabra e scendi in picchiata più volte... perchè se ti accadrà di volare, desidererai di appartenere a tutto e a nulla … ”.

Fui adottata qualche giorno dopo, era arrivato il mio momento!!!, avrei finalmente scoperto il mondo oltre il vicolo; adagiata sul fondo della scatola bianca, sognavo come solo i bambini sanno fare, con loro sorridere unico, indisturbato ed ingenuo.

Ero una farfalla di ferro, e presto lo avrei scoperto.

Dapprima pensai che il troppo tempo atteso sul banco del mio creatore, mi avesse rattrappito le ali, provai a spiegarle, fino a sentire dolore, provai a batterle velocemente, facendomi seguire dallo sguado attento di Ivan, ma nulla.... forse sbagliavo qualcosa, forse avrei dovuto maggiormente alzare il capo, bloccare con più energia il corpo, oppure fluttuare così come fanno i delfini, e ondulare il busto mantenendo le ali tese, il capo alto e trattenere il respiro per gonfiare il petto d'aria, al fine di diventare più leggeri.

Ma ogni mio tentativo risultò vano, ogni rincorsa dalle due penne a sfera, terminava bruscamente sul pavimento, senza neppure l'accenno di un minimo volteggìo.

Gerry, mi guardò, sporgendosi oltre la sua macchia di caffè... mi guardò lungamente, poi, per la prima volta, sentii le sue parole : “ Non ho tribu' da comandare se non quelle che cavalcano nei miei sogni... non scegliere chi non puoi essere, scegli solo cosa sai di essere”.

Fu' un duro colpo, compresi drasticamente di non essere nata per quella che invece era la mia forma; ciò che sei, non è sempre ciò che diverrai, e ciò che vuoi non può darti a volte ciò che vorrai.

Ora sono qui, sul mio tavolo di legno, Ivan e Gerry mi tengono le ali, Ivan ha posato il fucile, Gerry mi sostiene con la punta della sua penna dritta sul capo....

Insegno!!, sulla nostra pianura di pace colma di nuovi arrivi, spiego alle coccinelle di legno cosa significa volare, e ad altre farfalle di carta parlo di Nero; distendo le ali il più a lungo possibile, racconto loro dell'odore del mare, del mistero della luna, spiego che quattro lettere per definire “volo” non bastano e non basteranno mai, e il mio petto si gonfia, i sensi si acuiscono, sento il sorridere dei sogni dei bambini vicino a me e le nuvole si fanno vicine, le sfioro, le modello a mio piacimento, cabro e scendo in picchiata, sorretto da un soldato di piombo amante dell'alba e un capo indiano che cavalca in silenzio.

Ho scelto di appartenere a tutto e a nulla, non posso volare è vero!! ma posso essere chi so di essere, trattenere il fiato e volere ciò che ora so di volere... una farfalla di ferro nata in un vicolo di musici da strada, il cui viaggio non si è interrotto ma sta volando!!! proprio sopra di voi, perchè se una parola di quattro lettere può non bastare, una di cinque non mi farà mai toccare terra per sempre... quindi

s o g n o .

