« OCCHI DI MAREDUE »

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Post n°62 pubblicato il 22 Febbraio 2009 da Larbo
Foto di Larbo

Cravatta incastrata e in un cono scolpita,

la giacca stirata e ben amidata,

camicia d’organza per fare creanza

e nel pantalone si bea  all’effetto

di dare alla riga un rialzo perfetto.

Lo specchio riflette il suo portamento,

si mette di lato, si sfiora nel mento,

accenna nel vetro il suo godimento.

Anfibio nel nero di un lucido scuro,

si muove esaltato, si sente sicuro.

Ha l’occhio celato da occhiale griffato,

capello curato da un gel profumato

o calva pelata di fresco rasata

e nello stridore  di una sgommata,

riveste di gioia la sua giornata.

Si ferma all’incrocio da buon cittadino,

ma se nel suo giro ha cose da fare,

il rosso non basta a farlo fermare

ma è pronto a bloccare con rapido scatto,

l’autista distratto o  il povero tale a cui decanta la fiera morale.

E’ un uomo che vive nella sensazione

di fare un mestiere per vocazione,

è fiero nel petto si crede più retto

non manca di tatto neppure al contatto di errori di fatto,

con cui si dimena facendo attenzione a farti pesare la sua professione.

Si sente assai scaltro di più di quell’altro,

non ama l’idea di poter sbagliare

ma gode all’effetto di dover giudicare,

è pronto a sparlare e a sproloquiare

lui ama soltanto poter denigrare.

 
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C.P.T.

Lento scorre il tempo, in questo luogo contenuto da sbarre di ferro e viali di cemento. Bordi di grigio, racchiudono un quadro grigio. Timidi fili d’erba cercano di riprodurre una natura stretta in gusci di calce. Qualche tombino quà e la spezza la monotonia del piatto, creando fosse di piombo zigrinato ove si adagia la guazza di un’ennesima notte. Antenne come cipressi robotici si piegano al vento della sera e lampioni dagli steli affusolati, offrono i frutti di una luce fredda, racchiusa in boccioli di plastica e nettare di tungsteno. I cancelli che vedo di pesante imponenza claustrofobia, danzano ripetutamente, basculando negli stetti passi di un binario scollinato, pronti a ballare agli ingressi o alle uscite dei tanti girovaghi. Tetti e ombre, cartelli e tasti esausti di essere pigiati e una macchinetta automatica del caffé che sgorga ritmicamente miscele nere di noia per dissetare gole a volte incapaci di fare altro. Il libero andamento di questo micromondo si dissolve oltre il vetro che mi contiene; un uomo s’avvicina alle acustiche fessure dello scambio umano. Sua moglie lo attende qualche muro e sbarra più in la. Con una busta in mano, percorre i soliti passi nei soliti giorni, portando magari con se in quella busta vestita di bianco, piccole ampolle di aria lontana, da far respirare ingordamente alla sua amata. Siamo qui, come ieri, come domani a guadagnare un posto nell’olimpo dei vigilanti, dei trascrittori di nomi, dei bevitori di cappuccino, dei compositori di numeri, dei pigiatori di tasti, dei culi sprofondati nelle sedie, dei pensatori lontani che volano con la fantasia oltre le fessure equidistanti di un recinto; siamo qui a stretto contatto col nulla a condividere il niente e a sentire il senza. Si potrebbe dire basta a tutto questo, spogliarsi di un’assurda contestualità di sfere che rotolano sempre nello stesso verso e nel medesimo istante liberarsi di una cravatta nera che si slega dal suo calice di stoffa, e ritrovare finalmente il senso delle cose. Nessuna gabbia in fondo ha mai contenuto i pensieri di un sognatore.
 
 
 

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