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Velocità di uno sguardo

Post n°60 pubblicato il 13 Febbraio 2009 da Larbo
Foto di Larbo

Era inverno, i tetti delle basse case, imbiancati dalla neve trasmettevano l’idea del soffice e della purezza.
I camini fumavano e disegnavano nell’aria rigida e silenziosa, strane forme geometriche, creando, nella notte illuminata da milioni di stelle dalle braccia conserte, le visioni dei magici pittori dell’anima …………
Il fumo di un’alta ciminiera creava i bianchi uccelli fatti di nuvole di Magritte; dall’altro lato della strada s’innalzavano volando, i dedali ricchi di ombre dolenti del grande Escher; un camino isolato dagli altri, nell’oscurità di una piccola strada timida e stretta, si divertiva a disegnare romantico, i teneri abbracci di Klimt; la mia sigaretta, gelida tra le labbra, comunicava anch’essa la sua arte , inventando forme che si scioglievano nel vento come gli inquietanti orologi filanti di Dalì.
Tutto accadeva, nell’immobilità di una notte, di quell’ennesima notte trascorsa nelle vie di un centro…………………. L’insegna gialla del solito bar fatto di aliti, si rifletteva capovolta su di una larga lastra di ghiaccio……sembrava volersi specchiare anch’essa nel mondo, e dal suo riverbero gelido lessi la scritta RAB; pensai che nulla è dettato dal caso, forse il BAR dei viandanti aveva saturato la sua sopportazione, ascoltato troppe voci, raccolto molte lacrime, offeso con la sua accoglienza troppi uomini che entravano infelici ed uscivano ancor più tristi ed ubriachi. RAB, era la RABBIA del bar, era lo spirito di quell’insegna che piangeva, sapeva di donne dagli occhi color cenere che acquistavano sui suoi legnosi tavoli, bustine bianche della peggiore delle specie, perdendo la conoscenza della vita, una vita che volevano solo dimenticare, continuando a respirarla non per vivere ma per sopravvivere. RAB, era la RABBIA del bar, era aver sentito parlare gli assassini che si beavano del loro mostro, scambiandosi attorno ad un cerchio le vite delle loro vittime………………….
Mi allontanai da quella luce raccogliendomi nel cappotto; da una casa sentii provenire una musica che conoscevo, e più mi avvicinavo più sentivo di poter pronunciare con esattezza quel pezzo………………………….
Mi misi sotto la finestra ad ascoltare, finché pulita e non ritmata dal mio passo nella strada, sentii il suo senso……..era il CONFUTATIS MALEDICTIS, dal Requiem di MOZART, un brano che io amavo particolarmente.
Una composizione unica, triste, d’impatto, violenta e fresca come una giovane e bellissima donna che uccide i suoi pretendenti sorridendo e voltando loro le spalle; era come una bottiglia di whisky, da cui tracanni e non ti duole, ne bevi piccoli sorsi e senti entrarti nel corpo le spade di tutti i crociati di Gerusalemme…………..
Il CONFUTATIS andava ascoltato capovolto, cominciando dalla fine, senza chiedere il perché di quella musica, con gli occhi chiusi, anzi serrati, per poi riaprirli lentamente quando il viaggio stava per iniziare, e dopo aver percorso a ritroso le sensazioni di un uomo illuminato che sa di morire per rinascere ed ha accertato nel suo sogno umano la sfortuna di chi nasce per sapere solo di dover morire.
Ringraziai il gusto di quella casa e continuai il mio cammino.
Incrociai in una piazza un folto gruppo di anime attorno ad un palco, tre donne, molto affaccendate a convincere, indossavano un cartellino sul petto con su scritto “SE VOLETE DIMAGRIRE CHIEDETEMI COME FARE”;
tentavano in ogni modo di meravigliare i presenti, mostrando silenziose figure snelle dal palco che in poco tempo avevano perso chi 40, chi 60, chi addirittura 80 chili di peso, e tutto nel giro di brevi lassi………………..
Pensai allo spazio ed al tempo, al mio professore semicieco di fisica, a cui facevo firmare “sicuro”, i miei giorni di assenza a scuola, senza che lui si accorgesse mai che quella firma era una brutta falsificazione di quella di mia madre………pensai alle tre settimane, pensai ai chili di peso, al tempo ed allo spazio che ci danno la soluzione della velocità………
Poi, finalmente mi fu tutto chiaro. Nella vita, ognuno di noi è vittima di questi tre elementi; dal tempo, come misura di soddisfazione per l’appagamento di un bisogno; dallo spazio, quello in cui ci muoviamo e che egoisticamente vorremmo fosse più breve per noi e più lungo per gli altri, poiché in uno spazio breve crediamo di poter arrivare a tutto, mentre nella lunghezza di un percorso riconosciamo il senso del sacrificio, della sofferenza e delle distrazioni, e tutto ciò non ci piace; ed infine, la velocità, figlia del tempo e dello spazio, elemento di progressione, di fuga, di sorpasso, componente arida per un maratoneta, ma esplosiva per un centometrista. Velocità intesa come risultato immediato, senza attese, senza specchi, voluto....…già fatto.
Compresi, che molte anime di questo mondo, affidano il loro destino a quest’assurdo trinomio, non considerando i piaceri dell’immobilità e dell’osservazione……
Fui contento di una sola velocità, tornando a casa, quella del mio sguardo, in pochissime frazioni di secondo, avevo visto disegni nell’aria,…………………… più lontano, avevo raggiunto l’insegna di un bar,…………………… guardando una finestra dall’altra parte della strada, ero rimasto estasiato dalla dannazione mozartiana.
Spensi il tempo attorno a me …………… ero contento di vivere e questo era tutto."