 
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POESIA SULLA MERDA

Post n°110 pubblicato il 18 Novembre 2013 da Larbo
Foto di Larbo


Er viandante scanzonato camminava fischiettando
una palla rosso fuoco se stagliava su ner cielo e li grilli tutt'attorno se grattaveno la gola.
Sotto un albero de quercia n'dove l'erba e' piu' mansueta er viandante se sdraio' riposannose le ossa.
Tutto a un tratto mentre er sonno lo avvinghiava e la brezza lo cullava, senti' limpido e distinto un odore disgustoso, un olezzo tremebondo je sali' minaccioso dritto dritto fino ar naso.
Se guardo' tutt'attorno e vicino a n'arberello secco secco e malandato, dar ronzio de quarche mosca che faceva da spoletta vide dura e prepotente na cacata tondeggiante, coi tornanti circolari belli stretti e definiti, una merda d'elefante? na manciata asfissiante de rigurgito de culo.
Quella li', se ne stava bella ar sole cor suo sciame de moschini, de lombrichi apparecchiati co forchetta e cortellino...... se gustava la giornata sta merdaccia sderenata.
Er viandante poverello se sposto' dar suo giaciglio, disturbato dall'olezzo de quer mucchio tutto un pezzo, prese piano le sue cose decidenno de spostasse ma arrivanno a pochi metri dar quer fetido vicino, lui decise a naso chiuso de scambiacce du parole: "E sei brava cara mia a puzzà tutta na valle, na perfetta signorina, no sciroppo de latrina, m'hai svejato co le mosche che de te se so nutrite, ma te pare forse giusto de guastà sta meraviglia co st'intingolo de fogna.... co sto nero de budella?
La merdaccia un po' sorpresa co l'occhietti belli vispi prese fiato dentro ar marcio de quell'ugola marrone, se aggiusto' la sua criniera fino all'urtimo capello, e pe dasse meglio un tono je se mise dritta in piedi e guardannolo rispose: " Caro amico de passaggio, te disturbo e me dispiace ma lo sai a quanta gente esse merda nun dispiace? faccio schifo, puzzo e inquino, se non altro l'aria bona de sto giorno mattutino... ma so piagne.... so uno scarto de intestino, una merda sotto a un tacco, e de scenne da quer culo io de certo nun me stanco... perche' er fatto bello mio e' piu' semplice de un gioco... guarda bene tutt'attorno, quante merde che ce stanno senza manco assomijamme, ho vissuto mille ere in galassie de sfintere, ma la merda piu' gigante che s'affaccia ar tuo destino, nun e' tanto quella calla che tu vedi sotto a un pino, ne lo sforzo sopra un cesso che te fai a ogni mattino, ma po' esse.... pensa bene..... chi te siede piu' vicino

 
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L'orologio e il fucile di plastica giallo

Post n°109 pubblicato il 10 Dicembre 2012 da Larbo
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Fù il primo sole che ci fece conoscere.

A quel tempo credevo che gli occhi guardassero senza osservare e che le mani si muovessero alla ricerca della consistenza delle cose....

oggi so che non era così.

L'estate cadeva come un sipario di lucciole esauste sopra il mondo, lasciando sul palco la voce narrante dell'autunno che cantava il suo prologo ed io, unico tra gli spettatori di quella rinnovata commedia, sedevo dinanzi a loro con un fucile di plastica giallo tra le braccia, pantaloni con le bretelle e un vecchio orologio che palpitava ore, forse appartenente a mio padre, trovato in un cassetto di un comodino e abbandonato lì a contare il tempo senza luce.

Magri erano i miei polsi come liscia era la fronte.... ricordo i pomeriggi a fissare tra le dita un filo d'erba che sotto la mia presa diventava di un verde più scuro e gli alberi di fico pieni di frutti, dove le vespe ruotavano attorno come satelliti striati, intente a collaborare col sole, affinchè maturasse quei pianeti di zucchero per poterli abitare. Ricordo le tegole rosse, ruvide al tatto e le lunghe processioni di formiche nere che le attraversavano senza tregua, colonne infinite di legioni romane in miniatura a cui bastava il vento per orientarsi e muso contro muso per darsi il buon giorno mille volte al giorno.

Qualche lucertola più in là gonfiava il corpo di calore piegando la testa di lato al primo nuovo rumore... e forse guardando me, che sedevo in silenzio sull'erba, raccogliendo le gambe tra le braccia quasi a farmi piccolo per non disturbare il loro mondo.

Un albero di mimosa ed un pino abitavano vicini, confondendo alternativamente col vento le loro chiome, quasi come un inchino reciproco, un saluto infinito di due samurai di legno, intenti ad omaggiare ognuno la corazza di legno dell'altro.

Ricordo quei pomeriggi come un'avventura nuova da realizzare e inventavo le mie storie, gesta di eroi sconosciuti con una missione da compiere. Il canto delle cicale era la fanfara che intonava la partenza in battaglia dei cavalieri ed un grillo trombettiere suonava le prime cariche.

Sui muri disponevo vedette di coccinelle per avvistare il nemico, piccole amantidi esperte di arti marziali, rimanevano a guardia della mia avanzata e sotto le foglie cadute dal vento, la mia schiera di uomini talpa travestiti da lombrichi scavava trincee nelle quali rifugiarsi per la ritirata.

Sulle vette, osservava la battaglia un graduato della mia armata, ornato di medaglie arancioni che intonava la carica semplicemente cantando... era il generale pettirosso che godeva del mio rispetto e della mia ammirazione; ad ogni principio di tramonto salutavo il sole,mentre nell'aria le bandiere della vittoria s'innalzavano frenetiche grazie al volo di farfalle arcobaleno.L'indomani avrei arruolato nuovi attori per la battaglia.

L'orologio di mio padre era in realtà la radio trasmittente che mi comunicava le missioni da compiere, ed io ne lucidavo ogni sera il vetro che custodiva le lancette... lancette come aghi di bussola, numeri come contrade dei miei territori, sui quali governava un singolo pettirosso, mentre sul fondo del quadrante, il ritaglio con il giorno del mese era in realtà l'anno di vita di quel mondo fantastico... anno 25 nel regno delle contrade.

C'è un solo modo per difendersi dal ritmo assordante del silenzio..... e lo sanno le antenne delle formiche, che s'intrecciano testa contro testa....lo sapevano il pino e la mimosa che danzavano ad inchini ogni giorno..... lo sapeva il lombrico che distendeva la sua coperta di foglie, scavando la terra umida per sentire sulla schiena il senso della vita.... lo sapeva il generale pettirosso che più di altri lo aveva sconfitto affidandosi al suo petto....e lo sanno i bambini....che lo ricordano meno da ragazzi....e lo dimenticano da adulti.... chiedete ad un bambino... oggi!!!! ed avrete la risposta, magari vi prenderà la mano, portandovi in un luogo per lui segreto, scoprirà coperto da un panno un involucro di vetro, in cui ha chiuso una nuvola e vi dirà che sta aspettando che il giorno risorga, per distendersi nuovamente sul suo prato e poterla liberare. 

 
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Mannarino -VIVERE LA VITA-

Post n°108 pubblicato il 17 Novembre 2012 da Larbo

 

 

 