 
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C.P.T.

Lento scorre il tempo, in questo luogo contenuto da sbarre di ferro e viali di cemento. Bordi di grigio, racchiudono un quadro grigio. Timidi fili d’erba cercano di riprodurre una natura stretta in gusci di calce. Qualche tombino quà e la spezza la monotonia del piatto, creando fosse di piombo zigrinato ove si adagia la guazza di un’ennesima notte. Antenne come cipressi robotici si piegano al vento della sera e lampioni dagli steli affusolati, offrono i frutti di una luce fredda, racchiusa in boccioli di plastica e nettare di tungsteno. I cancelli che vedo di pesante imponenza claustrofobia, danzano ripetutamente, basculando negli stetti passi di un binario scollinato, pronti a ballare agli ingressi o alle uscite dei tanti girovaghi. Tetti e ombre, cartelli e tasti esausti di essere pigiati e una macchinetta automatica del caffé che sgorga ritmicamente miscele nere di noia per dissetare gole a volte incapaci di fare altro. Il libero andamento di questo micromondo si dissolve oltre il vetro che mi contiene; un uomo s’avvicina alle acustiche fessure dello scambio umano. Sua moglie lo attende qualche muro e sbarra più in la. Con una busta in mano, percorre i soliti passi nei soliti giorni, portando magari con se in quella busta vestita di bianco, piccole ampolle di aria lontana, da far respirare ingordamente alla sua amata. Siamo qui, come ieri, come domani a guadagnare un posto nell’olimpo dei vigilanti, dei trascrittori di nomi, dei bevitori di cappuccino, dei compositori di numeri, dei pigiatori di tasti, dei culi sprofondati nelle sedie, dei pensatori lontani che volano con la fantasia oltre le fessure equidistanti di un recinto; siamo qui a stretto contatto col nulla a condividere il niente e a sentire il senza. Si potrebbe dire basta a tutto questo, spogliarsi di un’assurda contestualità di sfere che rotolano sempre nello stesso verso e nel medesimo istante liberarsi di una cravatta nera che si slega dal suo calice di stoffa, e ritrovare finalmente il senso delle cose. Nessuna gabbia in fondo ha mai contenuto i pensieri di un sognatore.
 
 
 

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