 
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A SANDRINO

Post n°104 pubblicato il 04 Ottobre 2012 da Larbo

Qualche volta nella vita, capita di rincontrare persone legate ad un periodo, ad un'altra persona, ad un'atmosfera.... oggi questo è accaduto, semplicemente prendendo una strada "diversa", non conosciuta...improvvisa.
Ho ritrovato un tuo fratello...Sandrino...., perchè così ti ha ricordato da subito lui, con questo tuo nomignolo affettuoso, più lungo nella pronuncia ma densamente più amorevole dentro una parola che sgorga direttamente dagli occhi e mai dalla voce....
Ci siamo abbracciati..., guardati di dentro senza proferire parola per un lungo interminabile secondo....
Era il sette Dicembre del 1998.... un universo fa'.... partimmo io, te... Alessandro e Stefano in una tarda ora di una notte romana, convincendo Stefano che non stavamo scherzando... che le valigie erano pronte... che il freddo non ci spaventava... che tu avresti guidato senza tregua, pur di arrivare a Zurigo, pur di soddisfare una fede, un quadrumvirato di amicizia legata al colore di una maglia, al sapore di un'avventura, alla voglia pura e semplice di gridare, con le corde vocali intirizzite dal freddo... un solo e irripetibile coro di curva.
E alla fine convincemmo il più scettico.... (ma innamorato di avventura forse come o più di noi)....
Riempimmo il buio della notte con le nostre voci... città dopo città.... sublimando dentro l'abitacolo della tua auto, risate, racconti... colori di una vita ancora così giovane e per questo incuriosita di virgole, insaporita da prese per il culo, da cervelli chiusi dentro un sogno... che ognuno di noi sapeva di avere.
Ai bordi della strada iniziò a comparire la prima neve, messa lì .... come una bianca crosta di ovatta fredda che sopravvive ogni gioro agli abbracci del sole...
Tu guidavi... scandivi i tempi di conversazioni ricche di vita.... di lanci al fulmicotone di intelligenza purissima... Alessandro rideva... io ridevo... Stefano rideva... con la sua voce che ricordo roca.... "Figlio Mio !!!! diceva sempre dopo aver gonfiato la pancia di respiri di gioia.
Arrivammo a Zurigo di prima mattina...., stanchi, guardati male dalle guardie di confine, affamati, romani e romanisti....
La città era ordinata, attraversata dal fiume..., avvolta da una nebbia che faceva da cappello a qualche campanile, o che sovrastava i tetti di tegole rosse e ben disposte... lenta, pulita come ci si può immaginare una classica città della Svizzera.
Un luogo di un altro paese.... di una contea straniera, dove tutti o quasi parlavano italiano. Gente partita dal sud magari, quando il nostro paese era noto per la sua quota in uscita di emigranti, con le valigie avvolte da un filo, i soldi tenuti nascosti nelle tasche delle mutande, i berretti di lana calzati forti fino alle orecchie, piuttosto che per quella (che in futuro sarebbe stata) in entrata di immigrati...
Trovammo un posto dove dormire... una pensione laida, forse una casa d'approdo di qualche prostituta a basso costo e del suo cliente bisognoso d'amore... ma fu divertente.... fu l'ennesima perla di sorrisi che s'incastonò sui nostri volti... sapevamo che la storia stava prendendo forma.. che il racconto di quel viaggio, sarebbe stato una lieta novella da trasferire ai nostri nuovi incontri... magari anni dopo... davanti ad una birra... con i gomiti poggiati su un tavolo... e la voglia mai doma di ritornare almeno con i fiati ad un'avventura vissuta da quattro ragazzi innamorati di una squadra di calcio, perdutamente romantici verso una passione.
La partità iniziò.... fuori dallo stadio vigeva una overture di Wurstel, di patate fritte... di crauti e birre... ricordo il viale che percorremmo prima di arrivare allo stadio... ricordo le case basse, la polizia a cavallo.... ricordo gli zaini dei ragazzi... le voci romane che percorrevano i maciapiedi di una città svizzera in pieno inverno... ricordo il freddo.... intenso... incessante... secco...
Ricordo te .. Sandrino che tenevi le fila.... che mi guardavi mentre ero rimasto qualche metro indietro...
Ricordo che in maniera colorita m'invitavi a spingere... a raggiungerti... a fare ancora e sempre gruppo, tra gli spalti di uno stadio lontano dove per tutta la sera facemmo sentire le nostre voci.... ballare i nostri piedi.... spingerci ai gol fatti o sospirare un'accennata delusione a quelli presi.
Pareggiammo... 2-2, ma avevamo vinto !!!! decisamente vinto!!! perennemente vinto!!! avevamo raccolto dentro i bicchieri di un tempo destinato a perdersi.... ogni singola goccia dei nostri ricordi... e da quelli avremmo attinto per dissetare ogni tristezza... ad ogni nostro nuovo incontro che il tempo ci avrebbe donato.
Non fu così... purtroppo, Stefano andò via dall'Italia, inseguendo e raggiungendo un altro sogno.... io e Alessandro rimanemmo quì, a decifrare le vite di coppia, a giocare qualche partita di calcetto, a sentire le voci caotiche di Roma nel sabato sera...a mangiare una pizza assieme ad altri, con in mente magari anche per un singolo boccone/istante, l'odore legato a quei viali di Zurigo, avvolti dal fumo dei Wurstel e dalle sciarpe tinte dai nostri colori e ben legate attorno a colli gonfi di vene.
E tu..... tu prendesti una via senza strade da percorrere... senza biglietti da strappare... senza posti in auto da riempire... senza brividi di freddo o sudore che imperla il viso... Era una strada tua... che io Ale e Stefano non potevamo percorrere, perchè come te non ne contemplavamo ancora l'esistenza...
Ricordo come fosse ora la tua mano oltre l'accesso dello stadio.... che m'indicava... che mi faceva capire che c'eri... ed io guardavo senza mai perderlo di vista il tuo cappelletto... muoversi tra le teste dei tifosi... girarsi verso di me... con sotto il tuo sorriso che mai si stancava di esistere...
Curioso.... sai? oggi, ricordo più la tua risata.... che la tua voce... ricordo le tue spalle che sussultavano mentre iniziavi a ridere e il tuo modo del tutto unico di arrivare a contagiare di gioia... solo con gli occhi chi ti circondava.
Per me resti sempre lì... Sandrino.... qualche metro più in la', già dentro quello stadio, col tuo cappelletto e la tua sciarpa .... che ridendo m'insulti e m'inviti a seguirti a tuo modo... che mi indichi la via.
Ciao Sandrì'..... tienici un posto in curva..... e non ti annoiare se ci mettiamo tanto ad arrivare....stiamo cercando di capire meglio da quest'altra parte dello stadio .... ma arriveremo.... non ti spostare più.

 
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C.P.T.

Lento scorre il tempo, in questo luogo contenuto da sbarre di ferro e viali di cemento. Bordi di grigio, racchiudono un quadro grigio. Timidi fili d’erba cercano di riprodurre una natura stretta in gusci di calce. Qualche tombino quà e la spezza la monotonia del piatto, creando fosse di piombo zigrinato ove si adagia la guazza di un’ennesima notte. Antenne come cipressi robotici si piegano al vento della sera e lampioni dagli steli affusolati, offrono i frutti di una luce fredda, racchiusa in boccioli di plastica e nettare di tungsteno. I cancelli che vedo di pesante imponenza claustrofobia, danzano ripetutamente, basculando negli stetti passi di un binario scollinato, pronti a ballare agli ingressi o alle uscite dei tanti girovaghi. Tetti e ombre, cartelli e tasti esausti di essere pigiati e una macchinetta automatica del caffé che sgorga ritmicamente miscele nere di noia per dissetare gole a volte incapaci di fare altro. Il libero andamento di questo micromondo si dissolve oltre il vetro che mi contiene; un uomo s’avvicina alle acustiche fessure dello scambio umano. Sua moglie lo attende qualche muro e sbarra più in la. Con una busta in mano, percorre i soliti passi nei soliti giorni, portando magari con se in quella busta vestita di bianco, piccole ampolle di aria lontana, da far respirare ingordamente alla sua amata. Siamo qui, come ieri, come domani a guadagnare un posto nell’olimpo dei vigilanti, dei trascrittori di nomi, dei bevitori di cappuccino, dei compositori di numeri, dei pigiatori di tasti, dei culi sprofondati nelle sedie, dei pensatori lontani che volano con la fantasia oltre le fessure equidistanti di un recinto; siamo qui a stretto contatto col nulla a condividere il niente e a sentire il senza. Si potrebbe dire basta a tutto questo, spogliarsi di un’assurda contestualità di sfere che rotolano sempre nello stesso verso e nel medesimo istante liberarsi di una cravatta nera che si slega dal suo calice di stoffa, e ritrovare finalmente il senso delle cose. Nessuna gabbia in fondo ha mai contenuto i pensieri di un sognatore.
 
 
 

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